Sembra
impossibile ma...
Questa
è una storia vera. Viste dalla cima delle scogliere nere di John
O’Groats, le Orcadi sembrano balene distese su un mare irreale che
alla luce del sole di mezzanotte diventa d’avorio. Oltre l’estremo
nord della penisola britannica, un finis
terrae
che le pecore dividono con gli uccelli marini, il vento freddo spazza
in tutte le stagioni, dall’Atlantico e dal mare del Nord, l’anello
degli antichissimi menhir di Brodgar, le case dei pescatori di
Kirkwall e di Stromness, gli scheletri delle navi della flotta
tedesca semiaffondati nella baia di Scapa Flow; e la chiesetta degli
italiani.
E’
una tappa obbligata per i turisti che in luglio e agosto arrivano
alle isole, non c’è depliant che non ricordi come nel 1943 i
prigionieri di guerra, reclusi su una delle isole più piccole, Lamb
Hoim, abbiano edificato un capannone di lamiera per riunirsi a
pregare; la mano di un artista ha poi riempito l’interno di
affreschi dai colori tenui, e altre mani hanno abbellito con cura
paziente la cappella, fino a trasformarla in una bomboniera che gli
orcadiani mostrano
con orgoglio.
Erano
prigionieri italiani, un migliaio circa, catturati in Nord Africa ai
primi rombi di cannone. Churchill li aveva voluti alle Orcadi.
Dovevano costruire quattro grandi barriere, “una cintura di strade
per collegare cinque isole, così gli abitanti non dovranno più
prendere
scomodi traghetti” dissero agli ufficiali italiani. Era una bugia.
Le barriere, che oggi sono veramente strade, erano una formidabile
difesa contro i temutissimi sommergibili tedeschi. Bruciava ancora il
ricordo del blitz dell’U-boat 47, penetrato temerariamente
nell’ottobre del 1939 nella base navale di Scapa Flow:
quattro siluri a segno, ottocentotrentatre i marinai britannici
morti. Tre
anni di lavoro dal ’42 al ‘44, e le “Churchill barriers”
furono portate a termine mentre l’astro nazista declinava.
Di
ricordi di guerra le Orcadi sono piene quasi quanto di resti
archeologici di eccezionale bellezza. Gli italian
prisoners
fanno. ormai parte della storia di queste terre. Sui tre anni di
forzata convivenza coi nemici “piccoli, scuri e scottati dal sole”
è stato scritto un libro, e in un museo nel capoluogo sono
conservati i manufatti del campo di prigionia. «Sbarcarono una
mattina di gennaio
- si legge in un capitoIo - in una lunga fila sul molo.
Avevano
vestiti leggeri, e sembravano soffrire molto il freddo; ma iniziarono
a marciare intonando canti militari e urlando a gran voce. E noi
eravamo contenti che fossero ben sorvegliati».
Di
tanto in tanto dei ricordi di guerra si occupa anche “The
Orcadian”, giornale locale che dal 1854 racconta, due volte la
settimana, i fatti piccoli e grandi dell’arcipelago. “Cinquanta
anni dopo: emozione per il ritorno dei prigionieri di guerra” è il
titolo che apre la prima pagina dell’undici giugno, con foto di un
gruppo di anziani sorridenti davanti alla chiesetta. Sono tornati,
dunque, in otto; ad attenderli c’era la banda con le cornamuse, e
un comitato di ricevimento con il console italiano, il sindaco, le
autorità. Si sono fermati una settimana, visitando i luoghi dove
avevano speso tre anni, lunghi come solo ,quelli “intorno a
vent’anni” sanno esserlo, e
resi interminabili dalla prigionia. Il cronista locale racconta i
momenti di festa di questa sentimental
journey,
I’emozione fino alle lacrime degli “amici italiani” di fronte a
paesaggi rimasti immutati, alla chiesetta costruita pezzo per pezzo,
agli oggetti lavorati a mano tanto tempo prima e ora conservati nel
museo. Poi sono ripartiti; lasciando le loro firme di visitatori un
po’ speciali sul librone degli ospiti nell’ Italian
Chapel.
Otto
autografi, e fra questi quello di Ugo Barucci, da Piombino. Dalla sua
casa di Salivoli si vede la sagoma rassicurante dell’isola d’Elba,
e i riflessi dorati sulle onde del Tirreno confermano: il mare del
Nord è lontano anni luce.
«Abbiamo
realizzato un sogno – dice Barucci – una volta l’anno noi ex
prigionieri delle Orcadi ci trovavamo, e questo viaggio era un chiodo
fisso. Anche per Domenico Chiocchetti, I'artista che ha dipinto la
cappella. Ma lui ha ottantadue anni e problemi di cuore, non ce l’ha
fatta a viaggiare; è venuta sua figlia, e ha detto agli Orcadiani
che suo padre è orgoglioso di lasciargli in eredita la sua opera.
Chiocchetti è di Moena, un artista vero, ha fatto tanti quadri anche
nelle chiese delle Dolomiti».
La
cappella affrescata, i soldati italiani, l’isola dove tornare dopo
mezzo secolo a caccia del fantasma della gioventù: qualcuno, con un
po’ di fantasia potrebbe anche farci un film. E magari vincere
l’Oscar...
«Più
che un film, la mia è stata un’odissea, iniziata quando avevo
ventun anni, e conclusa quando ne avevo già ventisette. Sono stato
fatto prigioniero l’undici dicembre del 1940 vicino a Sidi el
Barrani, in Nord Africa. Eravamo accampati dopo la prima avanzata
oltre il confine egiziano, e la controffensiva ci colse di sorpresa.
Circondati, ci arrendemmo: eravamo migliaia, tutta la divisione
Catanzaro di
artiglieria. Dieci mesi in Egitto, vicino al Cairo, poi da Suez ci
hanno portato in Sudafrica, vicino a Pretoria, dove sono stato due
mesi e mezzo. Per andare in Sudafrica siamo stati sulla nave da
agosto
all’otto gennaio, un viaggio lento e pericoloso con i sommergibili
tedeschi in agguato. Nessuno conosceva, la destinazione, chi diceva
India, chi Australia. Dal Sudafrica ci trasferirono a Liverpool, dove
arrivammo l’otto gennaio del’42, poi a Edimburgo, tre settimane,
quindi alle Orcadi, dove siamo rimasti quasi tre anni fino al 1944,
infine nelIo Yorkshire, a Skipton. Fui liberato l’otto maggio del
1946».
I
tre anni alle Orcadi furono particolarmente duri?
«L’unica
cosa davvero terribile è il clima; Quando ci portarono lassù, molti
sapevano solo di essere a Nord, solo alcuni avevano un’idea della
collocazione geografica di quei posti mai sentiti nominare. Arrivammo
in pieno inverno, quando il sole sorge per pochissime ore, e soffia
un vento freddissimo che arriva dal Nord; nevica anche, ma è neve
leggera, farinosa, e il vento la spazza via, te la appiccica addosso.
Per il resto, gli inglesi non ci trattavano male, lavoravamo, avevamo
di che mangiare. Mancava solo la libertà. No, il periodo più duro
per me è stato un altro; subito dopo la cattura, in Egitto. In
questa fase anche moralmente si sentiva che un uomo non era più un
uomo, una sensazione dura specie a venti anni. Alle Orcadi. ci
dissero subito che dovevamo costruire la strada ” per unire le
isole. Lavoravamo otto ore al giorno, io fra l’altro ero in
ufficio; avevamo un piccolo stipendio settimanale che si consumava
alla cantina che gli inglesi ci avevano allestito, dove passavamo le
serate. In ogni camerata eravamo dodici, le condizioni igieniche
erano più che decenti, c’era la lavanderia, la cucina, e gestivamo
tutto noi. Facevamo diverse attività sportive, sflde di calcio e
incontri di altri sport. Mettemmo su anche una compagnia teatrale che
portava in scena spettacoli».
Avevate
contatti con la popolazione?
«No,
solo chi andava in paese a fare la spesa e pochi altri uscivano dal
campo. Gli unici civili che vedevamo erano gli specialisti che
venivano a dirigere i lavori, e ci davano sigarette e altri generi di
conforto. Anche la posta arrivava regolarmente, mentre in precedenza
in Italia avevano saputo che ero prigioniero solo dopo dieci mesi. Il
problema più grosso nacque quando scoprimmo i veri scopi del nostro
lavoro alle barriere. Ci rifiutammo di fare lavori bellici, e gli
inglesi punirono il nostro sciopero tenendoci a pane e acqua per
quaranta giorni. Fu il periodo più duro. Noi, prevedendo ritorsioni,
avevamo messo da parte delle provviste, pane e patate, nascoste nelle
intercapedini dei capannoni dove dormivamo; ma gli inglesi trovarono
alcune patate, quindi scoprirono tutti i nascondigli, e rimanemmo
fregati. Poi cambiò il comandante e il nuovo si dimostrò più
comprensivo, ci garantì che il nostro lavoro era di pubblica
utilità, ci promise delle migliorie. E noi eravamo stremati. Lo
sciopero finì tornammo al lavoro ma alcuni continuavano a
protestare. Arrivò l’otto settembre».
Come
sapeste ciò che succedeva in Italia?
«Io
avevo la radio e fui il primo, forse anche prima che in Italia, a
sapere che Mussolini era caduto. Detti la notizia ai miei compagni.
Alcuni non volevano crederci, altri piangevano, con le mani nei
capelli. Gli inglesi vennero a chiederci chi era disposto a
collaborare. La metà di noi decise di collaborare, gli altri no, e
gli inglesi furono costretti a dividerci perché nelle camerate erano
botte. Il comandante del campo ci radunò allora in un teatro, e ci
fece sfilare davanti a due porte, imponendoci una scelta definitiva.
Chi collaborava doveva entrare nella prima porta, gli altri nella
seconda. Noi restammo alle isole, gli ‘irriducibili’ furono
mandati in campi di punizione in Inghilterra e non li abbiamo più
rivisti. La collaborazione consisteva solo nel lavoro , in cambio
avemmo un trattamento migliore. Ci dettero una divisa da prigionieri,
simile a quella degli inglesi, con scritto Italy sulle spalline».
Come
nacque l’idea della chiesetta?
«Il
cappellano diceva messa nelle baracche. Noi proponemmo di adibirne
una esclusivamente a quello scopo. Il comandante non fece obiezioni,
“Purché facciate il vostro dovere si può fare tutto”. Per lo
più la chiesetta è fatta con roba trovata a bordo delle vecchie
navi, quelle tedesche della prima guerra. Alcuni di noi, scortati
dagli inglesi, entravano nei relitti e prendevano ciò che serviva:
legnami, pezzi metallici, fili della luce. Fu allora che si fece
avanti Chiocchetti. Ha dipinto tutto lui, da solo. Quando andammo
via, ci dispiacque lasciare la nostra cappella. Ma il lavoro
alle barriere finì,e il comandante ci informò dell’imminente
trasferimento a Sud, nello Yorkshire. Avevamo passato quasi tre anni
sull’isola. In Inghilterra le cose comunque migliorarono, avevamo
più libertà, potevamo allontanarci, non troppo però, e rientrare
entro le ventidue. Ci vedevamo anche con le ragazze del posto, alcuni
si sono sposati e sono rimasti là. L’ otto maggio del 1946 ci
liberarono, tornammo in nave, ci sbarcarono a Napoli».
Come
fu il rientro?
«L’Italia
era a pezzi per i sei anni di prigionia ci dettero diecimila lire. lo
pensai che mi avessero dato una bella cifra: prima di partire dieci
lire era la paga di una giornata di lavoro di un operaio. Andai in un
gabinetto pubblico, e dovetti pagare: dieci lire. Capii che con quei
soldi ci sarei arrivato appena a casa. Poi è ricominciata la vita,
mi sono sposato, ho fatto il muratore, adesso sono in pensione. E
per i
sei anni di prigionia non ho più avuto neanche una lira».
Dopo
quasi cinquant’anni, il ritorno alle Orcadi...
«Già,
nessuno di noi era mai tornato; solo Chiocchetti nel ’62 era andato
a restaurare la chiesa Ci hanno fatto grandi feste, prima a
Edimburgo, col console che ci è venuto a prendere e tutta la
comunità italiana. Poi alle Orcadi, dove hanno pensato a tutto
quelli del
comitato inglese per la preservazione della chiesetta. Sono
stati
sette giorni incredibili, tante feste, pranzi, ricevimenti, gente
commossa che ci veniva a stringere. le mani. Due anziane donne si
sono avvicinate e mi hanno chiesto notizie di due italiani, io però
non li ho più rivisti. Se ne sono andate dispiaciute. Gran parte
delle isole
le avevo visto solo di sfuggita. Il momento più bello, ma anche
quello più duro, è stato quando abbiamo passato la collina che dà
sulla chiesetta: su quello scoglio ho passato tre anni della mia
vita, in terra ci sono ancora le tracce della baracca dove ho dormito
per tanti mesi, e tutto e rimasto come nel 1944, il tempo sembra
essersi fermato. Le lacrime mi cadevano da sole».
La
voce si spezza in un silenzio dove giocano tristezza e nostalgia poi
Barucci conclude: «Si, sono posti che mi hanno lasciato dentro
qualcosa; io però gli ho lasciato di più: i migliori anni della mia
vita, la mia gioventù».
Piombino,
Luglio 1992