lunedì 30 marzo 2020

428 - BENVENUTI A CASA SIMPSON





Sembra impossibile ma...
Se siete fan dei Simpson e volete dare un'occhiata alla casa dove vivono Homer, Bart & c. fate un salto a Henderson, 20 minuti d'auto dalla Strip, la strada dei grandi casinò di Las Vegas. Ce lo segnala Michele Cornacchia, collaboratore di talento del gruppo di Sembra impossibile ma, che ringrazio; e vi porto al mitico 742 Evergreen Terrace di Springfield, per l'occasione spostato in Nevada.

Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie, protagonisti dei Simpsons, la sitcom animata più famosa del mondo, vivono in una tipica casa monofamiliare americana a due piani, di 200 metriquadri, che negli anni è stata illustrata in ogni dettaglio dal creatore Matt Groening. Anno 1997, la Fox e la Pepsi si affidano a un prestigioso impresario edile per costruire una replica nella vita reale di “The Simpsons house” al 712 di Red Bark Lane di Henderson (segnatevi questo indirizzo), nuovo quartiere residenziale a due passi da Las Vegas. Sarà il primo premio di un concorso della Pepsi Cola: 15 milioni di lattine e un solo vincitore che andrà a vivere a casa Simpson, o in alternativa si accontenterà di 75.000 dollari. Le cose vengono fatte a regola d'arte: il team di progettazione esamina centinaia di episodi e cura ogni dettaglio, dagli esterni con la casa sull'albero di Bart, l'altalena e il barbecue ai 1.500 oggetti di scena che vanno a comporre l'arredamento. In 49 giorni la villetta è completata.

Nei giorni successivi è aperta al pubblico e in un solo mese 30.000 persone fanno la fila per visitarla. Una vera invasione, che disturba la tranquilla vita dei residenti. Esplode la protesta, il giudice condanna la Fox a pagare i danni, e le visite vengono interrotte. Ma i fan continuano ad assediare la casa, e Pepsi & c. decidono di chiudere in fretta e furia il concorso, proclamando il vincitore. Che però non si presenta; i partecipanti protestano, pensano a un imbroglio, e gli organizzatori assegnano il premio alla seconda classificata, Barbara Howard, un'anziana signora del Kentucky, che vola a Henderson con figli e nipotini a spese della Fox, ma poi sceglie i 75.000 dollari. Intanto i problemi col vicinato continuano; per allontanare i fan l'esterno della casa viene ridipinto con colori meno da cartoon, e molti dettagli “simpsoniani” vengono rimossi. Gran parte degli arredi interni poi vengono rubati da cacciatori di souvenir che si introducono anche di notte. Infine nel 2001 la casa viene venduta a una famiglia che della serie animata sa poco o niente, cambia tutto l’arredamento e fa piazza pulita di ciò che ricorda i Simpson. Cosa che non ferma l'assedio dei fan, che ancora oggi girano intorno alla “Simpsons house” facendo foto e riprese, mentre la donna che continua a vivere lì dopo il divorzio dal marito riceve centinaia di lettere indirizzate a Marge e a Homer.

domenica 29 marzo 2020

427 - LE SCARPE DI "BIG NOSE" GEORGE




Sembra impossibile ma...
Questa è una storia vera e (siete avvisati) un po' macabra. George Parrot nasce a Montbelìard, in Francia, nel 1834. Intorno ai 40 anni lo ritroviamo, non mi chiedete come né perché, nel vecchio West, dove si fa una certa fama come rapinatore e ladro di bestiame. Fama in parte dovuta a un dettaglio che lo rende riconoscibile: il naso di notevoli dimensioni, che gli vale il soprannome di “Big nose” (nasone) George. Come fuorilegge non è un granché, e diversi “colpi” finiscono male; nel 1878 ad esempio i sorveglianti della Union Pacific lo beccano a Rawlins nel Wyoming mentre sta danneggiando la rotaia per far deragliare un treno e derubare poi i passeggeri. Inseguito da un drappello di uomini della legge, insieme alla sua banda organizza un'imboscata nella quale vengono uccisi due sceriffi. Così si ritrova sulla testa una taglia di 20.000 dollari. Seguono due anni di fughe, e gli sarebbe andata anche bene se in un saloon di Miles City nel Montana dopo un bicchiere di troppo non si fosse vantato delle sue imprese di fronte ad agenti in incognito.

Arrestato ai primi del 1881, sfugge per miracolo grazie alla scorta che lo accompagna a un tentativo di linciaggio sul treno che lo porta a Rawlins per il processo. Dove comunque viene condannato a morte. Cerca di fuggire dalla prigione, ma il tentativo è maldestro: il carceriere, colpito alla testa con una sbarra, si riprende e con l'aiuto della moglie lo riporta in cella. Ma quando la gente di Rawlins vede uscire il guardiano ferito e insanguinato, esplode la violenza. In 200 lo tirano fuori dalla cella e improvvisano un patibolo: lo impiccano a un palo del telegrafo. Per due volte la corda si rompe; il terzo tentativo, che gli strappa anche le orecchie, è quello buono.

Poichè nessuno reclama il corpo del bandito, lo prendono in custodia due medici locali, Thomas Maghee e John Osborne. La moglie di Maghee era diventata pazza e violenta dopo una caduta da cavallo, e lui vuole studiare il cervello di Parrot alla ricerca di eventuali anomalie. A Osborne invece non interessa il cervello. Dopo aver modellato una maschera mortuaria sul viso di George, scuoia le cosce e il petto e invia la pelle a una conceria di Denver con le istruzioni per trasformarla in un paio di scarpe eleganti e una borsa medica. Anni dopo, eletto Governatore dello Stato del Wyoming nelle liste dei Democratici, indosserà quelle scarpe al ballo inaugurale del suo incarico. Con la calotta del cranio invece farà un posacenere. Gli esperimenti sul corpo di Parrot, fatto a pezzi e conservato in soluzione salina in una botte, continuano per un anno, poi i resti vengono sepolti nel cortile di Maghee. Saranno ritrovati solo nel 1951. Tutti gli oggetti legati alla storia di Big Nose George sono oggi in mostra al Carbon County Museum di Rawlins.

426 - IL DIABOLICO PONTE




Sembra impossibile ma...
In Europa esistono numerosi Ponti del Diavolo. Ma il Rakotzbrücke in Germania è il più diabolicamente spettacolare di tutti.

I tedeschi, si sa fanno le cose per bene, e quanto a precisione sono secondi solo agli svizzeri. Così non c'è da stupirsi se, come racconta l'immancabile leggenda, l'architetto che ha ideato il ponte si è rivolto a satana in persona pur di raggiungere quell'obiettivo che continuava a sfuggirgli: progettare una struttura dalla curvatura perfettamente semicircolare in modo da creare l'illusione, quando l'acqua è ferma e limpida e la luce è giusta, di un cerchio completo.

Il Rakotzbrücke, lungo 35 metri, sorge all’interno del Parco naturale delle azalee e rododendri di Kromlau, a poco più di un centinaio di chilometri da Dresda, quasi al confine con la Polonia. Il Parco fu realizzato nel 1860 da Friedrich Hermann Rotschke, cavaliere di Kromlau, grande amante della natura, che volle creare nel bel mezzo della Sassonia un giardino all'inglese con molti piccoli stagni e laghetti immersi nel verde. Sarebbe stato il suo architetto, tornando alla leggenda, a stringere un patto col maligno. Che avrebbe realizzato per lui un ponte inimitabile e in cambio, come al solito, l'anima del primo essere vivente ad attraversarlo sarebbe stata sua. Scontato anche il finale, col diavolo che schiuma rabbia quando vede che a passare il ponte per primo è una capra. Una seconda leggenda vede il ponte come un portale mistico verso un'altra dimensione, e in base a una terza chiunque gli passa sotto con una barca a vela in una notte di luna piena scoprirà le sue capacità magiche e i suoi desideri più reconditi.

Leggende uguali a quelle di tanti altri Ponti del diavolo: ce ne sono a decine, perlopiù costruiti in epoca medievale. In Italia sono una quindicina, a partire da quello stupendo di Borgo a Mozzano, in Garfagnana; in Francia se ne contano 49, un'altra cinquantina sono disseminati nel resto d'Europa. Il Rakotzbrücke è forse il più suggestivo, fotografi e instagramers arrivano da tutto il mondo per rubare uno scatto uscito da una fiaba. Un'immagine labile come un sogno: per guastarne la perfezione basta la siccità estiva, uno scroscio di pioggia o un soffio di vento che increspa il riflesso.

venerdì 27 marzo 2020

425 - GRIOT




Sembra impossibile ma…
A Touba, in Senegal un sogno è diventato realtà: un moderno ospedale realizzato grazie ai soldi che gli “italiani” – come lì chiamano i ragazzi senegalesi emigrati in Italia – ritagliano dai loro magri guadagni. Un viaggio nel Paese dei baobab di qualche anno fa è l’occasione per raccontarlo. E per scoprire i segreti dei griot, le tradizioni della città santa e tante piccole sfide quotidiane

Un pezzo di Toscana nell’Africa nera. A Kebemer, nel cuore del Senegal, 150 chilometri a nord di Dakar, si parla più l’italiano che il francese. «Porca miseria», «maremma cane»: neri come il carbone, pura razza Wolof, ma le esclamazioni sono quelle della lingua di Dante, con tanto di «c» che scivola via. I leoni del Senegal hanno appena perso ai rigori un’importante partita, e la delusione di fronte alla tv si scioglie in bicchierini di un the forte come un liquore.

Il sole tramonta in mezzo ai baobab che spezzano la linea piatta della savana, e una piccola folla di parenti e amici saluta e ringrazia chi li ha ospitati per l’evento sportivo. Lui, il padrone di casa, è Ablaie, 22 anni per quasi due metri di altezza e un fisico da atleta su una faccia da bambino. E’ sua la bella casa in muratura con una grande terrazza per le ore più fresche, e sua la televisione, una delle poche del paese, e i mobili all’europea di una sala vasta e un po’ kitsch, con lo stereo e le grandi foto dei marabout islamici, mentre fuori è parcheggiata una vecchia Mercedes comprata usata ma tirata a lucido.

Ablaie lavora in Italia, dopo due anni a Pisa è arrivato a Pescara, uno dei mille e mille venditori che misurano a piedi le strade e le spiagge delle località turistiche. Da alcuni giorni sono ospite a casa sua. Mi ha messo in contatto con lui Mass, capo della comunità senegalese di Pisa e cugino di Ablaie. Mass più di 20 anni prima era stato uno dei primi a pronunciare la parola «vuccumprà», poi è diventato sindacalista. E’ in gamba: negli anni successivi sarà richiamato in patria dal suo governo, che gli affiderà un ministero.

A Kebemer ho perso il conto dei fratelli e delle sorelle, dei cugini e dei parenti vari di Mass: per le strade ti fermano tutti e ti chiedono in italiano notizie dell’amico lontano. Il fatto è che centinaia di abitanti di questa cittadina sono sbarcati in Italia grazie al suo esempio e anche al suo appoggio concreto. Da queste parti Mass è un vero personaggio, il punto di contatto fra il Senegal e quella lontana terra fredda e piovosa dove per tutti c’è un’occasione, fra la dura realtà africana e il sogno italiano.

Ablaie ha tre fratelli, due più grandi lavorano con lui a Pescara, uno di 20 anni sogna l’Italia e mette i soldi da parte: servono almeno diecimila euro. «Sono tanti? Forse — ammette — ma sono l’unica possibilità. Qui lavoro non ce n’è. Con questi soldi ci procurano i permessi e ci inseriscono nel giro del lavoro. Poi si tratta solo di resistere, e lavorare duro. Qualcuno non ce la fa, e torna a casa. I più restano in Italia anni. Tutti sognano di tornare. E c’è anche chi fa fortuna»

A San Louis ad esempio, al confine con la Mauritania, un cinquantenne che da 30 anni lavora a Genova sta costruendo un albergo di lusso. Mi mostra il cantiere con orgoglio, si profonde in ringraziamenti per l’Italia «che ci ha accolti, ospitati, ci ha dato una possibilità». Aprire un albergo, o un ristorante a Kebemer è anche il sogno di Ablaie, che in Italia ci viene sei mesi l’anno, ma vorrebbe costruire il suo futuro qui, vicino alla moglie e alle due figlie e a tutti gli altri parenti, la madre, una zia, due cugine. Tutti legati a un solo stipendio, il suo. Ablaie in Italia guadagna poco meno di mille euro. Cinque-seicento li manda a casa, più o meno il triplo di uno stipendio medio. Col resto si mantiene a Pescara.

A Kebemer la sua oggi è una famiglia ricca. Casa, auto, tv sono i segni di uno status sociale elevato. Alla periferia della cittadina in molti vivono ancora nelle capanne di paglia. E le case in muro sono spesso poco più che baracche. Da mangiare c’è per tutti, un po’ ovunque. Il problema è che si sta sviluppando un doppio mercato: cibo, alloggi, generi di prima necessità costano pochissimo. Ma chi guadagna di più, come gli emigranti, entra automaticamente nel labirinto del consumismo. Una bella casa, l’auto, la tv, lo stereo costano quanto da noi, forse di più. Cinquecento euro sono anche troppi per sopravvivere, ma terribilmente pochi per vivere all’europea. Così i soldi non bastano mai. E per molti il sogno di tornare rimane tale.

Per il resto la vita si svolge secondo ritmi antichi: il mercato, la moschea, le festività religiose (in questi giorni la più importante, il Tabaski, dove ogni famiglia “sacrifica” e porta in tavola una pecora). E la sera tutti insieme a mangiare nell’atrio della grande casa in muro. La mia cena è stata preparata nel salone, la tavola è apparecchiata solo per me. Un trattamento di riguardo per l’ospite. Chiedo di mangiare con tutti gli altri, se non è un problema. Non lo è. Si mangia nell’ingresso, seduti a terra in cerchio intorno ad una grande conca di riso e pesce, ci si serve con le mani. La porta è aperta, vanno e vengono di continuo parenti, amici, i “talibé”, piccoli sciuscià che chiedono e ricevono la carità di un piatto caldo. Si sta bene qui. Tutti parlano, qualcuno canta, Ablaie gioca con i bambini. L’Italia è fredda e lontana, e la notte africana è così dolce

«A Kebemer ce l’avete un griot?». Ablaie ci pensa un attimo, poi annuisce: «C’è una griot molto vecchia, e anche suo figlio e suo nipote sono griot. Incontrarla? Non sarà facile. I griot non amano le interviste». Ci provo con un trucchetto dialettico: «Ma non è compito del griot dare informazioni? E io quelle chiedo…». Lo stratagemma funziona: l’appuntamento a casa dei griot è fissato per le 22.

Cos’è un griot, figura di grande rilievo nel sistema sociale senegalese, sarà l’oggetto di oltre un’ora di intervista. Ma occorrono molte parole, tante quanti sono i suoi ruoli, per spiegarlo. Prima definizione, la più poetica: griot è chi prende le cose brutte e riesce a farle diventare belle. Griot è un cantastorie, uno che racconta, dà notizie, informazioni, ma anche un sapiente, con in mano le chiavi della tradizione orale in un mondo che non ha tradizione scritta; quindi è la storia, sa tutto del villaggio e delle sue famiglie, una sorta di stato civile vivente capace di risalire indietro nel tempo di generazioni. E ancora è un ottimizzatore, uno che trova le soluzioni più giuste, e un mediatore, che presenta sempre i lati migliori delle cose. E’ lui ad esempio che «illustra» le doti e garantisce sulle rispettive famiglie prima di un matrimonio, cantandone le gesta, la bellezza, la salute. Ed è lui il riferimento morale dell’intera società Wolof, la principale etnia del Senegal. Il più famoso di tutti i griot ha un nome conosciuto nel mondo: Youssou N’Dour, popstar internazionale amatissimo in tutto il Paese. L’ho incrociato una settimana prima nella babele della pista da ballo della sua discoteca techno, alla periferia di Dakar. Ci ho scambiato due parole, ma ancora non sapevo che era un griot. Speravo in un’intervista. Lo riconobbi, in piedi al lato opposto della grande pista metallica, sotto una grande finestra da dove l’allora moglie Mami infiammava centinaia di ragazzi. La traversata, sballottato da un mare di corpi scatenati, fu un’odissea. Una stretta di mano nel frastuono, un sorriso, poi lo persi in un inferno di luci e di suoni.

Kebemer è un altro mondo. Il silenzio della notte è rotto solo dall’abbaiare di qualche cane. In un cortile poco illuminato la donna corpulenta, dallo sguardo severo, di età molto avanzata ma indefinibile è seduta su un’ampia poltrona. E’ lei la griot. Mi riceve insieme a figli e nipoti. Uno di questi, sui trent’anni, lavora a Ferrara e parla un italiano corretto, quasi colto. Lui farà da interprete. La donna parla lentamente, scandisce le parole come chi sa affascinare con le sue storie. Racconta gesta epiche avvenute all’alba dei tempi, la storia del primo griot. Parabole ed aneddoti che dipingono la figura del griot, da sempre con l’onere di essere il più intelligente, il più preparato, il più giusto. In battaglia è quello che porta le insegne del villaggio, se muore lui la battaglia è persa.

E il rapporto con le migliaia di giovani che vanno a lavorare all’estero? «Sono il nostro tesoro più grande — risponde lenta — e prima che partano li incontriamo sempre, insieme alle famiglie. A queste ultime chiediamo di stare loro vicino, di essere presenti, di telefonare spesso e non farli sentire soli. A chi parte raccomandiamo la solidarietà, e l’onestà». «Tu vai in un Paese lontano — diciamo loro — con abitudini e tradizioni diverse. Rispettale e non fare niente di cui ti vergogneresti. Tu sei l’ambasciatore della cultura Wolof all’estero, comportati come tale, noi ti seguiremo e ti saremo vicini, fa’ che possiamo essere orgogliosi di te…». In Italia il numero dei senegalesi che vanno contro la legge è più basso rispetto ad altre etnie, lo dicono le cifre. Che dietro il luogo comune del «bravo senegalese» ci sia il lavoro antico del griot?

Touba è la città sacra di gran parte dell’Islam senegalese. Qui, 250 chilometri a nordest della capitale, è vissuto all’inizio del Novecento Amadou Bamba, grande Marabout, una sorta di Padre Pio locale che fra opere di bene e miracoli oggi è ricordato e venerato come un santo. E qui nel 1963 è stata completata una splendida, grandiosa moschea a lui dedicata: tonnellate di candido marmo di Carrara e altri pregiatissimi marmi colorati provenienti da tutto il mondo per un’opera colossale, un’immensa cattedrale nella savana il cui minareto alto 98 metri è visibile da chilometri di distanza.

Il venerdì e la domenica la città è invasa dai pellegrini: vestiti i bianchi abiti della festa intere famiglie fanno decine, a volte centinaia di chilometri nella maggior parte dei casi su un carretto tirato da un asinello per venire a pregare vicino alla tomba di Amadou Bamba. E nel giorno che ricorda il ritorno dall’esilio del loro marabout, sono più di mezzo milione i visitatori che si riversano nelle strade di Touba. Ma la confraternita che si è raccolta intorno a questo marabout, oggi la più forte e la più numerosa del Senegal, ha un altro motivo per andare fiera di Touba.

Anche Ablaie e Mass ne fanno parte, e Ablaie mi porta con orgoglio alla periferia della città. Qui mi mostra un edificio nuovissimo, con alcune ali ancora in costruzione. «E’ un ospedale — spiega — lo stiamo costruendo noi. Alcuni reparti sono già in funzione». Soldi italiani, perché da tempo ogni immigrato in Italia che appartiene alla confraternita di Bamba si tassa di 300 euro l’anno. Mass, tanto per cambiare, è uno dei principali artefici dell’iniziativa, e lui riscuote le donazioni annuali da tutta Italia e le gira al cantiere dell’opera, che cresce di anno in anno. Sono stati investiti molti soldi. E l’«ospedale degli italiani» è lì, davanti ai miei occhi. Un sogno che è diventato realtà.

giovedì 26 marzo 2020

424 - CONIGLI




Sembra impossibile ma...
Questa è una storia vera. Ringrazio l'amico Pg Varola per avermela raccontata tanti anni fa. Novembre 1726, a Godalming, un villaggio del Surrey, la ventitreenne Mary Toft, contadina moglie di Joshua, merciaio ambulante, e madre di tre figli, di fronte a John Howard, eminente chirurgo ed esperto ostetrico, partorisce... un coniglio.

E la cosa non finisce lì. Il Weekly Journal del 19 novembre 1726 racconta la “Strana notizia che ci arriva dal Surrey” aggiungendo che negli 8 giorni successivi la donna, sempre aiutata dal medico, “ha partorito un coniglio al giorno, tutti morti venendo al mondo” (vi risparmio i numerosi particolari cruenti e disgustosi, che non mancano). Ma la ragazza cosa dice? Qui esistono due versioni. Nella prima, lei già incinta avrebbe visto un coniglio, e da quel momento non sarebbe stata capace di pensare ad altro: una “voglia” che avrebbe influito sul parto. Nella seconda, più diretta, sarebbe stata violentata da un coniglio gigante, alto come un uomo. La notizia fa il giro dell'Inghilterra, e il re Giorgio I ne rimane assai colpito. Tanto che incarica il più prestigioso dei chirurghi anatomisti di corte, Nathaniel St André, di contattare Howard. Il medico conferma tutto, e invita il collega a Godalming con tutta la sua equipe. Il sopralluogo dà i suoi frutti: la Toft partorisce di nuovo, e i medici restano impressionati. St André giunge alla conclusione che i conigli si sono sviluppati nelle tube di Falloppio. Il re, sempre più colpito, manda nel Surrey un altro luminare, Cyriacus Ahlers, che nota una serie di dettagli che lo insospettiscono e conclude che è una truffa. St André si infuria, e invita la Toft a corte per dare una dimostrazione anatomica della sua teoria davanti al re. Sotto la sua guida, decine di eminenti medici e chirurghi esaminano la ragazza. E i più sono d'accordo con lui: nessuna montatura.

Intanto le indagini procedono. Si scopre che il marito della Toft, Joshua, aveva acquistato una gran quantità di cuccioli di coniglio. La donna viene sottoposta ad interrogatori serrati, ma non confessa. Cede però di fronte a un bluff: le dicono che sarà sottoposta ad una dolorosa operazione chirurgica per verificare se è fatta come tutte le altre donne. Lei abbocca, e confessa: fin dall'inizio la sua abilità è stata quella di inserire nella vagina dei conigli per poi “partorirli” poco dopo. Mary Toft viene incarcerata a Tothill con l'accusa di “vile truffa e impostura”. Il re è rabbioso, St Andrè e i più famosi medici inglesi sono pubblicamente sbeffeggiati, le loro carriere rovinate per sempre. Della vicenda si parla ovunque: sarà citata da artisti come Hogarth, Voltaire e Walpole.

Ma non è tutto. Intrattenitori di ogni tipo utilizzano la vicenda Toft per divertire il pubblico. Il mago-prestigiatore per eccellenza a Londra è Isaac Fawkes, star della popolarissima Bartholomew Fair. Nel suo repertorio inserisce un nuovo gioco: l'apparizione di conigli dal cappello a tricorno in uso all'epoca; più di un secolo dopo un altro illusionista, John Henry Anderson, sarà il primo a replicare l'effetto usando un cappello a cilindro. Nasce così quello che è forse il più famoso effetto dei prestigiatori di tutto il mondo: il coniglio dal cilindro.

423 - LE VETTE DI PANDORA




Sembra impossibile ma...
Le montagne Tianzi in Cina sono tanto insolite da evocare scenari extraterrestri. Non a caso James Cameron vi ha ambientato alcune scene del film Avatar per dar vita ai paesaggi del pianeta Pandora.

Per vedere questo incredibile spettacolo della natura non servono viaggi intergalattici, basta arrivare nella provincia dello Hunan, nel Parco Nazionale Zhangjiajie. Pinnacoli e pilastri in pietra ricoperti di vegetazione si innalzano verso il cielo, forano oceani di nuvole e durante la stagione delle piogge emergono da un mare di nebbia che lascia intravedere cascate, ponti, foreste e grotte. Sono le montagne Tianzi, che devono il loro nome a un agricoltore che fra storia e leggenda guidò la rivolta dei Tuija. Per visitare il parco si possono percorrere i sentieri attrezzati per il trekking che si insinuano fra le vette per chilometri, oppure spostarsi con i diversi mezzi di trasporto disponibili da uno all'altro degli highlights dai nomi fiabeschi del parco, che sono tanti e sorprendenti.

Fra i principali, la grotta di Tianmen, un enorme buco nella roccia alto decine di metri a cui si accede con una lunghissima scalinata. La Piattaforma “Lost Souls” belvedere di vetro che si affaccia sulle vette seminascoste dalle nuvole: una finestra su un mondo celestiale fantastico, tanto che i visitatori affascinati non vogliono più andar via, come suggerisce il nome. L'Ascensore dei Cento Draghi, che in 2 minuti di corsa lungo il costone della montagna porta a 335 metri d'altezza, a una terrazza a picco sul gruppo degli Spirit Soldiers, 48 torri rocciose disposte come soldati in formazione. Alle pendici del monte Tianzi, il più alto, si arriva con il Ten-Li Gallery, treno su monorotaia che corre per 5 chilometri in una stretta valle fra i pinnacoli seguendo il corso di un ruscello; per raggiungere la vetta si sale invece su una delle funivie che viaggiano a 700 metri di altezza per oltre 2 chilometri fra guglie e strapiombi. C'è poi la Grande Muraglia Naturale, fatta di mura torreggianti che serpeggiano nel panorama come il celebre monumento, e le Risaie nel Cielo campi di riso che sembrano sospesi su un promontorio circondato dai tipici picchi di Zhangjiajie.

Infine, last but not least, ecco il First Bridge under Heaven, una passerella di vetro su uno strapiombo di 300 metri, larga 6 metri e lunga 430. Attraversandola si ammira la fantastica vallata dei Pilastri Celesti col monte Avatar Hallelujah, ribattezzato come nel film nel 2010. Una passeggiata sul fondo trasparente adatta a chi non soffre di vertigini. Per i più spericolati poi, al centro del ponte c'è la piattaforma per il bungee-jumping più alto del mondo. Se tutto questo vi attrae, date un'occhiata al sito ufficiale del parco.







422 - L'ALBERO DELLA VITA




Sembra impossibile ma…
In un parco nazionale svedese c’è un alberello che se lo vedi non gli dai due lire. E’ un abete rosso che non raggiunge i 5 metri di altezza, anche un po’ rinsecchito. Eppure devi avvicinarti a lui con enorme rispetto, perché che tu ci creda o no sei di fronte al più antico organismo vivente sul pianeta Terra.

Si chiama Old Tjikko, cresce su una montagna del parco Fulufjället e il nome glielo ha dato (in ricordo del suo vecchio cane) il professor Leif Kullman, docente di Geografia fisica all'Università di Umeå, che l’ha scoperto nel 2004. La datazione del suo sistema di radici è stata determinata col metodo del carbonio-14. Non è abbastanza precisa da stabilire l'anno esatto in cui l’albero è germogliato, ma tanto da fissarne la nascita intorno al 7540 avanti Cristo: vale a dire circa 9560 anni fa. A quel tempo l’uomo stava avviando il passaggio dalle attività di caccia e raccolta all’agricoltura e all’allevamento, utilizzava piccoli strumenti di selce per le prime rudimentali lavorazioni e aveva appena iniziato a costruire i primi villaggi.

Il tronco di Old Tjikko ha solo 600 anni, ma la pianta è sopravvissuta per millenni utilizzando processi di propagazione clonale (il tronco muore ma il sistema di radici rimane in vita e fa germogliare un nuovo tronco). Fino a pochi decenni fa fra l’altro la parte visibile della pianta era poco più di un arbusto rinsecchito, e il suo sviluppo nella forma attuale sarebbe dovuto al riscaldamento globale. I ricercatori hanno trovato nella stessa area un vero e proprio boschetto di circa 20 abeti, tutti di oltre 8000 anni.

Le autorità svedesi negli ultimi anni hanno messo una recinzione attorno all'albero per proteggerlo dai vandali, ma in estate, prenotando in anticipo, è possibile fare una visita guidata.

421 - L'ALBERO DELLE MERAVIGLIE




L’ALBERO DELLE MERAVIGLIE

Sembra impossibile ma…
C’è un albero che a prima vista sembra una pianta come tante, ma quando arriva la primavera i rami si caricano di fiori bianchi, rosa, rossi, viola: un caleidoscopio di colori. A fine estate poi i fiori si trasformano in frutti: prugne, pesche, albicocche, nettarine, ciliegie, mandorle. E’ il “Tree of 40 fruit”, l'unico albero al mondo capace di produrre 40 diverse varietà di frutti.

Il creatore (meriterebbe quasi la C maiuscola) di questa meraviglia è un artista col pollice verde: Sam Van Aken, professore associato di Scultura all'Università di Syracuse ed esperto di botanica. La sua famiglia, di origine olandese, vive in una fattoria della Pennsylvania, dove lui è cresciuto. Facciamo un salto indietro nel tempo. Nel 2008 Van Aken, che sta lavorando a un progetto artistico basato su un albero che produce fiori multicolori, viene a sapere che la vecchia stazione per esperimenti agricoli dello Stato di New York sta per chiudere a causa di tagli ai finanziamenti. Qui sono conservate 250 varietà native di frutti con nocciolo, un patrimonio che rischia di andare perduto. Così decide di acquistare il frutteto della stazione, grande poco più di un ettaro. Esperto di innesti, inizia a lavorare con le 250 varietà di gemme a disposizione, ne seleziona qualche decina, e realizza una catena di innesti su un singolo albero da frutto, utilizzando tecniche complesse dove niente è lasciato al caso, con una timeline precisa dei tempi di fioritura e maturazione di ciascun tipo di frutto. Nel corso di cinque anni l'albero accumula rami da 40 diversi alberi "donatori", ciascuno con un frutto diverso.

Dopo vari tentativi falliti, alla fine Van Aken vede fiorire il suo primo “Tree of 40 fruit”, un albero che produce 40 varietà di frutta a nocciolo, del genere Prunus, che negli Stati Uniti maturano in sequenza tra luglio e ottobre. Un risultato ottenuto senza interventi genetici ma esclusivamente tramite una lunga serie di innesti. Un’opera d’arte che è sia un museo vivente che un prodigio della botanica. Dal 2014 ne ha prodotti 16, installati poi in luoghi pubblici e privati, giardini comunitari, musei e collezioni private. Ed è al lavoro per realizzare coi suoi alberi magici un primo grande frutteto.


420 - LA GRANDE GUERRA DEGLI EMU'




Sembra impossibile ma…
Nell’autunno del 1932 l’esercito australiano ha condotto un’incredibile guerra contro gli emù. Le cose sono andate così. Nei primi anni Trenta la grande depressione colpisce anche le aree rurali dell’Australia occidentale, coltivate da reduci di guerra che hanno bonificato la regione e portato l’acqua. L’habitat migliorato ha attratto però anche gli emù: sono almeno ventimila, distruggono le recinzioni e danneggiano i raccolti. I coloni chiedono aiuto al governo, e l’uso di mitragliatrici per sterminare i grossi uccelli. Il ministro Pearce accetta, con la condizione che le armi devono essere usate solo da militari. Così decide l’invio dell’esercito e affida il comando delle operazioni al maggiore G.P.W Meredith della Royal Australian Artillery.

Il 2 novembre si aprono le ostilità. I soldati avvistano 50 emù e tendono un’imboscata, ma questi si sparpagliano e fuggono veloci zigzagando: non è facile colpirli. La cosa si ripete nei giorni successivi, ma gli emù si rivelano astuti, veloci e anche molto resistenti ai colpi delle armi da fuoco. Meredith decide di montare le mitragliatrici sulle jeep per inseguirli: mossa inefficace, impossibile colpire gli emù durante l’inseguimento sul terreno sconnesso. Poi sorprende 1000 uccelli vicino a una diga, ma le armi si inceppano: ne uccide solo 12, gli altri spariscono. L’8 il ministro, anche per le critiche ricevute, decide di ritirare le truppe. Sul terreno restano con certezza poco più di 50 emù, mentre in un rapporto ufficiale Meredith dichiara che i suoi uomini non hanno subito perdite.

Il maggiore tesse anche le lodi del nemico: «Affrontano le pallottole con la robustezza di un carro armato. Se avessimo una divisione con la resistenza ai proiettili di questi uccelli, potremmo confrontarci con ogni esercito del mondo». Col ritiro delle truppe gli attacchi alle coltivazioni da parte degli uccelli riprendono con maggior vigore. Il ministro decide per una seconda campagna militare, e ordina l’eliminazione totale della popolazione degli emù: il 13 novembre le forze armate entrano in azione in massa: nei primi tre giorni con qualche risultato, poi ricominciano insuccessi e brutte figure.

Il 10 dicembre viene deciso il definitivo ritiro delle truppe. Il conflitto si conclude con l’implicita ammissione della sconfitta da parte del governo australiano. Ogni richiesta di intervento da parte dei coloni, anche negli anni successivi, otterrà un secco rifiuto. «I sogni dei mitraglieri di sparare raffiche su fitte masse di emù - fu il commento dell’ornitologo Dominic Serventy – si sono dissolti di fronte all’uso di tecniche di guerriglia da parte del comando emù. L’esercito umiliato è costretto a ritirarsi dal campo di battaglia».
Guarda i video con filmati d'epoca e un breve documentario sulla guerra degli emù.




419 - ELEFANTI SUL PATIBOLO




Sembra impossibile ma…
Questa è una storia vera. La storia di Topsy e Mary, condannate a morte per omicidio e giustiziate in pubblico, la prima folgorata nel 1903, la seconda impiccata nel 1916. Anni duri quelli, le esecuzioni erano all’ordine del giorno, e il fatto di essere femmine non era un’attenuante. Solo che Topsy e Mary erano due elefantesse.

Topsy, alta 3 metri e pesante 5 tonnellate, lavora per il Forepaugh Circus:. Il 27 maggio 1902 a New York un guardiano ubriaco la infastidisce, quando le brucia la proboscide con una sigaretta lei reagisce e lo uccide. Così finisce sulle prime pagine dei giornali. E diventa la prima vittima delle fake news: arrivano ad attribuirle 12 omicidi in mezza America. Un’inchiesta del 2013 non troverà traccia di vittime di elefanti sui giornali dell’epoca, solo il caso di un uomo ferito a Paris Texas. Il proprietario del circo si libera di Topsy: la vende al Sea Lion Park. Qui pochi mesi dopo, colpita con un forcone dal guardiano, scappa e semina il panico in città. E’ troppo: l'animale è giudicato ingovernabile, va soppresso. Come? “Con l’elettricità” dice l’inventore Thomas Edison alle prese con la “guerra delle correnti”: lui per quella continua, Westinghouse per l‘alternata. L’esecuzione di Topsy, il 4 gennaio 1903 a Coney Island di fronte a 1500 spettatori, diventa uno spot pubblicitario per Edison. La scossa di 6.600 Volt dura 10 secondi, l'animale muore sul colpo.

Storia analoga 13 anni dopo per “Murderous Mary”. Lei lavora nello Sparks World Famous Shows Circus. L’11 settembre del 1916 a Kingsport nel Tennessee, Red Eldridge si fa assumere come ammaestratore di elefanti. In realtà non ne ha mai visto uno prima. Durante la sfilata in città, Mary si ferma per prendere una fetta d’anguria e lui le pianta il pungolo dietro l’orecchio. Mary reagisce e la carriera di Eldridge si conclude lì. I quotidiani ricordano il caso di Topsy, stavolta non c’è neanche da discutere: a morte. Come? Elettricità? Sì, ma in Tennessee ne arriva poca. Si opta per la buona vecchia forca. Così 2 giorni dopo di fronte a 2500 spettatori Mary sarà il primo e unico elefante della storia ad essere impiccato. 

 

mercoledì 25 marzo 2020

418 - LA STRAGE DEGLI INNOCENTI




Sembra impossibile ma...
Migliaia di bambini sono morti nell'Inghilterra Vittoriana a causa di un elisir dalle fantomatiche virtù curative e di un biberon alla moda. Una vera strage degli innocenti, solo che al posto di Erode c'è un esercito di mamme che nel tentativo di preservare la salute dei loro piccoli ne causarono tragicamente la morte.

Quando nel 1721 muore il farmacista Thomas Godfrey di Hunsdon, il rimedio che ha inventato, il Godfrey’s Cordial, è già famoso in tutto il regno. Nei due secoli successivi se ne venderanno quantità enormi. Si tratta di un elisir che promette di curare qualunque malessere infantile dalle coliche alla diarrea fino all’insonnia. E in effetti i bambini, che adorano il preparato reso dolce dalla melassa, presa la medicina sono sereni, rilassati, dormono senza fare storie e non piangono più per le coliche. Tutto grazie a un ingrediente speciale: l'oppio. La formula, resa nota nel 1823, include infatti zenzero, alcool del vino rettificato, olio di sassofrasso, laudano (ovvero la tintura dell'oppio) e la dolcissima melassa di Venezia.

Sono farmacisti e medici a consigliare il cordiale, visto che l'oppio è ritenuto un medicinale tonico e corroborante, e non una droga. Il flacone appare spesso accanto al letto delle partorienti, e una piccola dose viene somministrata al bambino appena nato. Un rimedio prezioso ed economico, usato in tutte le classi sociali, ma soprattutto dalle donne che lavorano in fabbrica e non possono perdere ore di sonno per il pianto del bambino. Sulla scia del successo del Godfrey's Cordial fioriscono altri preparati analoghi, dall’Atkinson’s Preservative al Mrs Winslow’s Soothing Syrup. Ciò che nessuno sospetta, è che il rischio di overdose è altissimo, anche perché l’oppio tende a separarsi dagli altri ingredienti, e alla fine della bottiglia il bimbo assume droga pura. Le morti inspiegabili sono continue, e i medici attribuiscono i decessi a un'indefinita “debolezza dalla nascita” o alle cause più improbabili. Gli elisir all'oppio saranno venduti fino agli anni Venti del XX secolo.

Chi sopravvive poi deve vedersela con un particolare biberon: una bottiglia di vetro dalla forma schiacciata, col collo stretto e un tubetto di gomma con tettarella finale. Diffusissimo e di gran moda, perché permette a bimbi piccolissimi di nutrirsi quasi senza l'aiuto dei genitori, avrà vari nomi: Banjo, Alexandria, Victorian. In realtà è una bomba a orologeria. Data la sua forma, è difficilissimo da pulire, e il tubo in gomma è un concentrato di germi; il tutto diventa una perfetta incubatrice di batteri mortali. Ci vorranno decenni per ribattezzarle “Killer bottles”. Ma quante sono le vittime di elisir e biberon? Difficile dirlo, di certo molte decine di migliaia; si calcola che contando anche malattie e incidenti, la mortalità nei primi due anni di vita nell'Inghilterra Vittoriana abbia superato il 50%.
 
 

 









417 - ATLANTROPA




Sembra impossibile ma…
Questa è una storia vera. La storia di Herman Sörgel e del suo incredibile progetto, Atlantropa. L’idea è semplice: fondere insieme Europa ed Africa e trasformarle in un unico super continente. Fantascienza? Macché, di Atlantropa si è discusso seriamente per 30 anni ai massimi livelli come di un piano concreto e realizzabile.

Anno 1928, Sörgel presenta ufficialmente il suo progetto. Che prevede la chiusura dello stretto di Gibilterra, di Suez e dei Dardanelli con una serie di grandiose dighe. Il Mediterraneo diventa così un lago, e l’acqua evapora quasi due metri l’anno, processo da velocizzare con un sistema di pompe idrauliche. Il nuovo assetto consente di creare nel bacino una serie di dislivelli, tipo chiuse. Ad ovest il mare si abbassa di 100 metri, ad est di 200. Principali effetti: scompare l’Adriatico e i fondali emersi ridisegnano tutte le coste; la Sicilia, unita alla Calabria a nord e alla Tunisia a sud, diventa il fulcro del sistema di dislivelli, governato da enormi dighe. Qui sorgono immense centrali idroelettriche.

Per compensare l’innalzamento di “appena” un metro degli oceani, si sbarra con un’altra diga il fiume Congo, trasformandolo in un gigantesco lago al centro dell’Africa; modifica che invertendo il corso del fiume Ubangi, trasforma il Lago Ciad in un grande mare, collegato a ciò che resta del Mediterraneo grazie a un “secondo Nilo” che porta l’acqua in tutto il Sahara rendendolo fertile.

Benefici promessi? Eccone alcuni: le centrali idroelettriche soddisfano il fabbisogno di energia di Europa e Africa; le terre emerse nel Mediterraneo garantiscono nuove aree agricole; tutto il nordafrica diventa coltivabile; i fondali prosciugati restituiscono migliaia di navi affondate dando nuovo slancio all’archeologia; le conseguenze economiche dei miglioramenti rendono il nuovo super continente competitivo nei confronti di America a Asia.

Ma chi è Herman Sörgel? Nato a Ratisbona nel 1885, architetto legato alla Bauhaus e filosofo, nel 1927 elabora il suo titanico progetto. Negli anni Trenta, per quanto il piano preveda il reich tedesco e l’impero italiano come piloni portanti, Adolf Hitler lo boccia: l’indispensabile collaborazione fra Stati europei e africani non gli piace. E nel 1942 arriva a proibire la pubblicazione delle sue opere. L’architetto non molla, va avanti anche dopo la guerra, fino alla morte. Che arriva nel 1952 a Monaco di Baviera, investito da un'auto in circostanze più che sospette.

Oggi la climatologia, assai più avanzata, ci dice che le cose non sarebbero andate come Sörgel aveva previsto: chiudere il Mediterraneo ne aumenterebbe la salinità, trasformandolo in un mare senza vita come il Mar Morto; le terre emerse, ricoperte di sale, non sarebbero coltivabili; la Corrente del Golfo cambierebbe il suo flusso, con effetti disastrosi sul clima, specie nel nord Europa. Nel 1958 l’Istituto Atlantropa, per 30 anni al lavoro sul progetto, lo dichiarò ufficialmente superato, e due anni dopo chiuse i battenti. E’ finita così. Ma se il fuhrer non avesse avuto in mente altri piani?

416 - QUATTRO (E PIU') FUNERALI E UN MATRIMONIO




Sembra impossibile ma…
Questo è il racconto incredibile ma vero e ampiamente documentato del matrimonio più tragico della storia. Giovedì 30 maggio 1867 tutta Torino è in festa per le nozze fra Amedeo di Savoia, figlio cadetto del re Vittorio Emanuele II, e Maria Vittoria dal Pozzo Della Cisterna. Lui festeggia anche il ventiduesimo compleanno, lei di anni ne ha 21: una cerimonia da favola per uno dei pochi matrimoni d’amore fra i tanti di interesse celebrati nelle corti europee.

Di prima mattina a palazzo Pozzo della Cisterna la sposa aspetta che la dama di corte incaricata le porti il velo nuziale. La ragazza non arriva. La trovano in una sala vicina appesa a un lampadario. Si è passata una corda attorno al collo e si è impiccata. E una.

Si discute sul da farsi: niente rinvii, si va avanti. Lo sposo e il re che attendono a Palazzo reale (le nozze si celebrano con rito civile: Pio IX aveva scomunicato i Savoia) vengono avvisati dell’inevitabile ritardo. Un reparto di cavalleria in alta uniforme attende da ore sotto il sole per scortare la carrozza della sposa. Il comandante, un anziano colonnello, la vede arrivare, sguaina la spada e cade giù da cavallo: morto sul colpo per una sincope. E due.

Il maggiordomo dei Pozzo della Cisterna, responsabile del buon andamento della cerimonia, non regge alla tensione e pensa bene di spararsi (secondo altri fa harakiri con lo spadino di gala). E tre.

Finalmente i due giovani dicono il fatidico “sì”. E’ tardissimo, il pranzo di nozze a Stupinigi diventa una cena. Il corteo di carrozze parte in tutta fretta da palazzo reale. Per coordinarlo si offre il conte Francesco Verasis di Castiglione (marito separato della celebre contessa). Sale a cavallo e nella concitazione viene disarcionato. Finisce sotto le ruote della carrozza reale e muore. E quattro.

I documenti dell’epoca sono ampiamente censurati, ma memorie e biografie concordano: queste 4 morti sono accertate. Poi si parla di uno dei testimoni colpito da infarto e di un capostazione investito dal treno in partenza per la luna di miele. Ma su questi non vi posso dare certezze. 
 

 




415 - COLPI DI FULMINE




Sembra impossibile ma…
La storia che vi racconto (ringrazio Cettina Negretti che me l’ha segnalata) è vera. Febbraio 1918, Ardenne, Walter Summerford (nella foto), ufficiale inglese di cavalleria, colpito da un fulmine e disarcionato, rimane temporaneamente paralizzato. Trasferitosi in Canada, a Vancouver, sei anni dopo mentre sta pescando un fulmine colpisce l’albero sotto cui è seduto e gli paralizza il lato destro del corpo. Ci vogliono anni per riprendersi, ma nel 1930 mentre passeggia in un parco l’ex ufficiale viene centrato ancora e rimane completamente paralizzato. Nel 1931 muore nel suo letto per cause naturali. Ma 4 anni dopo un fulmine cade nel cimitero dove è sepolto e distrugge una sola tomba: la sua.

Un record? No, c’è chi ha fatto di meglio. Roy Sullivan è un ranger dello Shenandoah National Park in Virginia. Nel 1942 un temporale lo sorprende sulla torre di vedetta sul parco e un fulmine lo colpisce: e uno. Ci rimette l’unghia dell’alluce. Nel luglio 1969 è alla guida di un furgone, la folgore deviata da un albero entra dal finestrino aperto e gli brucia le sopracciglia: e due. L’anno dopo è in giardino, altro flash e spalla ustionata: e tre. Aprile 1972, il fulmine lo raggiunge fin dentro la stazione dei ranger e gli brucia i capelli: e quattro. Agosto 1973, arriva la tempesta e lui fugge col furgone. Quando pensa di essere al sicuro esce dal veicolo e zac, gambe ustionate e capelli (ricresciuti) in fiamme: e cinque. Giugno 1976, nuovo tentativo di fuga dalla tempesta, tutto inutile, la scarica elettrica lo raggiunge alla caviglia: e sei. Giugno 1977, Sullivan, forse rassegnato, non fugge più. Inizia a piovere e lui resta tranquillo a pescare. La folgore lo centra con precisione chirurgica: serie ustioni allo stomaco e al torace. E sono sette. Il tutto certificato dai medici e confermato dai responsabili del parco.

Mi viene in mente l’episodio narrato da Woody Allen in Radio Days: Kirby Kile, giocatore di baseball, anno dopo anno perde una gamba, un braccio, la vista e, infine, muore, ma non smette di giocare a baseball. Solo che quella era una fantasiosa iperbole, queste sono storie realmente accadute.
Guarda nei video due spettacolari compilation di fulmini caduti molto vicino alle persone.
 

 


414 - IL SOPRAVVISSUTO




Sembra impossibile ma…
Questa è una storia vera. Per alcuni è la storia dell’uomo più sfortunato del mondo, per altri del più fortunato. Tsutomu Yamaguchi, ingegnere giapponese, è l’unica persona su questo pianeta ad essere sopravvissuto a due bombe atomiche.

6 agosto 1945, Yamaguchi, trentenne progettista di petroliere dei cantieri navali Mitsubishi di Nagasaki, è in trasferta da qualche giorno ai cantieri navali di Hiroshima, ma sta per tornare a casa. Alle 8,15 del mattino scende dal tram di fronte alla stazione dei treni. All’improvviso una luce accecante, ed è la fine del mondo. A meno di tre chilometri di distanza, sul centro della città, è esplosa la prima bomba atomica della storia dell’umanità.

L’esplosione scaglia a terra Yamaguchi. All’inizio è cieco poi piano piano ricomincia a vedere. E quello che vede è l’inferno, ottantamila persone carbonizzate, il 90% degli edifici rasi al suolo. Lui sente un gran dolore, ha gravi ustioni sulla metà superiore sinistra del corpo, non ha più i capelli, e non sente niente: i timpani sono distrutti. Trova dei bendaggi, in qualche modo si fascia le ferite, poi va a nascondersi in un rifugio antiaereo. La mattina dopo riprende la via di casa. Nagasaki è a 420 chilometri. Tenta di raggiungerla con mezzi di fortuna, con la forza della disperazione.

9 agosto 1945. Yamaguchi ce l’ha fatta. E’ negli uffici del cantiere, racconta ai colleghi increduli ciò che gli è capitato. Sono le 11,02 del mattino. All’improvviso una luce accecante, ed è la fine del mondo. A meno di tre chilometri di distanza, sul centro di Nagasaki, è esplosa la seconda bomba atomica della storia dell’umanità.

L’ingegner Yamaguchi sopravvive anche a questa. Negli anni successivi decine di migliaia di sopravvissuti muoiono di cancro per le radiazioni. Lui è in buona salute, a parte la sordità. A 80 anni scriverà un’autobiografia. Morirà nel 2010, alla bella età di 94 anni.


lunedì 23 marzo 2020

413 - IL FIORE CADAVERE




Sembra impossibile ma...
L'aro titano è un fiore a dir poco insolito: raggiunge i 3 metri di altezza, pesa una settantina di chili e per vederlo sbocciare si devono attendere anche 20 o più anni; la crescita poi è rapidissima, e la fioritura non dura più di 4 giorni. Ah sì, dimenticavo: emana una puzza tanto insopportabile che lo chiamano il fiore cadavere. Questa storia arriva dal Gruppo fb di Sembra impossibile, segnalata da Ektor Brahman, collaboratore di talento, che ringrazio.

Il nome scientifico della pianta è Amorphophallus titanum, come dire, in greco antico, “fallo gigante deforme”, appartiene alla famiglia delle Araceae (come le comuni calle) e in natura cresce solo nelle foreste tropicali dell'isola di Sumatra in Indonesia; in coltivazione si trova in numerosi orti botanici nel mondo (in Italia al Giardino dei semplici di Firenze). A scoprirlo e descriverlo per la prima volta è stato nel 1878 l’esploratore, zoologo e botanico fiorentino Odoardo Beccari, che portò i tuberi ed i semi a Firenze; i tuberi morirono, ma i semi, germogliati, vennero distribuiti in diversi giardini botanici del mondo. La prima fioritura avvenne nei Kew Gardens di Londra nel 1889. Da allora quella pianta è fiorita solo 5 volte, l'ultima nel 2002, quando il gigantesco fiore è stato ammirato da 50 mila visitatori in una sola settimana. In tutto il mondo ci sono non più di 4 o 5 eventi di fioritura in un anno; a Firenze l'ultimo è stato nel 2007.

Quando l'aro titano fiorisce emana un odore simile a quello di una carcassa in decomposizione, tanto che i giardinieri lo curano protetti da maschere antigas. La disgustosa puzza di materia organica in putrefazione attira i coleotteri che mangiano carogne e le mosche della carne che la impollinano; il colore rosso dell'interno, la consistenza dell'inflorescenza, e il fatto che la punta assume nei giorni di fioritura la temperatura del corpo umano, contribuiscono ad attirare gli insetti. Dopo la scomparsa del fiore la pianta produce una sola foglia che cresce su un gambo verde; la struttura in questa fase può raggiungere i 6 metri di altezza e 5 di larghezza. Al Royal Botanic Garden di Edimburgo una pianta delle dimensioni iniziali di un'arancia dopo 7 anni ha raggiunto il peso record di 153,9 chili.

domenica 22 marzo 2020

412 - IL MOMENTO MAGICO



Sembra impossibile ma…
Quando l’arte e l’amore si intrecciano sui sentieri tortuosi della vita possono nascere storie meravigliose. Come è successo a Marina Abramovic e Frank Uwe Laysiepen detto Ulay. E non importa se poi c’è il lieto fine o no. Ringrazio Valentina per la segnalazione.

Marina Abramović, “the Grand Mother of performance art”, artista fra le più famose al mondo, nasce a Belgrado nel 1946 e fin dagli anni sessanta si fa conoscere per le sue performance estreme, alla ricerca dei confini di emozioni e sentimenti umani, dove mette spesso a rischio la sua incolumità. Nel 1976 lascia la Jugoslavia e va ad Amsterdam, dove conosce Ulay, artista tedesco. La prima volta che lo vede, lui ha la barba e i capelli lunghi, ma solo da un lato: l’altro è rasato a zero. Se ne invaghisce subito, e nasce un grande amore. E un sodalizio umano ed artistico che andrà avanti per 12 anni. Si fanno chiamare “The Other”, ed esplorano in coppia i limiti del corpo e della mente. Di performance in performance, girano il mondo dormendo su un furgone. Poi, è il 1988, il rapporto scricchiola, anche perché lei sacrifica all’arte la maternità, e abortisce tre volte, mentre lui i figli li vorrebbe.

Decidono di lasciarsi, ma con un’ultima performance: “The Lovers”. Dopo 8 mesi di preparativi, seguiti dalla BBC che gira un film, partono a piedi lui dal deserto di Gobi, lei dal Mar Giallo, ai due estremi della Grande Muraglia, e trascorsi altri 3 mesi si incontrano a metà strada dopo una camminata di 2500 chilometri. Nel frattempo Ulay si è innamorato della traduttrice, e l’ha messa incinta. «Che cosa devo fare adesso?» chiede lui a Marina al momento dell’incontro. «Non lo so – risponde lei - ma io me ne vado». Si lasciano così. Negli anni successivi il nome Abramovic diventa famoso, nel 1997 arriverà il Leone d'Oro alla Biennale di Venezia, poi i soldi, il successo planetario.

I due non si vedranno più. Per 22 anni. Nel maggio del 2010 Marina è al Moma di New York con la sua “The Artist is Present“: seduta a un tavolo attende ad occhi chiusi, un visitatore le si siede davanti, lei apre gli occhi e per due minuti i due si osservano in silenzio. Sette ore al giorno, per due settimane. A un certo punto, in maniera del tutto inattesa, lei apre gli occhi e si trova di fronte Ulay. 22 anni dopo. Qui le parole non bastano: non perdetevi, mi raccomando, alla fine della storia il filmato che fissa il momento incantato dell’incontro.

Amanti del lieto fine? Fermatevi qui. Altrimenti andate avanti fino in fondo, ma poi non dite che non vi avevo avvisato. Cosa accade dopo? I giornali raccontano di nuove liti fra i due artisti, concluse in tribunale ad Amsterdam. Motivo? Soldi. Col giudice che condanna Marina a versare ad Ulay 250mila euro per la violazione di accordi firmati in passato. Nel frattempo a lui viene diagnosticato un cancro. Dopo una serie di trattamenti chemioterapici, parte con una troupe per visitare i luoghi più importanti della sua vita e incontrare compagni e amici per un ultimo saluto. Da fine 2011 la telecamera lo segue per un anno intero, la malattia si trasforma nel suo più grande progetto artistico, che diventa un documentario, Project Cancer, del 2013. Marina nel frattempo prosegue il suo percorso e diventa un'icona assoluta dell'arte contemporanea. Ulay muore a Lubiana il 2 marzo 2020 all'età di 76 anni. Sono passati 10 anni da quel magico incontro di anime, che nel frattempo è entrato nella storia. 

 

411 - LA BAMBOLA




Sembra impossibile ma…
Questa è una storia vera. Una storia di amore oltre la morte che sembra uscita dalla penna di Edgar Allan Poe. Facciamo un salto indietro nel tempo di 200 anni. A Imola, si celebrano le nozze fra Giorgio Barbato Tozzoni e Orsola Bandini. Lui ha 38 anni, è un ex ufficiale dell’esercito napoleonico: di famiglia blasonata, ha appeso la spada al chiodo e ha deciso di prendere moglie. La ricerca è stata breve: con Orsola, aristocratica faentina non ancora ventenne, è amore a prima vista.

Il destino regala alla coppia, che va a vivere nell’ala est di Palazzo Tozzoni, qualche mese di felicità, fra feste, viaggi e un elevato tenore di vita, oggi si direbbe da jet set. Poi inizia il suo gioco cattivo. Orsola resta incinta, con grande gioia di tutti. Ma nel febbraio del 1820, pochi mesi dopo le nozze, il marito la convince a partecipare alla gran festa di fine Carnevale: confusione, rumore, folla ubriaca, danze sfrenate. La donna ha un malore. Perde il bambino. I rapporti fra i due cambiano. Lui è disperato, e ancora più innamorato. Lei cade in depressione, e non riesce a perdonarlo.

Unica soluzione: fare un altro figlio. Lentamente Giorgio riesce a convincerla. Nasce Alessandro, bello e sano. E torna la serenità. Che dura poco. Due anni dopo marito e moglie sono a Livorno per i bagni, il bambino è rimasto a Imola con la nonna materna e una balia. Un messaggio li avvisa che il bambino sta male: rientrano precipitosamente, ma nel giro di pochi giorni anche Sandrino muore. In paese si sussurra che sia stato avvelenato (dalla balia?), che sulla famiglia pesi il malocchio. A commemorare Alessandro resta solo una statua di marmo. Orsola è devastata. Si chiude in un livoroso silenzio. Non si riprenderà più. Il marito fa di tutto per risollevarla, si dedica solo a lei, ma stavolta non basta. Consumata dal suo male oscuro, la donna muore nel 1837.

E stavolta è lui che non se ne fa una ragione. Il suo rimedio contro il dolore è terribile: commissiona ai migliori artisti la costruzione di una bambola a grandezza naturale. Ha le fattezze della moglie, veste i suoi abiti, il volto di gesso è sempre ben truccato, i capelli sono quelli veri, tagliati prima della sepoltura (la foto è di Sailko condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikimedia). Giorgio vive per anni con la bambola, la porta a tavola con sé, dorme vicino a lei, ci dialoga e le confida i suoi pensieri. Un’abitudine che manterrà per tutta la vita, anche quando si risposerà e avrà un figlio.

Dopo la morte del conte, la bambola di Orsola resta chiusa in un armadio per 150 anni. Ritrovata e accuratamente restaurata, oggi è esposta a Palazzo Tozzoni, nel centro storico di Imola. E nella sala dell’archivio di famiglia, a pochi metri dalla statua del piccolo Alessandro, continua a raccontare ai visitatori la sua storia d’amore triste e sfortunata.






410 - L'UOMO CHE HA VENDUTO LA TORRE EIFFEL




Sembra impossibile ma…
Questa è una storia vera. Il protagonista è Victor Lustig, anche se questo non è che uno dei tanti pseudonimi con i quali si è fatto conoscere. La sua vera identità è un mistero. Nato in Boemia nel 1890, racconta di essere figlio di un borgomastro, ma da alcuni scritti pare che i genitori fossero contadini poverissimi e che fin da bambino sia stato costretto ad arrangiarsi per sopravvivere. E Lustig si arrangia benino: per 20 anni sarà un protagonista del jet-set internazionale, elegante e ricercato. Soprattutto dalla polizia, che lo conosce come il più grande fra gli artisti della truffa.

Pronto di spirito, intelligente, apparentemente colto, parla in maniera fluente inglese, francese, tedesco, italiano e ceco. A 19 anni è a Parigi, si iscrive all’università ma si afferma come eccezionale giocatore di carte, di cui conosce ogni trucco, e di biliardo. Una rissa per motivi di donne gli procura una vistosa cicatrice allo zigomo. Negli anni prima della grande guerra gira tutta l’Europa, e mette a segno le prime truffe. Si specializza poi nel raggirare i passeggeri dei grandi transatlantici che fanno la spola fra Europa e Africa, presentandosi con accento esotico come conte Victor Lustig. Nel 1920 sbarca in America e mette a segno un’ingegnosa truffa ai danni di una banca in Missouri. Arrestato, evade e torna in Europa. Nel 1925 è a Parigi.

Corre voce che il governo voglia far demolire la Torre Eiffel, che è in cattive condizioni. Lustig prende alloggio al prestigioso Hotel de Crillon, si spaccia per ministro e convoca in gran segreto i 5 più grossi commercianti di rottami di ferro del Paese. Fra questi sceglie la sua vittima, e gli assegna l’appalto, chiedendogli anche una mazzetta. Incassa l’equivalente di un milione di euro odierni, e scappa a Vienna. Il povero acquirente scopre la truffa solo quando si presenta al ministero per reclamare la “sua” Torre. Poi, per non restare implicato in un affare già poco pulito, neanche denuncia la truffa. Che Lustig ripete pochi mesi dopo. Anche la nuova vendita si realizza, ma all’ultimo momento qualcosa va storto.

Per sfuggire all’arresto il truffatore torna in America dove con diversi pseudonimi mette a segno vari colpi. Fra le vittime del boemo, anche il famigerato Al Capone. La truffa più clamorosa è quello della Rumanian Box, un macchinario che consentirebbe di duplicare banconote da mille dollari producendo denaro autentico. L’Fbi però gli dà una caccia sempre più serrata, e nel 1935 dopo varie rocambolesche fughe lo cattura a New York. Dopo una nuova evasione, ripreso e condannato a 20 anni di carcere, viene spedito ad Alcatraz. Morirà per una polmonite nel 1947. Sul suo certificato di morte, non si sa se per errore o per una forma di ironico rispetto, sotto la voce "professione" c’è scritto "venditore".

760 - DIETRO IL PADRINO

    Un'offerta che non si può rifiutare. A trovarsela davanti è stato Francis Ford Coppola al momento di iniziare a girare I...