Sembra
impossibile ma...
Questa
è una storia vera. Fine estate 2010, il sole comincia a calare e ad
arrossare le “rupi fiammeggianti” di Bayanzag, siamo in un
accampamento di gher, le tipiche case-tenda circolari dei nomadi
mongoli, in mezzo al niente. Da giorni viaggiamo su piste sassose
appena percettibili, la strada asfaltata è un ricordo lontano. Per
chilometri e chilometri intorno a noi un deserto di rocce.
All’orizzonte un puntino, che diventa lentamente più grande. Mano
a mano che si avvicina si distingue il contorno di una persona, ma
ciò che sembra impossibile in quel contesto è che arriva a piedi,
di buon passo.
Pochi minuti dopo stringo la mano a Sarah Marquis. Minuta, capelli lunghi e occhi chiari, fisico leggero, da marciatrice, un pesante zaino sulle spalle, sudata, impolverata. “Dov’è che posso farmi un tè? Per me è una specie di rituale, una tazza di tè bollente e la fatica sparisce”. Così, come se rientrasse da una passeggiata nel parco. Invece arriva dalla Siberia. Centinaia di chilometri a piedi in un ambiente selvaggio, a volte ostile.
Pochi minuti dopo stringo la mano a Sarah Marquis. Minuta, capelli lunghi e occhi chiari, fisico leggero, da marciatrice, un pesante zaino sulle spalle, sudata, impolverata. “Dov’è che posso farmi un tè? Per me è una specie di rituale, una tazza di tè bollente e la fatica sparisce”. Così, come se rientrasse da una passeggiata nel parco. Invece arriva dalla Siberia. Centinaia di chilometri a piedi in un ambiente selvaggio, a volte ostile.
Cala
la notte e ci troviamo nella gher più grande davanti a un piatto di
buuz, i tipici ravioloni mongoli ripieni di pecora. Lei si racconta,
e io che pensavo di vivere il mio quarto d’ora d’avventura
girando la Mongolia a bordo di vecchie camionette russe praticamente
indistruttibili, con guida italiana e assistenti del posto, mi rendo
conto che l’Avventura con la A maiuscola è un’altra cosa. E mi
sento piccino piccino di fronte a questa piccola grande donna che
dalla sua Svizzera da anni gira il mondo a piedi, da sola. Giorni e
notti senza incontrare nessuno, una piccola tenda, la sacca con i
viveri. Un passo dopo l’altro per rincorrere i suoi sogni: scoprire
il mondo fuori e dentro di sé, toccare con mano, dialogare con la
natura, avvicinarsi a verità che solo la solitudine più profonda
consente di sfiorare. Qui, nel campo di gher, si sente in un grande
albergo. E’ una delle tappe più comode del trekking iniziato dalla
Siberia qualche giorno prima, uno dei suoi tanti viaggi impossibili,
che la dovrebbe portare fino a Melbourne, in Australia. Il viaggio si
fermerà molto prima, al confine con la Cina, dove Sarah avrà
problemi con le autorità, e rischierà perfino il carcere. Uno dei
tanti incidenti di percorso. Ma lei non si ferma, ricomincia, e
cammina, cammina, per mesi, per anni.
La
mattina dopo, colazione e via, si riparte. Io seduto sulla mia
camionetta, lei zaino in spalla, passo dopo passo, finché diventa un
puntino in un orizzonte infinitamente grande. Oggi Sarah Marquis
nella sua Svizzera è quasi una celebrità. Non che a lei interessi
più di tanto, essere conosciuta. Sono altri i sogni che rincorre
facendo trekking da sola da 24 anni, nei quali ha traversato mezzo
mondo e vissuto cose che noi umani neanche possiamo immaginare. Di
recente ha ricevuto
il premio Avventuriera dell'anno, è diventata esploratrice del
National Geographic e ha da poco pubblicato il libro “Selvaggia”
(Sperling&Kupfer),
di cui discutemmo a lungo come di uno dei suoi sogni da realizzare
nel silenzio di una notte, in un accampamento mongolo ai piedi delle
rupi fiammeggianti di Bayanzag.
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