Sembra
impossibile ma…
A
Touba, in Senegal un sogno è diventato realtà: un moderno ospedale
realizzato grazie ai soldi che gli “italiani” – come lì
chiamano i ragazzi senegalesi emigrati in Italia – ritagliano dai
loro magri guadagni. Un viaggio nel Paese dei baobab di qualche anno
fa è l’occasione per raccontarlo. E per scoprire i segreti dei
griot, le tradizioni della città santa e tante piccole sfide
quotidiane
Un
pezzo di Toscana nell’Africa nera. A Kebemer, nel cuore del
Senegal, 150 chilometri a nord di Dakar, si parla più l’italiano
che il francese. «Porca miseria», «maremma cane»: neri come il
carbone, pura razza Wolof, ma le esclamazioni sono quelle della
lingua di Dante, con tanto di «c» che scivola via. I leoni del
Senegal hanno appena perso ai rigori un’importante partita, e la
delusione di fronte alla tv si scioglie in bicchierini di un the
forte come un liquore.
Il
sole tramonta in mezzo ai baobab che spezzano la linea piatta della
savana, e una piccola folla di parenti e amici saluta e ringrazia chi
li ha ospitati per l’evento sportivo. Lui, il padrone di casa, è
Ablaie, 22 anni per quasi due metri di altezza e un fisico da atleta
su una faccia da bambino. E’ sua la bella casa in muratura con una
grande terrazza per le ore più fresche, e sua la televisione, una
delle poche del paese, e i mobili all’europea di una sala vasta e
un po’ kitsch, con lo stereo e le grandi foto dei marabout
islamici, mentre fuori è parcheggiata una vecchia Mercedes comprata
usata ma tirata a lucido.
Ablaie
lavora in Italia, dopo due anni a Pisa è arrivato a Pescara, uno dei
mille e mille venditori che misurano a piedi le strade e le spiagge
delle località turistiche. Da alcuni giorni sono ospite a casa sua.
Mi ha messo in contatto con lui Mass, capo della comunità senegalese
di Pisa e cugino di Ablaie. Mass più di 20 anni prima era stato uno
dei primi a pronunciare la parola «vuccumprà», poi è diventato
sindacalista. E’ in gamba: negli anni successivi sarà richiamato
in patria dal suo governo, che gli affiderà un ministero.
A
Kebemer ho perso il conto dei fratelli e delle sorelle, dei cugini e
dei parenti vari di Mass: per le strade ti fermano tutti e ti
chiedono in italiano notizie dell’amico lontano. Il fatto è che
centinaia di abitanti di questa cittadina sono sbarcati in Italia
grazie al suo esempio e anche al suo appoggio concreto. Da queste
parti Mass è un vero personaggio, il punto di contatto fra il
Senegal e quella lontana terra fredda e piovosa dove per tutti c’è
un’occasione, fra la dura realtà africana e il sogno italiano.
Ablaie
ha tre fratelli, due più grandi lavorano con lui a Pescara, uno di
20 anni sogna l’Italia e mette i soldi da parte: servono almeno
diecimila euro. «Sono tanti? Forse — ammette — ma sono l’unica
possibilità. Qui lavoro non ce n’è. Con questi soldi ci procurano
i permessi e ci inseriscono nel giro del lavoro. Poi si tratta solo
di resistere, e lavorare duro. Qualcuno non ce la fa, e torna a casa.
I più restano in Italia anni. Tutti sognano di tornare. E c’è
anche chi fa fortuna»
A
San Louis ad esempio, al confine con la Mauritania, un cinquantenne
che da 30 anni lavora a Genova sta costruendo un albergo di lusso. Mi
mostra il cantiere con orgoglio, si profonde in ringraziamenti per
l’Italia «che ci ha accolti, ospitati, ci ha dato una
possibilità». Aprire un albergo, o un ristorante a Kebemer è anche
il sogno di Ablaie, che in Italia ci viene sei mesi l’anno, ma
vorrebbe costruire il suo futuro qui, vicino alla moglie e alle due
figlie e a tutti gli altri parenti, la madre, una zia, due cugine.
Tutti legati a un solo stipendio, il suo. Ablaie in Italia guadagna
poco meno di mille euro. Cinque-seicento li manda a casa, più o meno
il triplo di uno stipendio medio. Col resto si mantiene a Pescara.
A
Kebemer la sua oggi è una famiglia ricca. Casa, auto, tv sono i
segni di uno status sociale elevato. Alla periferia della cittadina
in molti vivono ancora nelle capanne di paglia. E le case in muro
sono spesso poco più che baracche. Da mangiare c’è per tutti, un
po’ ovunque. Il problema è che si sta sviluppando un doppio
mercato: cibo, alloggi, generi di prima necessità costano
pochissimo. Ma chi guadagna di più, come gli emigranti, entra
automaticamente nel labirinto del consumismo. Una bella casa, l’auto,
la tv, lo stereo costano quanto da noi, forse di più. Cinquecento
euro sono anche troppi per sopravvivere, ma terribilmente pochi per
vivere all’europea. Così i soldi non bastano mai. E per molti il
sogno di tornare rimane tale.
Per
il resto la vita si svolge secondo ritmi antichi: il mercato, la
moschea, le festività religiose (in questi giorni la più
importante, il Tabaski, dove ogni famiglia “sacrifica” e porta in
tavola una pecora). E la sera tutti insieme a mangiare nell’atrio
della grande casa in muro. La mia cena è stata preparata nel salone,
la tavola è apparecchiata solo per me. Un trattamento di riguardo
per l’ospite. Chiedo di mangiare con tutti gli altri, se non è un
problema. Non lo è. Si mangia nell’ingresso, seduti a terra in
cerchio intorno ad una grande conca di riso e pesce, ci si serve con
le mani. La porta è aperta, vanno e vengono di continuo parenti,
amici, i “talibé”, piccoli sciuscià che chiedono e ricevono la
carità di un piatto caldo. Si sta bene qui. Tutti parlano, qualcuno
canta, Ablaie gioca con i bambini. L’Italia è fredda e lontana, e
la notte africana è così dolce
«A
Kebemer ce l’avete un griot?». Ablaie ci pensa un attimo, poi
annuisce: «C’è una griot molto vecchia, e anche suo figlio e suo
nipote sono griot. Incontrarla? Non sarà facile. I griot non amano
le interviste». Ci provo con un trucchetto dialettico: «Ma non è
compito del griot dare informazioni? E io quelle chiedo…». Lo
stratagemma funziona: l’appuntamento a casa dei griot è fissato
per le 22.
Cos’è
un griot, figura di grande rilievo nel sistema sociale senegalese,
sarà l’oggetto di oltre un’ora di intervista. Ma occorrono molte
parole, tante quanti sono i suoi ruoli, per spiegarlo. Prima
definizione, la più poetica: griot è chi prende le cose brutte e
riesce a farle diventare belle. Griot è un cantastorie, uno che
racconta, dà notizie, informazioni, ma anche un sapiente, con in
mano le chiavi della tradizione orale in un mondo che non ha
tradizione scritta; quindi è la storia, sa tutto del villaggio e
delle sue famiglie, una sorta di stato civile vivente capace di
risalire indietro nel tempo di generazioni. E ancora è un
ottimizzatore, uno che trova le soluzioni più giuste, e un
mediatore, che presenta sempre i lati migliori delle cose. E’ lui
ad esempio che «illustra» le doti e garantisce sulle rispettive
famiglie prima di un matrimonio, cantandone le gesta, la bellezza, la
salute. Ed è lui il riferimento morale dell’intera società Wolof,
la principale etnia del Senegal. Il più famoso di tutti i griot ha
un nome conosciuto nel mondo: Youssou N’Dour, popstar
internazionale amatissimo in tutto il Paese. L’ho incrociato una
settimana prima nella babele della pista da ballo della sua discoteca
techno, alla periferia di Dakar. Ci ho scambiato due parole, ma
ancora non sapevo che era un griot. Speravo in un’intervista. Lo
riconobbi, in piedi al lato opposto della grande pista metallica,
sotto una grande finestra da dove l’allora moglie Mami infiammava
centinaia di ragazzi. La traversata, sballottato da un mare di corpi
scatenati, fu un’odissea. Una stretta di mano nel frastuono, un
sorriso, poi lo persi in un inferno di luci e di suoni.
Kebemer
è un altro mondo. Il silenzio della notte è rotto solo
dall’abbaiare di qualche cane. In un cortile poco illuminato la
donna corpulenta, dallo sguardo severo, di età molto avanzata ma
indefinibile è seduta su un’ampia poltrona. E’ lei la griot. Mi
riceve insieme a figli e nipoti. Uno di questi, sui trent’anni,
lavora a Ferrara e parla un italiano corretto, quasi colto. Lui farà
da interprete. La donna parla lentamente, scandisce le parole come
chi sa affascinare con le sue storie. Racconta gesta epiche avvenute
all’alba dei tempi, la storia del primo griot. Parabole ed aneddoti
che dipingono la figura del griot, da sempre con l’onere di essere
il più intelligente, il più preparato, il più giusto. In battaglia
è quello che porta le insegne del villaggio, se muore lui la
battaglia è persa.
E
il rapporto con le migliaia di giovani che vanno a lavorare
all’estero? «Sono il nostro tesoro più grande — risponde lenta
— e prima che partano li incontriamo sempre, insieme alle famiglie.
A queste ultime chiediamo di stare loro vicino, di essere presenti,
di telefonare spesso e non farli sentire soli. A chi parte
raccomandiamo la solidarietà, e l’onestà». «Tu vai in un Paese
lontano — diciamo loro — con abitudini e tradizioni diverse.
Rispettale e non fare niente di cui ti vergogneresti. Tu sei
l’ambasciatore della cultura Wolof all’estero, comportati come
tale, noi ti seguiremo e ti saremo vicini, fa’ che possiamo essere
orgogliosi di te…». In Italia il numero dei senegalesi che vanno
contro la legge è più basso rispetto ad altre etnie, lo dicono le
cifre. Che dietro il luogo comune del «bravo senegalese» ci sia il
lavoro antico del griot?
Touba
è la città sacra di gran parte dell’Islam senegalese. Qui, 250
chilometri a nordest della capitale, è vissuto all’inizio del
Novecento Amadou Bamba, grande Marabout, una sorta di Padre Pio
locale che fra opere di bene e miracoli oggi è ricordato e venerato
come un santo. E qui nel 1963 è stata completata una splendida,
grandiosa moschea a lui dedicata: tonnellate di candido marmo di
Carrara e altri pregiatissimi marmi colorati provenienti da tutto il
mondo per un’opera colossale, un’immensa cattedrale nella savana
il cui minareto alto 98 metri è visibile da chilometri di distanza.
Il
venerdì e la domenica la città è invasa dai pellegrini: vestiti i
bianchi abiti della festa intere famiglie fanno decine, a volte
centinaia di chilometri nella maggior parte dei casi su un carretto
tirato da un asinello per venire a pregare vicino alla tomba di
Amadou Bamba. E nel giorno che ricorda il ritorno dall’esilio del
loro marabout, sono più di mezzo milione i visitatori che si
riversano nelle strade di Touba. Ma la confraternita che si è
raccolta intorno a questo marabout, oggi la più forte e la più
numerosa del Senegal, ha un altro motivo per andare fiera di Touba.
Anche
Ablaie e Mass ne fanno parte, e Ablaie mi porta con orgoglio alla
periferia della città. Qui mi mostra un edificio nuovissimo, con
alcune ali ancora in costruzione. «E’ un ospedale — spiega —
lo stiamo costruendo noi. Alcuni reparti sono già in funzione».
Soldi italiani, perché da tempo ogni immigrato in Italia che
appartiene alla confraternita di Bamba si tassa di 300 euro l’anno.
Mass, tanto per cambiare, è uno dei principali artefici
dell’iniziativa, e lui riscuote le donazioni annuali da tutta
Italia e le gira al cantiere dell’opera, che cresce di anno in
anno. Sono stati investiti molti soldi. E l’«ospedale degli
italiani» è lì, davanti ai miei occhi. Un sogno che è diventato
realtà.
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