sabato 28 dicembre 2019

247 - IL PRIGIONIERO DELLE ORCADI



Sembra impossibile ma...
Questa è una storia vera. Viste dalla cima delle scogliere nere di John O’Groats, le Orcadi sembrano balene distese su un mare irreale che alla luce del sole di mezzanotte diventa d’avorio. Oltre l’estremo nord della penisola britannica, un finis terrae che le pecore dividono con gli uccelli marini, il vento freddo spazza in tutte le stagioni, dall’Atlantico e dal mare del Nord, l’anello degli antichissimi menhir di Brodgar, le case dei pescatori di Kirkwall e di Stromness, gli scheletri delle navi della flotta tedesca semiaffondati nella baia di Scapa Flow; e la chiesetta degli italiani.
E’ una tappa obbligata per i turisti che in luglio e agosto arrivano alle isole, non c’è depliant che non ricordi come nel 1943 i prigionieri di guerra, reclusi su una delle isole più piccole, Lamb Hoim, abbiano edificato un capannone di lamiera per riunirsi a pregare; la mano di un artista ha poi riempito l’interno di affreschi dai colori tenui, e altre mani hanno abbellito con cura paziente la cappella, fino a trasformarla in una bomboniera che gli orcadiani mostrano con orgoglio.
Erano prigionieri italiani, un migliaio circa, catturati in Nord Africa ai primi rombi di cannone. Churchill li aveva voluti alle Orcadi. Dovevano costruire quattro grandi barriere, “una cintura di strade per collegare cinque isole, così gli abitanti non dovranno più prendere scomodi traghetti” dissero agli ufficiali italiani. Era una bugia. Le barriere, che oggi sono veramente strade, erano una formidabile difesa contro i temutissimi sommergibili tedeschi. Bruciava ancora il ricordo del blitz dell’U-boat 47, penetrato temerariamente nell’ottobre del 1939 nella base navale di Scapa Flow: quattro siluri a segno, ottocentotrentatre i marinai britannici morti. Tre anni di lavoro dal ’42 al ‘44, e le “Churchill barriers” furono portate a termine mentre l’astro nazista declinava.
Di ricordi di guerra le Orcadi sono piene quasi quanto di resti archeologici di eccezionale bellezza. Gli italian prisoners fanno. ormai parte della storia di queste terre. Sui tre anni di forzata convivenza coi nemici “piccoli, scuri e scottati dal sole” è stato scritto un libro, e in un museo nel capoluogo sono conservati i manufatti del campo di prigionia. «Sbarcarono una mattina di gennaio - si legge in un capitoIo - in una lunga fila sul molo. Avevano vestiti leggeri, e sembravano soffrire molto il freddo; ma iniziarono a marciare intonando canti militari e urlando a gran voce. E noi eravamo contenti che fossero ben sorvegliati».
Di tanto in tanto dei ricordi di guerra si occupa anche “The Orcadian”, giornale locale che dal 1854 racconta, due volte la settimana, i fatti piccoli e grandi dell’arcipelago. “Cinquanta anni dopo: emozione per il ritorno dei prigionieri di guerra” è il titolo che apre la prima pagina dell’undici giugno, con foto di un gruppo di anziani sorridenti davanti alla chiesetta. Sono tornati, dunque, in otto; ad attenderli c’era la banda con le cornamuse, e un comitato di ricevimento con il console italiano, il sindaco, le autorità. Si sono fermati una settimana, visitando i luoghi dove avevano speso tre anni, lunghi come solo ,quelli “intorno a vent’anni” sanno esserlo, e resi interminabili dalla prigionia. Il cronista locale racconta i momenti di festa di questa sentimental journey, I’emozione fino alle lacrime degli “amici italiani” di fronte a paesaggi rimasti immutati, alla chiesetta costruita pezzo per pezzo, agli oggetti lavorati a mano tanto tempo prima e ora conservati nel museo. Poi sono ripartiti; lasciando le loro firme di visitatori un po’ speciali sul librone degli ospiti nell’ Italian Chapel.
Otto autografi, e fra questi quello di Ugo Barucci, da Piombino. Dalla sua casa di Salivoli si vede la sagoma rassicurante dell’isola d’Elba, e i riflessi dorati sulle onde del Tirreno confermano: il mare del Nord è lontano anni luce.
«Abbiamo realizzato un sogno – dice Barucci – una volta l’anno noi ex prigionieri delle Orcadi ci trovavamo, e questo viaggio era un chiodo fisso. Anche per Domenico Chiocchetti, I'artista che ha dipinto la cappella. Ma lui ha ottantadue anni e problemi di cuore, non ce l’ha fatta a viaggiare; è venuta sua figlia, e ha detto agli Orcadiani che suo padre è orgoglioso di lasciargli in eredita la sua opera. Chiocchetti è di Moena, un artista vero, ha fatto tanti quadri anche nelle chiese delle Dolomiti».
La cappella affrescata, i soldati italiani, l’isola dove tornare dopo mezzo secolo a caccia del fantasma della gioventù: qualcuno, con un po’ di fantasia potrebbe anche farci un film. E magari vincere l’Oscar...
«Più che un film, la mia è stata un’odissea, iniziata quando avevo ventun anni, e conclusa quando ne avevo già ventisette. Sono stato fatto prigioniero l’undici dicembre del 1940 vicino a Sidi el Barrani, in Nord Africa. Eravamo accampati dopo la prima avanzata oltre il confine egiziano, e la controffensiva ci colse di sorpresa. Circondati, ci arrendemmo: eravamo migliaia, tutta la divisione Catanzaro di artiglieria. Dieci mesi in Egitto, vicino al Cairo, poi da Suez ci hanno portato in Sudafrica, vicino a Pretoria, dove sono stato due mesi e mezzo. Per andare in Sudafrica siamo stati sulla nave da agosto all’otto gennaio, un viaggio lento e pericoloso con i sommergibili tedeschi in agguato. Nessuno conosceva, la destinazione, chi diceva India, chi Australia. Dal Sudafrica ci trasferirono a Liverpool, dove arrivammo l’otto gennaio del’42, poi a Edimburgo, tre settimane, quindi alle Orcadi, dove siamo rimasti quasi tre anni fino al 1944, infine nelIo Yorkshire, a Skipton. Fui liberato l’otto maggio del 1946».
I tre anni alle Orcadi furono particolarmente duri?
«L’unica cosa davvero terribile è il clima; Quando ci portarono lassù, molti sapevano solo di essere a Nord, solo alcuni avevano un’idea della collocazione geografica di quei posti mai sentiti nominare. Arrivammo in pieno inverno, quando il sole sorge per pochissime ore, e soffia un vento freddissimo che arriva dal Nord; nevica anche, ma è neve leggera, farinosa, e il vento la spazza via, te la appiccica addosso. Per il resto, gli inglesi non ci trattavano male, lavoravamo, avevamo di che mangiare. Mancava solo la libertà. No, il periodo più duro per me è stato un altro; subito dopo la cattura, in Egitto. In questa fase anche moralmente si sentiva che un uomo non era più un uomo, una sensazione dura specie a venti anni. Alle Orcadi. ci dissero subito che dovevamo costruire la strada ” per unire le isole. Lavoravamo otto ore al giorno, io fra l’altro ero in ufficio; avevamo un piccolo stipendio settimanale che si consumava alla cantina che gli inglesi ci avevano allestito, dove passavamo le serate. In ogni camerata eravamo dodici, le condizioni igieniche erano più che decenti, c’era la lavanderia, la cucina, e gestivamo tutto noi. Facevamo diverse attività sportive, sflde di calcio e incontri di altri sport. Mettemmo su anche una compagnia teatrale che portava in scena spettacoli».
Avevate contatti con la popolazione?
«No, solo chi andava in paese a fare la spesa e pochi altri uscivano dal campo. Gli unici civili che vedevamo erano gli specialisti che venivano a dirigere i lavori, e ci davano sigarette e altri generi di conforto. Anche la posta arrivava regolarmente, mentre in precedenza in Italia avevano saputo che ero prigioniero solo dopo dieci mesi. Il problema più grosso nacque quando scoprimmo i veri scopi del nostro lavoro alle barriere. Ci rifiutammo di fare lavori bellici, e gli inglesi punirono il nostro sciopero tenendoci a pane e acqua per quaranta giorni. Fu il periodo più duro. Noi, prevedendo ritorsioni, avevamo messo da parte delle provviste, pane e patate, nascoste nelle intercapedini dei capannoni dove dormivamo; ma gli inglesi trovarono alcune patate, quindi scoprirono tutti i nascondigli, e rimanemmo fregati. Poi cambiò il comandante e il nuovo si dimostrò più comprensivo, ci garantì che il nostro lavoro era di pubblica utilità, ci promise delle migliorie. E noi eravamo stremati. Lo sciopero finì tornammo al lavoro ma alcuni continuavano a protestare. Arrivò l’otto settembre».
Come sapeste ciò che succedeva in Italia?
«Io avevo la radio e fui il primo, forse anche prima che in Italia, a sapere che Mussolini era caduto. Detti la notizia ai miei compagni. Alcuni non volevano crederci, altri piangevano, con le mani nei capelli. Gli inglesi vennero a chiederci chi era disposto a collaborare. La metà di noi decise di collaborare, gli altri no, e gli inglesi furono costretti a dividerci perché nelle camerate erano botte. Il comandante del campo ci radunò allora in un teatro, e ci fece sfilare davanti a due porte, imponendoci una scelta definitiva. Chi collaborava doveva entrare nella prima porta, gli altri nella seconda. Noi restammo alle isole, gli ‘irriducibili’ furono mandati in campi di punizione in Inghilterra e non li abbiamo più rivisti. La collaborazione consisteva solo nel lavoro , in cambio avemmo un trattamento migliore. Ci dettero una divisa da prigionieri, simile a quella degli inglesi, con scritto Italy sulle spalline».
Come nacque l’idea della chiesetta?
«Il cappellano diceva messa nelle baracche. Noi proponemmo di adibirne una esclusivamente a quello scopo. Il comandante non fece obiezioni, “Purché facciate il vostro dovere si può fare tutto”. Per lo più la chiesetta è fatta con roba trovata a bordo delle vecchie navi, quelle tedesche della prima guerra. Alcuni di noi, scortati dagli inglesi, entravano nei relitti e prendevano ciò che serviva: legnami, pezzi metallici, fili della luce. Fu allora che si fece avanti Chiocchetti. Ha dipinto tutto lui, da solo. Quando andammo via, ci  dispiacque lasciare la nostra cappella. Ma il lavoro alle barriere finì,e il comandante ci informò dell’imminente trasferimento a Sud, nello Yorkshire. Avevamo passato quasi tre anni sull’isola. In Inghilterra le cose comunque migliorarono, avevamo più libertà, potevamo allontanarci, non troppo però, e rientrare entro le ventidue. Ci vedevamo anche con le ragazze del posto, alcuni si sono sposati e sono rimasti là. L’ otto maggio del 1946 ci liberarono, tornammo in nave, ci sbarcarono a Napoli».
Come fu il rientro?
«L’Italia era a pezzi per i sei anni di prigionia ci dettero diecimila lire. lo pensai che mi avessero dato una bella cifra: prima di partire dieci lire era la paga di una giornata di lavoro di un operaio. Andai in un gabinetto pubblico, e dovetti pagare: dieci lire. Capii che con quei soldi ci sarei arrivato appena a casa. Poi è ricominciata la vita, mi sono sposato, ho fatto il muratore, adesso sono in pensione. E per i sei anni di prigionia non ho più avuto neanche una lira».
Dopo quasi cinquant’anni, il ritorno alle Orcadi...
«Già, nessuno di noi era mai tornato; solo Chiocchetti nel ’62 era andato a restaurare la chiesa Ci hanno fatto grandi feste, prima a Edimburgo, col console che ci è venuto a prendere e tutta la comunità italiana. Poi alle Orcadi, dove hanno pensato a tutto quelli del comitato inglese per la preservazione della chiesetta. Sono stati sette giorni incredibili, tante feste, pranzi, ricevimenti, gente commossa che ci veniva a stringere. le mani. Due anziane donne si sono avvicinate e mi hanno chiesto notizie di due italiani, io però non li ho più rivisti. Se ne sono andate dispiaciute. Gran parte delle isole le avevo visto solo di sfuggita. Il momento più bello, ma anche quello più duro, è stato quando abbiamo passato la collina che dà sulla chiesetta: su quello scoglio ho passato tre anni della mia vita, in terra ci sono ancora le tracce della baracca dove ho dormito per tanti mesi, e tutto e rimasto come nel 1944, il tempo sembra essersi fermato. Le lacrime mi cadevano da sole».
La voce si spezza in un silenzio dove giocano tristezza e nostalgia poi Barucci conclude: «Si, sono posti che mi hanno lasciato dentro qualcosa; io però gli ho lasciato di più: i migliori anni della mia vita, la mia gioventù».
Piombino, Luglio 1992





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