Sembra
impossibile ma...
Questa
è una storia vera. “Giovedì 29 marzo 1912. Dal 21 abbiamo avuto
tempesta. Avevamo combustibile per fare due tazze di tè a testa e
cibo per due giorni, il 20. Ogni giorno eravamo pronti a partire per
il deposito a sole undici miglia da qui, ma fuori della tenda infuria
la tormenta. Non penso che si possa più sperare. Lotteremo fino
all’ultimo, ma stiamo diventando sempre più deboli e,
naturalmente, la fine non può essere lontana”.
Sono
le parole dell’ultima lettera di Robert Falcon Scott, scritte nel
suo rifugio in Antartide poche ore, o forse pochi minuti, prima di
morire, 105 anni fa esatti. Il messaggio continua così: “Peccato,
ma non credo di poter ancora scrivere. Abbiamo corso dei rischi.
Sapevamo di correrli. Le cose si sono rivoltate contro di noi. Non
abbiamo motivo di lamentarci. Sefossimo sopravvissuti, avrei avuto
una storia da narrare sull’ardimento, la resistenza, e il coraggio
dei miei compagni che avrebbe commosso il cuore di ogni inglese.
Queste rozze note e i nostri corpi morti dovranno raccontare questa
storia”. Scott era un sognatore, uno che sfidava l’impossibile.
Sognava di compiere l’impresa, di raggiungere il Polo Sud per
questioni di prestigio nazionale. Ma anche per crescere, per
migliorare la qualità della propria vita e di quella della sua
famiglia. Nel 1908 si era sposato con la scultrice Kathleen Bruce,
l’anno dopo era nato suo figlio Peter.
Scott,
raccontano le cronache, è ambizioso e determinato. Il primo giugno
del 1910 a bordo del Terra Nova salpa da Londra diretto in Antartide,
dall’altra parte del mondo. La sua sarà un’avventura senza lieto
fine. La malasorte gli assesterà una serie di colpi fatali e né
lui né i suoi compagni faranno ritorno. Eppure in qualche modo la
sfida all’impossibile sarà vinta, i sogni realizzati. Il 17
gennaio 1912 Scott e compagni, dopo una vera odissea fra i ghiacci,
raggiungono stremati il Polo Sud. L’euforia dura poco: la vista
della bandiera norvegese piantata nel ghiaccio è una terribile
mazzata. Roald Amundsen, l’esperto rivale nella corsa al Polo, è
arrivato lì poco più di un mese prima. I cinque componenti della
spedizione ripiegano la Union Jack e iniziano il viaggio di ritorno
in condizioni ancora più disperate, accompagnati da devastanti
tempeste di neve. Scott e i suoi compagni moriranno il 29 marzo a
sole 11 miglia dalla base che cercavano di raggiungere, un grande
deposito di viveri allestito all’inizio della spedizione. I loro
cadaveri saranno ritrovati intatti dentro la tenda sei mesi dopo,
insieme a una macchina fotografica e ai diari che raccontano le loro
sofferenze.
L'impresa è destinata a catturare l'immaginazione dell'intera Gran Bretagna: l'esploratore prima sconfitto sul filo di lana, poi di nuovo vinto a pochi passi dalla salvezza, diventa un mito per generazioni di giovani inglesi e non solo. La sua storia sarà raccontata in decine di libri e di film (più di quella di Amundsen), proprio come sarebbe piaciuto a lui. Le lettere scritte dall’esploratore furono ricevute dalla moglie soltanto l'anno dopo. Nell’ultima scriveva: "Alla mia vedova. Carissimo tesoro abbiamo grossi problemi e dubito che ce la faremo. Penso che la nostra ultima possibilità sia sfumata. Abbiamo deciso di non ucciderci, ma di lottare fino alla fine per arrivare alla base, ma grazie a questa lotta avremo una fine priva di dolore, perciò non ti preoccupare".
Poi
le chiedeva di rifarsi una vita e risposarsi (cosa che lei fece 9
anni dopo) e di far sì che il piccolo Peter, che aveva tre anni,”si
interessi alla storia naturale, che è meglio dei giochi". Peter
Scott si laureerà al Trinity College di Cambridge, diventerà un
celebre ornitologo, fra i fondatori del WWF, ed erediterà anche lo
spirito avventuroso del padre, diventando campione britannico di volo
planato e vincendo la medaglia di bronzo per la vela alle Olimpiadi.
Nessun commento:
Posta un commento