lunedì 31 agosto 2020

731 - GLI ULTIMI CENTO METRI

 


Sembra impossibile ma...

Questa è una storia semplice, pulita, facile anche da scrivere, non richiede neanche un'introduzione. Una di quelle storie che in un mondo ideale non dovrebbero stare in “Sembra impossibile ma...”. Ringrazio Gei Gi per la segnalazione e ve la racconto.

Pamplona 2 dicembre 2012. Sono le 13 quando lo starter dà il via sotto una pioggerellina sottile al ventunesimo Burlada Cross Country Trofeo Regno di Navarra, importante gara podistica. Fra i favoriti c'è il ventiquattrenne basco Ivan Fernandez Anaya: ha vinto la gara l'anno precedente, il suo primo successo internazionale, ma quest'anno è assai più dura, ci sono diversi campioni e il più forte di tutti è il keniano Abel Mutai che pochi mesi prima ha vinto la medaglia di bronzo nei 3000 siepi alle Olimpiadi di Londra. Nei primi 6 chilometri Ivan e Abel corrono fianco a fianco in un gruppetto di 8 fuggitivi, poi il keniano cambia ritmo e va via; lo spagnolo non molla, lo insegue, lo raggiunge. E decide di provare il tutto per tutto: attacca a fondo, dà il massimo, ma Mutai non gli si scolla dai talloni. Vanno avanti così per 4 chilometri, poi a 250 metri dal traguardo Abel fa il forcing finale, ingrana un'altra marcia e lo lascia indietro a una distanza incolmabile. Cosa succede dopo lasciamolo raccontare direttamente a Ivan.

«Ho visto che lui a cento metri dal traguardo ha rallentato decisamente. Si era confuso con la segnaletica, pensava di essere già arrivato. Si è fermato, guardando gli spettatori che gli gridavano di andare avanti, che non era finita. Ma lui non sa lo spagnolo, non capiva. Quando l’ho raggiunto mi sono reso conto di quello che stava succedendo, allora gli ho messo una mano sulla schiena, gli ho detto che l'arrivo era più avanti, ma non capiva neanche me. Così l'ho spinto, l'ho accompagnato fino al traguardo”.

Già, Ivan non ci ha pensato neanche per un istante a superarlo e ad andare a vincere. I giornalisti l'hanno subito circondato: “Perché l'hai fatto?Perché l'hai lasciato vincere?". ′Non l'ho lasciato vincere: stava per vincere, si era guadagnato la corsa, la gara era sua. Non meritavo di vincere. Ho fatto quello che dovevo fare. Lui era il legittimo vincitore". Dopo la gara i due si sono detti poco, frenati dalla barriera linguistica: “Siamo stati insieme una mezz'ora, poi mi ha ringraziato, ci siamo abbracciati”. Meno contento l'allenatore di Ivan, la leggenda spagnola della maratona Santi Pérez. “Mi ha detto che quando si calzano le scarpette lo si fa per vincere. E ha aggiunto che lui avrebbe tirato dritto fino al traguardo. Lo capisco, e poi è stato onesto ad ammetterlo pubblicamente. Ma quale sarebbe stato il merito della mia vittoria? Quale l'onore in quella medaglia? Cosa ne avrebbe pensato mia madre? Queste sono le cose che mi hanno trasmesso i miei, e credo siano quelle da trasmettere ai nostri figli: il mio sogno è che un giorno sia possibile un mondo dove ci aiutiamo a vicenda a vincere”. Chapeau!

Guarda i video con l'arrivo della corsa e un'intervista a Ivan Fernandez Anaya. 

 






domenica 30 agosto 2020

730 - I MORTI VIVENTI DI SULAWESI

 


Sembra impossibile ma...

Partecipare a un rito funebre sull'isola indonesiana di Sulawesi e come fare un giro nel tunnel dell'orrore. Ringrazio Luca Ramacciotti e Andrea Moretti per la segnalazione e vi racconto le insolite usanze dei Toraja.

La parola significa "popolo degli altipiani" e loro sono un milione; circa la metà vive nella reggenza di Tana Toraja, e molti abitano le “tongkonan”, grandi case tradizionali col tetto a punta. Ma da qualche anno sono conosciuti in tutto il mondo per i loro particolarissimi riti funebri. Il rapporto con l'aldilà è fondamentale nella cultura Toraja: lo spirito dei morti deve restare o poter ritornare al villaggio, e se qualcuno muore lontano i parenti fanno l'impossibile per riportare il corpo a casa. Più ricco e potente è il defunto, più complesso e costoso sarà il rituale. La festa per la morte di un nobile può durare diversi giorni, e vi partecipano migliaia di persone. La tomba è assai costosa e spesso richiede tempo per esser completata. Così in attesa che la famiglia raccolga i fondi necessari, il funerale si tiene settimane o mesi dopo la morte. In questo periodo il corpo del defunto, trattato per non decomporsi, viene avvolto in stoffe e tenuto nel tongkonan. Non solo, ma fa anche vita sociale: siede a tavola con la famiglia, riposa in poltrona, dorme nel letto, e se arrivano ospiti sono tenuti a comportarsi come fosse ancora vivo, salutarlo, discutere con lui e rendergli omaggio.

Poi arriva il giorno del funerale, il Tomate, così cruento che turisti e curiosi che iniziano a seguirlo, spesso non reggono e se ne vanno sconvolti. Si inizia con combattimenti fra tori, segue il sacrificio degli animali appartenuti al morto e il massacro dei bufali d'acqua. Ne vengono macellati in quantità proporzionale all'importanza del defunto, poi le carcasse, testa compresa, sono allineate in attesa del defunto, al quale saranno indispensabili per approdare nell'aldià: più bufali avrà, più velocemente arriverà e troverà pace. Bufali, maiali e altri animali vengono macellati a decine col machete, e i getti di sangue vengono raccolti in lunghi tubi di bambù, mentre i giovani fanno festa ballando a ritmo di musiche tradizionali. Segue una serie di combattimenti di galli (almeno 25 coppie), poi la salma viene inumata. Finisce qui? Macché.

Ogni anno in agosto si svolge il Ma'Nene, un rituale che prevede la riesumazione dei corpi dei defunti sepolti da almeno tre anni. Che vengono riportati a casa dove i parenti li lavano, li pettinano, li vestono con abiti nuovi. Poi ricevono ospiti e scattano foto di gruppo con la mummia al centro sorretta dal loro abbraccio. Segue la processione per le strade del villaggio. Anche chi è morto da decine di anni viene riesumato, e se si trovano solo ossa, vengono raccolte in stoffe pregiate; alla sera i corpi vengono ricomposti nelle bare e riportati al cimitero. Una pratica che si ripete da oltre 700 anni, ma che negli ultimi decenni è diventata un vero Festival della morte che attira ogni anno migliaia di turisti. Così tanti che Sulawesi è oggi la seconda meta turistica in Indonesia dopo Bali. E voi cosa preferite, i morti dei Toraja o le spiagge balinesi?

Intanto che ci pensate, guardate i video per assistere agli incredibili rituali funebri.

 



giovedì 27 agosto 2020

729 - LO SGUARDO DI SATANA

 


Sembra impossibile ma...

Il Trionfo dell'Ordine dei Benedettini, uno dei dipinti più grandi del mondo, che ricopre gran parte della parete d'ingresso interna della basilica di San Pietro a Perugia, nasconde un segreto: basta allontanarsi di qualche metro lungo la navata per veder emergere dal vortice di corpi e di colori un'enorme figura demoniaca.

Ringrazio Stella Rubia che mi segnala il misterioso enigma nascosto nell'opera realizzata nel 1592 da Antonio Vassilacchi detto l'Aliense, uno dei quadri più grandi d'Europa (oltre 90 metriquadri). Un enorme tourbillon di immagini, oltre 300 fra santi, pontefici, cardinali, vescovi e abati, tutte più che a grandezza naturale, che contornano San Benedetto da Norcia. A breve distanza si vedono solo le figure distinte, ma man mano che ci si allontana ogni personaggio diventa la pennellata di un gigantesco ritratto. Un volto sicuramente demoniaco, dove San Benedetto è il naso, gli squarci di cielo sono gli occhi, San Pietro e San Paolo in alto ai lati estremi sono le orecchie a punta, le vesti scure dei sacerdoti centrali sono le corna, le tuniche bianche degli abati che circondano il santo le zanne. Lo sguardo è più che inquietante, cattivo; il portale della chiesa alla base dell'opera sembra poi completare l'opera come una grande bocca pronta a ingoiare chi vi accede. Solo un gioco di ombre e luci? Una forma di pareidolia, quella sorta di illusione subcosciente che ci fa ritrovare immagini note in forme casuali (come la visione di animali o volti umani nelle nuvole)? Molti elementi sembrano negarlo, a partire dalla struttura stessa del dipinto, assai insolita rispetto ai canoni con cui venivano concepite all'epoca le scene di massa. Ma chi era l'Aliense? E perché avrebbe “truccato” la sua opera?

Andrea Vasilakis nasce nell’isola greca di Milos nel 1556; arriva a Venezia ancora bambino con la famiglia, che trasforma il cognome in Vassilacchi. A 16 anni entra nella bottega del Veronese e diventa il suo pupillo. A chiamarlo Aliense (dal latino alienus, straniero) sarà la congrega dei pittori veneziani. Al grande successo professionale, (richiestissimo sia dagli ordini religiosi che dalla Serenissima, per la quale dipinge fra l'altro gran parte degli affreschi del Palazzo dei Dogi) corrisponde una vita privata assai sfortunata: la prima moglie muore giovane, il figlio Stefano, promettente pittore, la segue poco più che adolescente, la seconda moglie lo lascia ancora vedovo 6 giorni dopo le nozze, e anche il terzo matrimonio finisce male. Le altre due figlie del pittore si fanno suore. In un autoritratto che esibisce spesso l'artista porta sulla schiena la nutrice, uno zio, il figlio Stefano e l'ultima moglie, e ogni volta che lo mostra commenta: "Questo è il peso che dovrò sopportare finché vivo". Vassilacchi muore a 73 anni e viene sepolto con grandi onori nella chiesa veneziana di San Vidal.

Una risposta certa al perché avrebbe nascosto il diavolo in chiesa non c'è: uno sberleffo occulto dell'artista ai suoi committenti per qualche sgarbo subito? Una critica nascosta contro la corruzione della Chiesa (non era raro che i pittori mimetizzassero nelle loro opere messaggi leggibili solo da chi sapeva interpretarli)? L'appartenenza ben celata a una setta di satanisti? Oppure al contrario un segnale concordato con gli stessi religiosi e rivolto ai fedeli, col diavolo sempre in agguato pronto a “ingoiarli” quando oltrepassano la porta al termine della funzione e dalla chiesa tornano alle cose del mondo. C'è poi un'ultima ipotesi. Come carattere l'Aliense era tutto il contrario dell'artista “maledetto”: mai una bizza, serio, docile, paziente, mai un contrasto con i suoi committenti. Chissà che sui 90 metriquadri di parete della chiesa perugina non abbia concentrato tutta la sua collera repressa. Il mistero va avanti da oltre 4 secoli, e difficilmente troverà soluzione.

Guarda il video e visita la basilica di San Pietro a Perugia e segui i link per approfondimenti sul misterioso dipinto e sul suo autore.

 


https://www.luoghimisteriosi.it/umbria/perugia-sanpietro.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Vassilacchi 

http://dspace.unive.it/handle/10579/9909

 

mercoledì 26 agosto 2020

728 - UN AIRPASS E' PER SEMPRE


 

Sembra impossibile ma...

Steve Rothstein, funzionario di banca di Chicago, ha acquistato

dall'American Airlines un biglietto illimitato che permetteva di volare in prima classe quando e dove voleva per tutta la vita. Ringrazio Gei Gi che mi ha segnalato la storia del contratto più vantaggioso che un cliente abbia mai firmato: 250.000 dollari per un airpass che è poi costato all'azienda un milione di dollari l'anno per 21 anni.

Tutto inizia nel 1981. L'American Airlines è in deficit. Per raccogliere liquidità si inventa l'abbonamento degli abbonamenti, il top del suo programma “frequent flyer”: una serie di biglietti illimitati per viaggiare a vita in prima classe in vendita a 250.000 dollari (500.000 euro di oggi); chi lo desidera poi, con altri 150mila dollari, può estendere l’offerta a un accompagnatore (che può cambiare ad ogni viaggio). Non ci mette molto la compagnia aerea a capire che non è un grande affare: ai passeggeri bastano infatti un centinaio di voli per andare in pari, ma c'è chi ne fa molti di più. Nel 1990 il prezzo sale a 600.000 dollari, nel 1993 a un milione: nessuno lo compra più, e nel 1994 l’offerta viene ritirata. Ma nel frattempo un certo numero di clienti, una sessantina, vola con l'airpass in tasca.

Fra questi il più entusiasta è il nostro Steve, che ha fatto del volo la sua vita. Da quando nel 1987 ha comprato il superbiglietto (anche per l'accompagnatore) non si ferma un attimo. A norma di contratto, prenota viaggi di ogni tipo, anche se poi non li fa tutti. A volte decolla per andare a mangiare un hamburger in quel ristorantino in un'altra città, oppure va a vedere partite ed eventi sportivi dalla east alla west coast, o va in Canada al mattino, compra due pasti per se e per la moglie e torna a casa per l'ora di pranzo. Senza contare i viaggi veri e propri: in 21 anni percorre più di 10 milioni di miglia, vola centinaia di volte a New York e a Londra, almeno 120 a Tokyo, 50 a Hong Kong, 70 in Australia. Fra l'altro accumula oltre 40 milioni di miglia frequent flyer, che si traducono in voli gratis regalati ad amici e parenti. Spesso si inventa accompagnatori inesistenti per viaggiare comodo col sedile accanto al suo vuoto, o invita amici e semplici conoscenti a viaggiare gratis con lui. Solo dal 2005 al 2008 prenota più di 3000 voli, anche se poi decolla “appena” 500 volte.

American Airlines fa un po' di conti, e realizza che l'offerta gli è già costata più di 21 milioni di dollari. Rothstein va fermato ad ogni costo. Oltre al suo ci sono altri contratti onerosi, a partire da quello di Jacques Vroom: anche per lui si parla di un milione l'anno. Bisogna rescindere più contratti possibile. Il caso finisce in mano ai migliori avvocati. L’unica cosa che il contratto vieta è vendere il proprio biglietto o farsi pagare dall’accompagnatore. Diversi passeggeri che hanno viaggiato gratis con Rothstein o con Vroom vengono interrogati, alla fine salta fuori che sì, qualche passaggio di denaro c'è stato. A dicembre 2008 Steve sta per imbarcarsi da Chicago, lo ferma la security dell'aeroporto e gli consegna una lettera: il contratto è nullo con effetto immediato per comportamento fraudolento. Lo stesso succede a Vroom e ad altri clienti. Alcuni intentano causa contro l'azienda. Che nel 2011 fa bancarotta. American Airlines sarà poi risanata, e oggi è una delle compagnie più grandi del mondo. Rothstein, che ha perso in primo grado, è andato avanti, ma l'appello si è poi insabbiato nella jungla delle procedure fallimentari. Di certo il suo bel ticket illimitato non lo vedrà più, ma pare sia stato raggiunto un accordo extragiudiziale di cui non si conoscono i dettagli,. E' certo invece che altri viaggiatori meno “vistosi” continuano a volare in prima classe su American Airlines grazie a un biglietto comprato una trentina d'anni fa.

Guarda nei video la storia di Steve Rothstein e il racconto della “sciagurata offerta” di American Airlines.

 


 


 




martedì 25 agosto 2020

727 - L'ULTIMO DRAGO DEL MEDIOEVO

 

Sembra impossibile ma...

Nel 1488 il conte Guido Sforza uccise un drago. Il cranio del mostro è conservato nel convento della Selva a Santa Fiora, sul monte Amiata. Ringrazio Luigi Garlaschelli per la segnalazione e vado a far risorgere creature che sopravvivono solo nella nostra fantasia.

La storia è un classico: il terribile drago infesta i boschi dell'Amiata, Guido salta in sella al suo destriero, lo scova, lo trafigge con la lancia e porta a casa la testa come trofeo. Oggi la parte superiore del teschio, lunga oltre 40 centimetri, è esposta in una teca nel convento toscano; l'altra metà, donata alla Chiesa romana di Trinità dei Monti è andata dispersa. Ma ciò che resta è bastato al professor John Thor-Bjarnarson della Wildlife Conservation Society of Florida per identificare l'animale da cui proviene: un grosso coccodrillo del Nilo. Che ci faceva sull'Amiata? Questo è il vero mistero. Chissà se Guido Sforza ha davvero ucciso il rettile o si è inventato tutta la storia. Che ne ricorda da vicino un'altra: vi dice niente San Giorgio?

Per lui il conte Guido professava una vera venerazione: pare che intorno al 1475 sia stato lui a donare alla cittadina di Varzi una reliquia proveniente dal braccio destro del santo. In più secondo la leggenda dell'Amiata ad aiutarlo ad uccidere il drago sarebbe stato un nobile cavaliere di nome Giorgio. Insomma, il conte Sforza per passare alla storia si è ispirato al suo idolo, il più famoso uccisore di draghi. Che fra l'altro non era tale: storicamente infatti San Giorgio è un soldato romano vissuto in Palestina nella seconda metà del II secolo dopo Cristo; il suo rifiuto di adorare gli dei pagani gli costa il martirio. Pochi anni dopo, nel 313, Costantino dichiara la libertà di culto. Il primo imperatore cristiano ama farsi ritrarre in vesti militari mentre trafigge un serpente, simbolo del paganesimo. L'immagine diventa una vera icona, viene riprodotta ovunque. Anche sulla tomba di San Giorgio, a Lydda (l'attuale Lod in Israele); nasce da lì e si consolida nel XII secolo la credenza che quell'immagine col cavaliere che uccide il mostro raffiguri il santo.

Il mito dell'eroe che abbatte il drago ha origini antichissime e compare in tutte le culture: in occidente come essere malefico, in Oriente come creatura portatrice di fortuna e bontà: non a caso in Cina è da sempre il simbolo della famiglia imperiale. Il termine deriva dal greco drakon, serpente. Nella mitologia compaiono fra gli altri il drago Ladone, padre delle Esperidi, ucciso da Eracle, e il serpente Pitone ucciso da Apollo; Omero cita un serpente alato con vista acuta, agilità di aquila e forza di leone, e un drago sorveglia il Vello d'oro degli argonauti. Nell'antica Roma compare nella Historia Naturalis di Plinio e nella favola “La volpe e il drago” di Fedro. Nell'Apocalisse di San Giovanni il diavolo è un enorme drago rosso con sette teste e dieci corna; in seguito si mescolano leggende arabe, assire e egiziane, e un bassorilievo di arte copta del VI secolo raffigura il dio egiziano Horus a cavallo, che uccide con una lunga lancia un coccodrillo, simbolo di Seth, dio del male: a parte la testa di falco di Horus, l'immagine è identica a quelle di San Giorgio. Da qui in poi la leggenda diventa virale, coi draghi che aumentano di dimensione, prendono le ali e sputano fuoco, e il cavaliere salva la fanciulla e lo uccide: è nato un archetipo.

All'origine delle leggende nei vari luoghi ci sono spesso eventi reali, come il ritrovamento di fossili di dinosauro. Per restare in Italia, la credenza che il Tarantasio del Lago Gerundo (che merita una storia a parte) ammorbi l’aria col suo alito venefico con ogni probabilità nasce dal fatto che la zona paludosa è un calderone di esalazioni dovute alla presenza nel sottosuolo di metano e idrogeno solforato; anche il drago Tiro a Terni e quello di Terravecchia in Calabria vivono in un acquitrini malsani, e chi si ammala e muore per aver respirato il loro fiato pestilenziale è in realtà vittima della malaria, mentre l'isola su cui sbarca Giulio d'Orta nel lago omonimo più che da un drago era infestata da serpenti. E poi la Mandragola, lo Scultone, il drago di Belverde, quello di Fornole e altri 100 mostri, tutti sterminati da santi, papi e figure sacre. La storia di Guido Sforza del 1488 chiude il ciclo, 4 anni dopo inizia l'evo moderno. Per rivedere i draghi in azione bisognerà aspettare lo Smaug di Tolkien o i Viserion, Rhaegal e Drogon di Daenerys.

Guarda i due spettacolari video con la storia delle leggende sui draghi.

 



domenica 23 agosto 2020

726 - VENEZIA HORROR STORIES

 

Sembra impossibile ma...

Le isole della laguna di Venezia nascondono storie e leggende di sapore horror. Alcune vere, altre meno. Ringrazio Marco Antoniol per la segnalazione e vi porto su due di queste: l'isola degli scheletri e l'isola più infestata del mondo.

Sant'Ariano, a nordest di Torcello, oggi è abbastanza anonima, ma fino a pochi anni fa offriva un paesaggio da brividi, e i veneziani non passavano volentieri nelle vicinanze: fra le paludi della Centrega e della Rosa si apriva uno slargo, un muro circondava un groviglio di rovi e arbusti, al centro una collina biancastra: scheletri umani. Non bastasse, l'isola era (ed è) infestata, ma non da fantasmi: da topi e serpenti, i “carbonassi”, innocui ma repellenti. L'isola è ciò che resta di Costanziaco, grosso centro lagunare abitato dal VI all'XI secolo. Dal 1160 ospitò il monastero di sant'Adriano; Le benedettine che lo abitavano provenivano dalle più importanti famiglie veneziane, e pare che nel 1439 siano state trasferite in massa per aver dato vita a una serie di episodi boccacceschi con patrizi della Serenissima.

Nel 1565 il Senato decise di usare il sito abbandonato come ossario dove accogliere i resti provenienti dai numerosi cimiteri veneziani. Fu costruito il muro perimetrale e le barche iniziarono a fare la spola con la città, scaricando i resti di migliaia di cadaveri. Gli unici visitatori per decenni sono stati gli studenti di Medicina in cerca di teschi e ossa per i loro studi. Il servizio è proseguito fino al 1933, ma la collina di ossa è stata visibile fino a pochi anni fa. Oggi il muro è stato sistemato e l'erba ha coperto gli scheletri; le visite sono vietate, e in ogni caso ci pensano rovi, topi e serpenti a tener lontani i curiosi.

Che invece sono di casa a Poveglia, “The most haunted island of the world”, come si legge in centinaia di articoli sul web. Sette ettari e mezzo di case diroccate, anche qui in mezzo ai rovi, nella laguna sud. Ora, se chiedete a un veneziano, vi dirà che questo è il posto più tranquillo del mondo, i loro padri e i loro nonni ci sbarcavano da ragazzini per giochi avventurosi, e da adulti per grigliate di pesce in compagnia. Inoltre di presenze più o meno maligne non c'è traccia nel pur vasto repertorio di storie e tradizioni popolari veneziane. E allora com'è che si è guadagnata la malefica fama mondiale? Tutto comincia assai di recente, nel 2001 con una troupe di Fox Family Channel che sceglie l'isola per due puntate di “Scariest Places on Earth” e le intitola “Island of No Return: The Venice Dare”. Perché proprio Poveglia? Probabilmente perché è una location perfetta per storie di spiriti. E se non ce ne sono, si inventano.

Otto anni dopo arriva il bis, e questa volta fa il botto: sbarca la troupe della seguitissima serie tv Ghost Adventures (in italiano Cacciatori di fantasmi) e passa una notte sull'isola. E alla luce dell'infrarosso, fra antichi istituti diroccati e ruderi di chiese succede di tutto: quello che va in onda è un vero film horror con possessioni demoniache e apparizioni spiritiche; si racconta di antichi lazzaretti, conventi, ospedali psichiatrici e fosse comuni fucina di anime dannate. Cosa importa se a Poveglia non c’è mai stato nulla di tutto questo? Nè lazzeretti né fosse comuni (solo due navi di appestati in quarantena con 20 vittime di cui si conoscono i nomi), né manicomi con sadici dottori (fino agli anni sessanta c'era solo un ricovero per anziani). Il filmato fa il giro del mondo; nel 2016 cinque teenagers del Colorado si fanno lasciare sull'isola al tramonto con attrezzature da ghostbusters. Poco dopo la mezzanotte da una barca a vela sentono le urla “Help! Ghosts!” (Aiutateci! Fantasmi!). A soccorrerli arriva la lancia dei vigili del fuoco. Ne parlano i giornali, sul web la notizia diventa virale. Et voilà, Poveglia diventa “The most haunted island of the world”, infestata sì, ma da curiosi e acchiappafantasmi.

Guarda i video: il primo è una visita all'isola di Sant'Ariano, il secondo è la puntata di Ghost Adventures dedicata a Poveglia.

 

 

 

venerdì 21 agosto 2020

725 - ZIO ADOLFO IN ARTE FÜHRER

 

Sembra impossibile ma...

Il 6 marzo del 1944 William Hitler dopo aver prestato giuramento si imbarcò su una nave della Marina militare americana. E andò a combattere contro la Germania nazista guidata da suo zio Adolf.

L'amico Gei Gi mi segnala la strana storia del nipote di Adolf Hitler. Che inizia il 12 marzo del 1911, quando nasce in una casa di Liverpool. Il padre Alois Hitler Jr. ha conosciuto la moglie Bridget due anni prima a Dublino, e dopo il matrimonio si è trasferito nella città inglese dove lavora come cameriere al “Lyons Café”. La sua passione però è il gioco d'azzardo, e nel 1914 va in tournée nel continente. Invece di tornare a casa però, saluta moglie e figlio con una lettera, va in Germania e si risposa con una donna tedesca, con cui ha un altro figlio, Heinz, che diventerà un convinto nazista e morirà prigioniero in Russia. Alla richiesta di Alois Jr di rivedere William, Bridget risponde picche, almeno finché non sarà maggiorenne. Così nel 1929 il giovane Willy approda in Germania, dove la stella dello zio Adolf sta iniziando a brillare, e nei due anni successivi fa la spola fra Liverpool e Berlino; per mantenersi scrive per i giornali britannici una serie di articoli con aneddoti e stravaganze del futuro führer, finché lo zio gli ordina di cessare le pubblicazioni. William obbedisce, ma in cambio chiede un buon lavoro; nel 1933 entra alla Reichsbank della capitale, due anni dopo passa alla fabbrica Opel, ma viene accusato di furto e licenziato.

Nel 1936 torna in Inghilterra e tenta di arruolarsi nelle forze armate, ma viene escluso. Motivo? Il proprio cognome. Così rieccolo nel reich, impiegato come venditore di auto. Un lavoro che non lo soddisfa: come si fa a vendere auto mentre lo zio progetta di conquistare il mondo? Le sue continue richieste di un cospicuo miglioramento sociale vengono respinte, e i rapporti fra i due si guastano definitivamente, tanto che William dall'Inghilterra scrive una lettera ricattatoria al congiunto minacciandolo di vendere ai giornali le più imbarazzanti storie di famiglia, a cominciare dalla presunta origine ebraica di un avo paterno degli Hitler. Il dittatore sembra cedere, offre al nipote un ruolo di alto rango a condizione che rinunci alla cittadinanza britannica, e lo invita a trovarlo alla cancelleria del reich. William non si fida, teme una trappola, e a inizio 1939 anziché tornare in Germania vola negli Stati Uniti, invitato insieme alla madre dal magnate William Randolph Hearst per un tour di conferenze. Il 4 luglio del 1939 la rivista britannica “Look” pubblica un suo articolo intitolato “Why i hate my uncle” “Perché odio mio zio”, di lì a poco scoppia a guerra in Europa e lui e sua madre restano bloccati negli States. William tenta di arruolarsi nell’esercito statunitense, ma viene scartato. Un tentativo che ripeterà più volte; riuscirà nel suo scopo solo con una lettera al presidente Franklin D. Roosevelt, che, interpellato il direttore dell'Fbi John Edgar Hoover, gli concede il placet.

E siamo al 6 marzo del 1944, quando William Hitler, arruolato come aiutante farmacista (poi addetto ospedaliero) entra in guerra contro lo zio Adolfo. Tre anni di servizio, una guerra vinta, una ferita da proiettile Shrapnel (ma solo a cose fatte, nel 1947), e il congedo nello stesso anno, decorato con il Purple heart. Questo il suo palmares. Dopo la guerra Willy Hitler cambia nome, diventa William Stuart-Houston, riceve la cittadinanza americana, si sposa e ha quattro figli. Si trasferisce a Patchogue vicino Long Island dove grazie apre un'azienda che analizza campioni di sangue per gli ospedali. Muore il 14 luglio del 1987. Nel 2014 viene scoperto il suo diario segreto, ancora da pubblicare. Nessuno dei 4 figli ha discendenti. Pare non sia un caso: i 4 avrebbero deciso di non procreare per cancellare la linea genealogica degli Hitler.

Guarda i video con la storia di William Hitler e un documentario sulla famiglia del führer.

 

 


giovedì 20 agosto 2020

724 - IL GIOCO PIU' PERICOLOSO DEL MONDO

 

Sembra impossibile ma...

A Natale del 1950 Santa Claus fra gli altri giochi lasciò sotto l'albero dei bimbi americani l'Atomic energy lab, col quale i piccoli scienziati potevano riprodurre in casa divertenti reazioni nucleari. Un kit realistico e perfettamente funzionante. Radioattività compresa.

Il tempo di ringraziare Alberto Giorgi, Fortunato Monti e Massimo Sergi per la segnalazione, e apriamo la scatola del “piccolo chimico” versione nucleare. Che contiene fra l'altro campioni di piombo-210 (radiazioni alfa e beta), rutenio-106 (beta), zinco-65 (gamma), polonio-210 (alfa), e provette riempite di polvere d'uranio. Il laboratorio giocattolo (Gilbert U-238 Atomic Energy Lab è il nome completo) è prodotto da Alfred C. Gilbert, eclettico imprenditore con un curriculum di atleta, mago, uomo d'affari e inventore. Il set è al passo coi tempi: sono passati appena 5 anni da quando “Enola gay” sganciò la bomba su Hiroshima, e la scatola è l'ultima nata delle decine di piccoli laboratori chimici già presenti sul mercato.

La pubblicità promette di “insegnare ai bambini a creare e guardare reazioni nucleari e chimiche usando materiale radioattivo” e strizza l'occhio ai genitori ipotizzando una potenziale carriera scientifica. "Vedrai panorami sbalorditivi – si legge sui cataloghi – seguirai effettivamente i percorsi di elettroni e particelle alfa che viaggiano a velocità superiori a 10.000 miglia al secondo! Puoi giocare a nascondino con la sorgente di raggi gamma sfidando i giocatori a usare il contatore Geiger per localizzare un campione radioattivo nascosto in una stanza”. La pubblicità è rassicurante: “Nessuno dei materiali può rivelarsi pericoloso, tutti i materiali radioattivi inclusi sono stati certificati come completamente sicuri dagli Oak-Ridge Laboratories della Atomic Energy Commission”.

Nel dettaglio, la scatola contiene una “cloud chamber” per osservare particelle alfa, uno “spinthariscope” che mostra i risultati della disintegrazione radioattiva su schermo fluorescente, un contatore geiger Müller a batteria per misurare la radioattività, 4 vasetti di vetro contenenti campioni di uranio naturale, "sfere nucleari" per creare un modello di una particella alfa, le istruzioni (60 pagine scritte dal dottor Ralph E. Lapp), un'introduzione a fumetti alla radioattività scritta da Leslie Groves (direttore del Progetto Manhattan) e John R. Dunning (fisico che ha lavorato alla fissione dell'atomo di uranio), un libro sulle ricerche dell'uranio e 3 batterie. Altro materiale fissile si può ordinare per corrispondenza.

Il set sarà venduto solo nel 1950 e 1951, poi sarà ritirato dagli scaffali. Motivi di sicurezza? Macché, solo perché ne sono stati venduti pochi, meno di 5.000 pezzi. Il motivo è il prezzo, assai elevato: 49,50 dollari equivalenti a circa 500 euro odierni. Il che limita il target ai rampolli di famiglie benestanti, e con qualche aspirazione culturale. Nel 1954 Gilbert scrive che l'Atomic Energy Laboratory è stato "il più spettacolare dei nuovi giocattoli educativi", sottolineando che il governo ha incoraggiato lo sviluppo del set ritenendolo valido per aiutare la comprensione pubblica dell'energia atomica. E rimarca ancora una volta che il giocattolo è sicuro, affidabile e accurato, e che al progetto hanno lavorato alcuni dei migliori fisici nucleari del Paese. Di parere contrario gli autori di una recente indagine, che lo definiscono “uno dei 10 giocattoli più pericolosi di tutti i tempi” (in una classifica che vede al primo posto il gioco delle freccette). Un altro studio ha confermato che i danni causati dall'esposizione alle radiazioni del set in effetti sarebbero stati minimi. A condizione che i campioni radioattivi non siano stati rimossi dai loro contenitori, altrimenti...

Guarda i video: nel primo apri la scatola e guarda un vero “Atomic energy lab” d'epoca, nel secondo scopri i giochi più pericolosi del mondo.

 

 

 

martedì 18 agosto 2020

723 - IL MOSTRO DEL MASCHIO ANGIOINO

 

Sembra impossibile ma...

Quindicesimo secolo, nella più profonda cella del Maschio Angioino un grande coccodrillo divora decine di prigionieri. Una leggenda che i nonni raccontano per spaventare i bambini? No, oggi è (quasi) storia; perché ad infestare il castello simbolo di Napoli il coccodrillo c'era. Anzi, erano almeno due. Ringrazio Marisa Gemelli Ferrara per la segnalazione, e lascio la parola a due grandi personaggi.

Era in quel castello una fossa sottoposta al livello del mare, oscura, umida, nella quale si solevano cacciare i prigionieri che si volevano più rigidamente castigare: quando a un tratto si cominciò a notare con istupore che di là i prigionieri sparivano”. Così Benedetto Croce nelle sue “Storie e leggende napoletane”. Gli fa eco Alexandre Dumas in “Storia dei Borbone di Napoli”: “Da questa bocca dell’abisso, dice la lugubre leggenda, uscendo dal vasto mare, appariva un tempo l’immondo rettile che ha dato il suo nome a quella fossa”. Due testimonial d'eccezione per una storia “a puntate” che comincia sotto il regno di Giovanna II, sorella di re Ladislao, che regna a Napoli dal 1414 fino al 1435. Ricordata come donna assai libertina, pronta ad accogliere democraticamente nel suo letto giovani di ogni stato sociale, secondo il gossip dell'epoca Giovanna ha l'abitudine dopo gli incontri amorosi di far cadere i suoi amanti in un pozzo grazie a una botola. E sul fondo chi trovano? Il coccodrillo del Nilo che lei stessa si sarebbe fatta portare dall'Egitto.

Del rettile non si sente parlare per un po', finché Ferrante d'Aragona re di Napoli dal 1458 al 1494, decide di far rinchiudere i carcerati nella Fossa del Miglio, utilizzata in passato come deposito del grano, e collegata col mare. Quando i detenuti iniziano a sparire nel nulla, Ferrante aumenta la vigilanza. Ma scopre che non si tratta di evasioni, ma delle incursioni di un coccodrillo che azzanna i prigionieri e li trascina in mare. Lo stesso di Giovanna? In teoria sì, perché un coccodrillo può superare i 100 anni. Fatto sta che il re all'inizio lo elegge boia di corte, e gli affida i suoi peggiori nemici (forse anche i protagonisti della Congiura dei Baroni), poi si stanca, lo cattura usando come esca una coscia di cavallo avvelenata, lo fa impagliare e appende il trofeo sulla porta d'ingresso del castello.

Fin qui la leggenda. Ora la storia. Fino al 1875 un coccodrillo è realmente esposto sulla porta di bronzo di Castel Nuovo, lo prova una foto scattata da Robert Rive. In quell'anno il comandante della guarnigione lo fa rimuovere e lo regala al Museo di San Martino. Nei depositi ne esisterebbero ancora dei frammenti. Un salto avanti fino al 2018, quando gli scavi nella Galleria Borbonica del Maschio Angioino restituiscono i resti di un grosso coccodrillo. Gli studiosi ricostruiscono lo scheletro del rettile, e confermano che si tratta di un coccodrillo del Nilo di oltre due metri di lunghezza. Quello che non torna sono le date: l’esame al carbonio 14 effettuato dal Centro di ricerche isotopiche per i beni culturali data le ossa tra il 1643 e il 1666. I “mostri” erano più di uno? Discendenti di quelli “importati” da Giovanna? Non lo sappiamo. L'unica certezza è che sì, il Maschio Angioino ha ospitato non un coccodrillo, ma almeno due.

Guarda i video con la storia del Maschio Angioino (girati però prima del ritrovamento dello scheletro del coccodrillo).

 

 


domenica 16 agosto 2020

722 - L'ISOLA DIMENTICATA

 

Sembra impossibile ma...

Niihau è una delle 8 grandi isole che insieme a numerosi atolli e altri isolotti compongono l'arcipelago delle Hawaii. Si scorge in lontananza dalla spiaggia di Kekaha, sull'isola di Kauai. E questo, se non fate parte di un ristrettissimo gruppo di fortunate persone, è l'unico modo di vederla. Ringrazio Maria Landi per la segnalazione, e vi porto in viaggio nel tempo, indietro di un paio di secoli. Quando le “Isole del vento” non erano ancora state scoperte dai turisti.

Niihau, settima in ordine di grandezza fra le isole abitate dell'arcipelago, da oltre un secolo e mezzo è proprietà privata. Corre l'anno 1864 quando il re Kamehameha V vende l’isola ad Elisabeth Sinclair, erede di una ricca famiglia scozzese, in cambio di una quantità d’oro equivalente a 10.000 dollari, e a una promessa: la nuova proprietaria dovrà preservare lo stile di vita degli abitanti e la loro lingua. Niihau diventa così un mondo a parte rispetto al resto dell'arcipelago, e quando nel 1893 il nuovo governo supportato da coloni europei proibisce l'uso della lingua dei nativi hawaiani, il divieto qui non viene rispettato. L’isolamento poi diventa totale nel 1930, per proteggere gli abitanti da malattie arrivate da Paesi lontani, dopo che 11 bambini sono morti di morbillo. Negli anni la proprietà dell’isola è trasmessa ai discendenti della famiglia Sinclair, gli ultimi dei quali oggi sono i fratelli Bruce e Keith Robinson. Che ancora mantengono l'antica promessa.

Così Niihau è uno dei pochi luoghi del mondo a meritare l'abusato appellativo di isola incontaminata, e qui la vita non è diversa da quella osservata da Cook a fine Settecento, quando ha scoperto le Hawaii. Non ci sono strade asfaltate, solo sentieri sterrati; niente luce elettrica, acqua corrente, negozi, alberghi, automobili. L'unico insediamento umano è la “Comunità non incorporata” di Puʻuwai, l'ultima che parla ancora l'hawaiano. Il censimento del 2010 ha contato 170 residenti, ma solo una parte sono permanenti. Vivono di caccia, di pesca e di agricoltura, sono liberi di viaggiare, andare in altre isole e tornare. Sono tenuti però a rispettare una serie di regole vecchie di 150 anni, dettate dalla famiglia Sinclair-Robinson, scozzesi presbiteriani molto ferventi e rigorosi nella loro fede. Così sono vietati alcolici, armi e tabacco, gli uomini non possono portare i capelli lunghi, e la domenica tutti devono andare in chiesa.

L'accesso all'isola oggi è permesso solo ai parenti dei residenti, al personale della Marina degli Stati Uniti e ai funzionari governativi, oltre agli ospiti invitati dai Robinson. Che dal 1987 permettono un limitatissimo numero di ingressi turistici a piccoli gruppi per visite guidate di poche ore, col divieto di qualunque contatto con la gente del posto. “Perché noi – dice con orgoglio Bruce Robinson – le promesse le manteniamo, e la nostra priorità è proteggere la cultura e lo stile di vita dei Niihauans”.

Guarda i video per scoprire Niihau e partecipare a una delle rare visite.

 

 

 

 

venerdì 14 agosto 2020

721 - COME UN CANGURO NEL MARSUPIO

 

Sembra impossibile ma...

C'è una tecnica naturale per la salute dei neonati prematuri che dalla Colombia dove è stata ideata sta conquistando il mondo: si chiama Canguro terapia e può essere determinante se usata come strategia di cura, integrata con l'incubatrice tradizionale, per diminuire i tassi di mortalità infantile. Ringrazio Norberto Colella per la segnalazione, e vi portò nella Bogotà del 1970, dove la pediatra Nathalie Charpak scopre (o riscopre) una verità tanto semplice e naturale da apparire banale: il contatto pelle a pelle tra il bambino e la mamma favorisce lo sviluppo e il benessere del neonato. Nasce così la “Kangaroo mother care”. Vediamo come funziona.

La mamma entra in una stanza buia e silenziosa, il bambino nudo viene adagiato a pancia in giù sul suo petto, “pelle a pelle”; i due vengono coperti, e il neonato è completamente avvolto dall'abbraccio materno; già, proprio come un cangurino nel marsupio, da cui il nome. La seduta dura 90 minuti, e va ripetuta almeno quattro volte al giorno: non c’è una dose massima, più il neonato sta col genitore meglio è. Tutto qui? Sì, ma non è poco. Lo confermano l'Organizzazione Mondiale della Sanità, che supporta già da anni il “Metodo canguro”, e medici e ostetriche di tutto il pianeta che lo mettono in pratica. Perché l'ambiente delle terapie intensive neonatali, per quanto ben organizzate e funzionanti, non è il massimo per i piccoli nati prematuramente, spesso con organi e sistema immunitario non ancora del tutto sviluppati. Passare dal grembo materno caldo e confortevole ad un mondo esterno più rumoroso e pieno di stimoli sensoriali e motori, per i neonati è comunque uno shock, e per quelli più deboli anche un fattore di rischio. E la “Kangaroo mother care” favorisce questa transizione.

In questi anni sono arrivate le conferme dei concreti benefici del metodo: per il neonato migliorano i livelli di saturazione di ossigeno e si stabilizzano respirazione e battito cardiaco. Riscontri positivi anche sul sonno, la crescita, l’aumento di peso, lo sviluppo neurologico e la temperatura corporea. Poi ci sono i vantaggi per la mamma: facilita l’allattamento al seno e aumenta il livello di ossitocina, l'”ormone del benessere” che contrasta il calo di estrogeni e progesterone post partum.

In Italia (dove ogni anno sono 32.000 i neonati prematuri) la Canguro terapia è possibile un po' ovunque. Possibile, ma spesso difficilmente realizzabile. Perché il presupposto è l'apertura 24 ore su 24 delle terapie intensive neonatali, che invece è garantita solo in una parte delle strutture; la formazione specifica del personale poi è carente, e non mancano intoppi burocratici legati all'assenza di protocolli-guida. Il servizio quindi è accessibile solo a un certo numero di neonati, e spesso per tempi assai limitati. Risultato, la pratica, comune in altri Paesi, da noi ancora “sembra impossibile...”

Ah, un'ultima cosa: tutto quanto detto sulla terapia (a parte allattamento e ossitocina) non vale solo per la madre: anche il padre può praticarla, con gli stessi risultati. E babbo e mamma si possono alternare nel ruolo di marsupio per il loro cangurino.

Guarda il video sulla Canguro terapia e quello che spiega come metterla in pratica.

 

  



giovedì 13 agosto 2020

720 - LE UNDICIMILA VERGINI

 

Sembra impossibile ma...

La “Stanza d'oro” nella basilica di Sant'Orsola a Colonia conserva migliaia di ossa umane disposte in modo artistico ed ordinato. Secondo la leggenda sono i resti di 11.000 vergini seguaci della santa. Gli storici hanno appurato una diversa verità. Ringrazio Gei Gi per la segnalazione e vi racconto leggenda e storia.

Siamo nel quinto secolo e Orsola è la bellissima figlia del re di Bretagna Deonoto. Il principe pagano Eterio la chiede in sposa; il suo rifiuto avrebbe scatenato la guerra, così lei, ispirata in sogno da un angelo, accetta, ma detta le sue condizioni: il pretendente si deve convertire al cristianesimo e attendere 3 anni, poi lo sposerà, ma solo dopo un pellegrinaggio a Roma. Non solo: nel viaggio dovrà essere accompagnata da mille giovinette vergini, e da altre mille per ciascuna delle sue 10 ancelle. Totale 11.000 (e spiccioli). Passano 3 anni e Orsola, con la sua insolita armata, si imbarca su una flotta di 11 navi che, sospinta da una tempesta, trova rifugio nel Reno, lo risale, fa tappa a Colonia e arriva a Basilea; lì sbarcano e proseguono a piedi fino a Roma dove le accoglie il fantomatico Papa Ciriaco. Ottenuta la benedizione papale, il corteo prende la via del ritorno, ma a Colonia intanto è arrivata l'orda di Attila. I rudi barbari ringraziano i loro dei di tanta generosità, ma non hanno fatto i conti con Orsola, che esorta le ragazze alla castità. Così le 11.000 vergini restano tali, ma vengono trucidate tutte in un solo giorno. La scampa (ma per poco) solo la futura santa: il re degli Unni si innamora di lei. Rifiutato, la fa uccidere a colpi di freccia. Grazie al suo sacrificio e a quello delle fanciulle però i barbari lasciano la città. Colonia è salva, nasce il culto delle 11.000 vergini, e già nell'ottavo secolo Sant' Orsola è venerata in tutta Europa.

Ed ecco la ricostruzione storica. Dietro la leggenda c'è il ricordo di un mito pagano (la dea Freia che, col nome di Horsel od Ursel, piccolo orso, accoglie nell'aldilà le fanciulle defunte). Anno 1100. L'ager ursulanus, non lontano da Colonia, è un'antica necropoli romana con migliaia di tombe, chiamata così perché per la gente del posto ospiterebbe i resti delle 11.000 vergini. Le autorità ecclesiastiche portano queste ossa nella chiesa cittadina e costruiscono per ospitarle quella che diventerà la “Stanza d’oro”. Anno 1946, fra le macerie della guerra tornano alla luce sotto l’abside della basilica di S. Orsola a Colonia le fondamenta di una chiesa. Qui un'iscrizione del quinto secolo “firmata” Clematius afferma che l’edificio sacro fu da lui eretto sul luogo dove alcune vergini erano state uccise per la loro fede. Ci sono anche i nomi: Marta, Saula, Brittula, Gregoria, Martirio-Saturnina, Simbatia, Pinnosa, Sentia, Palladia, Saturia. E Orsola. Undici ragazze, uccise – si legge - sotto Diocleziano. Storie sovrapposte insomma, e traslate di 150 anni, da Diocleziano ad Attila. E il numero delle vergini? Un errore di trascrizione o di interpretazione dell’epigrafe “Ursula et XI M V”: “Ursula et undecim martires virginum” (o, per altri, undecim miliarium, a 11 miglia da Colonia) diventa “undecim millium virginum”: undicimila vergini.

Così oggi, dopo che la vicenda delle undicimila vergini ha ispirato capolavori d'arte (Hans Memling a Bruges, Vittore Carpaccio a Venezia...) e dal 1535 l'ordine delle Orsoline si dedica alla tutela e all'istruzione delle fanciulle, sant'Orsola è diventata la protettrice degli insegnanti e delle università, e nella basilica di Colonia a lei dedicata si visita la Goldene Kammer, con le pareti rivestite da 15.000 ossa disposte in forma di ornamenti geometrici e floreali, 300 busti reliquiari e una ricca collezione di teschi.

Guarda i video e per vedere le immagini della storia di sant'Orsola e visitare la Goldene Kammer di Colonia.

 



mercoledì 12 agosto 2020

719 - LA CHIESA DI CARTA

 

Sembra impossibile ma...

Un ricercatore italiano ha ritrovato le tracce di un'antica chiesa norvegese dimenticata da decenni e diventata ormai leggendaria. Una chiesa costruita 200 anni fa. Interamente in cartapesta.

La ricerca di Paolo Spalluto inizia all'Accademia di belle arti di Lecce, quando legge in un libro che "In Norvegia c'era una chiesa fatta in carta". Niente di più. Incuriosito, si mette in contatto con alcuni storici delle università norvegesi che gli consigliano di andare direttamente sul posto, a Bergen. Così inizia un'indagine che andrà avanti per 5 anni, totalmente autofinanziata. E dagli archivi della città scandinava, un frammento alla volta, torna alla luce la storia della chiesa di carta: una singolare architettura costruita nel 1793 e sopravvissuta per 40 anni, dalle caratteristiche “ai confini della realtà”. Perché la speciale cartapesta ideata dal costruttore è idrorepellente e ignifuga, e l'intero progetto anticipa di due secoli le tematiche della bioedilizia.

Ma facciamo un salto indietro nel tempo per visitare la chiesa di carta. A costruirla è Werner Christie, nato nel 1746 a Tysnes. Avvocato, industriale e inventore, alla laurea in legge affianca studi di meccanica, matematica, architettura e lingue. Nel 1784 acquista la fattoria Hop vicina a un lago. E' lì che costruirà la sua chiesa. I racconti riemersi da libri e documenti confermano che "Christie, con l'aiuto dei contadini, ha costruito un tempio antico, una chiesa in carta in Hop” con tanto di “cupola maestosa, pilastri corinzi e un interno splendido”; “A Hop – scrive un altro - ho visto una chiesa di carta che ricorda in piccolo il Pantheon di Roma, ottagonale all'esterno, rotonda dentro, con un diametro d 24 Alen (14,4 metri). Numerose le immagini all'interno e all'esterno, anch'esse di cartapesta. Christie dice che la fattoria dove abita è costruita con gli stessi materiali. In ogni stanza c'è un grande forno letteralmente fatto di cartapesta. Christie ha elaborato il mix di carta con tale perfezione che è come la pietra, né fuoco né acqua possono danneggiarla”. Dopo la morte dell'inventore nel 1822, l'edificio sacro fu abbandonato al degrado e poi demolito 7 anni dopo dal nuovo proprietario della tenuta perché pericolante.

Spalluto in seguito ha ritrovato alcune immagini della chiesa e la riproduzione di un dipinto a olio, lo spartito della musica che suonarono il giorno dell'inaugurazione, e una pietra con l'iscrizione "Anno 1793 costruita da Christie e i suoi servi", unico reperto rimasto sul luogo dove sorgeva. Insieme ad un architetto norvegese ha anche elaborato un progetto artistico che comprende la realizzazione di un muro di cartapesta fatto a mano (attualmente esposto in una galleria di Tjiome in Norvegia) riprendendo le indicazioni dagli antichi documenti ritrovati. Già, perché il ricercatore italiano ha anche ricostruito l'impasto “segreto” usato per la costruzione: “carta molto vecchia imbevuta di acqua al vetriolo, gesso, myse (sottoprodotto della lavorazione del formaggio, una specie di ricotta) e chiaro d'uovo: lavorato come pane e lasciato seccare all'aria diventa duro come pietra, ignifugo ed impermeabile.

Segui il link per leggere l'articolo dedicato alla scoperta di Spalluto sulla rivista norvegese “Vart land”. 

https://paolospalluto.blogspot.com/search?q=Bergen&m=1&fbclid=IwAR1pgOY4KYqSbqfk2LDhkqnpSfq-kw-FNNCJaZ-E9bFsZkbGP-yZ6CpzyOU 

martedì 11 agosto 2020

718 - LA SEQUESTRATA DI POITIERS

 

Sembra impossibile ma...

Questa è una storia vera. Infinitamente triste ma vera. Ringrazio Gei Gi per la segnalazione, e vi porto in Francia, nella Poitiers del 1901. Al commissariato di polizia arriva un messaggio anonimo: “Ci terrei ad informarvi – vi si legge - di un fatto davvero grave. Sto parlando di una donna rinchiusa nell’appartamento di Madame Monnier, denutrita e costretta a vivere da 25 anni in una putrida latrina”. I Monnier sono gente perbene, una famiglia dell'alta borghesia: Marcel, già sottoprefetto di Puget-Théniers, vive con la moglie e i figli, e con la madre, vedova dello stimatissimo rettore dell'Università. Così la polizia è assai scettica sulla genuinità della denuncia. Finché qualcuno si ricorda che proprio 25 anni prima Blanche, la figlia maggiore dei Monnier, era scomparsa, e di lei non si era più saputo niente. Così, quasi per scrupolo, gli agenti bussano al numero 21 di rue de la Visitation (oggi rue Arthur Ranc), perquisiscono la casa, e quando aprono la posta sprangata di un vano seminascosto nel piano interrato, scoprono l'orrore. 

Nella stanza c'è un odore nauseabondo, immondizia dappertutto; legata con le catene al letto, in mezzo a escrementi, residui di cibo e scarafaggi, c'è una donna nuda in condizioni pietose. Scheletrica (meno di 25 chili di peso, si scoprirà), col corpo piagato e pieno di escoriazioni, confusa e impaurita alla vista dei poliziotti; le finestre sono coperte da pesanti teli, non filtra un raggio di sole.

Blanche Monnier era nata nel 1849, i vicini ricordano una bimba nervosa, poi un'adolescente bellissima ma inquieta. Il rapporto con la madre era molto conflittuale. Crescendo, era diventata una giovane donna piena di fascino, e i pretendenti non le mancavano. Dopo averne rispediti molti al mittente, nel 1876 si innamorò di un avvocato assai più maturo, e piuttosto squattrinato; la loro storia era molto chiacchierata, e la famiglia si oppose al matrimonio. La madre cacciò l'avvocato e proibì a Blanche di rivederlo, ma lei era caparbia e ben decisa a coronare il suo sogno d'amore. I Monnier avevano un'unica preoccupazione: evitare lo scandalo. Così decisero di rinchiudere la ragazza in una stanza nel piano interrato finché non si fosse arresa. Cosa che lei non fece mai. Per coprire la sua sparizione, dissero prima che era in viaggio, poi che era scomparsa senza lasciare traccia. In seguito la piansero come morta. In quella prigione Blanche è entrata a 27 anni. Quando esce ne ha 52.

Torniamo al 1901. Ai poliziotti che chiedono spiegazioni la madre non dice una parola, li fissa immobile senza mostrare emozioni. Arrestata, verrà liberata di lì a poco per problemi al cuore; morirà due settimane dopo. Il fratello se la cava con una condanna a 15 mesi di carcere: per la Corte d'appello di Poitiers è solo “persona informata dei fatti”. Blanche viene curata all’ospedale Hotel-Dieu di Parigi; i medici dicono che “provò un immenso piacere nel poter stare alla luce del sole, nell’essere lavata e nel respirare finalmente aria pulita”. In seguito riacquisterà peso e solo in parte la salute fisica, ma non si riprenderà mai dallo stato di confusione mentale. Ricoverata in un ospedale psichiatrico, morirà nel 1913, a 64 anni, 25 dei quali trascorsi in una stanza buia. Nel 1930 André Gide trasforma la vicenda in un romanzo, “La sequestrata di Poitiers”; nel 1960 è lo scrittore statunitense Henry Farrell ad ispirarvisi per il thriller “Che fine ha fatto Baby Jane?” da cui due anni dopo viene tratto il film omonimo di Robert Aldrich.

Ho scelto una foto che mostra la luminosa bellezza di Blanche. Per vedere come era diventata dopo la prigionia (e molte altre foto dei protagonisti della storia) guardate i video linkati. 

 



lunedì 10 agosto 2020

717 - LA BIBLIOTECA VIVENTE

 

Sembra impossibile ma...

Ci sono idee che davvero possono migliorare il mondo. “The human library” è una di queste. Ringrazio Valentina Donzella per la segnalazione di un'esperienza nata per combattere il nemico più perfido della comprensione e della tolleranza: l'ignoranza

Danimarca anno 2000, un gruppo di ragazzi in risposta all’aggressione razzista subita da un loro compagno crea l’associazione “Stop The Violence” e in poche settimane raccoglie l'adesione di 30.000 giovani danesi. La prima uscita pubblica è in occasione del Festival di Roskilde, per il quale al fondatore Ronni Abergel viene chiesto di preparare una sorta di performance su larga scala. Nasce così il metodo Human Library. Di cosa si tratta? Semplice, una biblioteca con tanto di bibliotecari e un catalogo di titoli da cui scegliere, solo che invece di un libro, prendi in prestito una persona. Con lui (o lei) passi una mezz'ora nel corso della quale ti racconta la storia della sua vita. Solo che non si tratta di vite percepite come “normali”: qualche titolo dei libri viventi? “Lesbica”, “Rifugiato politico”, “Barbone”, “Donna islamica col velo”, “Bipolare”, “Disoccupato”, “Emigrato albanese”. Tutta gente consapevole di appartenere in qualche modo a minoranze, ma disponibile a raccontarsi e a discutere i propri valori e le proprie esperienze per mostrare che non si giudica un libro dalla copertina.

Il “lettore” entra così in contatto con realtà con le quali difficilmente avrebbe occasione di confrontarsi, persone concrete ed uniche che rappresentano solo la propria esperienza e storia, e non categorie generiche e “aliene”, stereotipi dai quali nascono i pregiudizi e l'intolleranza. “The human library” ha avuto grande successo in tutto il mondo, e dal 2003 è stata riconosciuta dal Consiglio d’Europa.

Oggi è attiva in 50 Paesi con biblioteche temporanee o permanenti. Dalle nostre parti nel 2015 è nata la Human Library Toscana, una delle poche in Italia ad aver ricevuto il riconoscimento da parte dell’organizzazione internazionale. Altre biblioteche viventi sono nate a Verona, Milano, Bergamo, Treviso, Torino, Palermo.

Guarda i video per vedere in azione le biblioteche viventi e segui il link per il sito della Human library.

 
 
 
 
 https://humanlibrary.org/

domenica 9 agosto 2020

716 - IL LEONE DI MONTAGNA

 

Sembra impossibile ma...

In mezzo a un verde pianoro dello Sri Lanka si eleva un'incredibile torre di pietra alta 600 metri sulla cui cima piatta si riconoscono i resti di una possente fortezza: il “Leone di montagna”. L'amico Steve Drury mi segnala questa ottava meraviglia del mondo.

La roccia, visibile da chilometri di distanza, è costituita dai resti magmatici di un vulcano eroso; i primi insediamenti risalgono a 10.000 anni fa, e dal terzo secolo a.C. nelle grotte si insediano i monaci buddisti seguaci di Sangha. Per sette secoli lo sperone roccioso è un monastero, poi nel 473 d.C. arriva il re Kashyapa e lo trasforma in un palazzo-fortezza; alla sua morte nel 495 torna all'uso monastico fino al quattordicesimo secolo, dopodiché viene abbandonato. Nel 1907 il primo occidentale a vedere le rovine è l'esploratore britannico John Still. E ne resta affascinato.

Ma perché Kashyapa decise di erigere lì il suo palazzo? Fra storia e leggenda, le cose sono andate così: Kashyapa, figlio del re Dhatusena, non è quel che si dice un bravo ragazzo: giovanissimo, complotta contro il padre e lo uccide murandolo vivo, poi spodesta il legittimo erede, il fratello maggiore Mugallan, e lo costringe a fuggire in India. Ne teme però la vendetta, e allora decide di mettersi al riparo. Quale posto migliore di quell'aspro contrafforte isolato nella pianura? Cacciati i monaci, fa costruire sulla sommità della collina un palazzo da mille e una notte, a cui si accede solo salendo centinaia di gradini e passando dall'unica porta costruita nelle fauci di un gigantesco leone di pietra (di cui oggi restano solo le zampe). Kashyapa ha anche un certo senso del bello, così circonda l'architettura di giardini e fontane, e fa dipingere lungo la salita centinaia di coloratissimi affreschi con figure femminili. Un'intera parete della montagna viene levigata a specchio, la superficie è rivestita con un intonaco speciale a base di calce fine, albume d’uovo, miele, e poi lucidata con cera d’api.

Ma la farina del diavolo finisce in crusca quando 22 anni dopo la fuga, Mugallan torna con un grosso esercito. Che quello di Kashyapa potrebbe anche battere, se non fosse per un equivoco: il re usurpatore sale su un elefante per cercare un punto di vista migliore, le truppe lo vedono andare in direzione contraria alla battaglia, pensano che se la stia filando e, scoraggiate, si danno alla fuga. Segue la morte di Kashyapa, sulla quale esistono una decina di versioni, una più cruenta dell'altra. Mugallan riporta la capitale ad Anurādhapura, e Sigiriya torna ad essere un monastero.

Cosa rimane oggi di tanta grandezza? Nel sito archeologico si visitano i resti di un palazzo secondario con fossati, mura, giardini e cisterne che contengono ancora acqua; passato ciò che rimane della Porta dei leoni, una scala in acciaio conduce sul ripiano più alto dove dalle rovine del palazzo maggiore si gode una splendida vista. Delle centinaia di affreschi che decoravano le stanze e i corridoi del palazzo, e il percorso in salita, ne sono sopravvissuti una ventina. «L'intera facciata della collina sembra una gigantesca galleria di immagini, con oltre 500 donne raffigurate: forse la pittura più grande del mondo» scriveva John Still nel 1907.

Guarda i video per salire in vetta alla Roccia del leone e scoprire la ricostruzione di come era stata progettata la fortezza nell'antichità. 

                           
 

                           
 


760 - DIETRO IL PADRINO

    Un'offerta che non si può rifiutare. A trovarsela davanti è stato Francis Ford Coppola al momento di iniziare a girare I...