Sembra
impossibile ma...
Questa
è una storia vera: ringrazio Eros Teodori, amico di “Sembra
impossibile ma...”, per avermela segnalata. E vi porto in Giappone
per fare la conoscenza di Harukichi Shimoi, il samurai napoletano.
Shimoi
nasce a Fukuoka nel 1883. Studia letteratura a Tokyo, poi, innamorato
della lingua italiana, nel 1911 si trasferisce in Italia per studiare
Dante. Si stabilisce a Napoli e diventa professore della neonata
cattedra di Giapponese all'Istituto universitario di Scienze
orientali. Nel 1917, volontario nell'esercito Italiano, diventa un
Ardito e insegna ai commilitoni l'arte del karate. In guerra conosce
Gabriele D’Annunzio con cui avvia un’amicizia che durerà per
tutta la vita. Finita la guerra, partecipa all'occupazione di Fiume e
sfruttando il passaporto diplomatico tiene i contatti fra il vate e
Benito Mussolini, allora capo dei fasci italiani di combattimento.
Per il futuro duce ha subito una grande ammirazione, pare ricambiata.
Con D'Annunzio organizza poi il volo propagandistico Roma-Tokyo,
realizzato da Arturo Ferrarin. Nel 1920 torna a Napoli e due anni
dopo partecipa alla marcia su Roma: Shimoi è un sostenitore convinto
del fascismo, che legge come un movimento in grado di interpretare i
principi tipici della cultura nipponica, e in particolare del
bushidō. Nel 1934 ospita Jigorō Kanō, fondatore del judo, durante
la sua permanenza in Italia, e dà una spinta fondamentale allo
sviluppo di questa disciplina in occidente. In seguito tiene i
contatti fra Mussolini e i vertici del governo giapponese, ed è la
figura chiave per la nascita dell’Asse Roma-Tokyo-Berlino. In
questa fase arriva a convincere Mussolini a diventare il testimonial
di una bibita gassata in Giappone. Decide però di tornare in
Giappone quando l’Italia stringe i suoi rapporti con la Germania
nazista. Dopo la II Guerra Mondiale torna a tradurre in giapponese la
letteratura italiana; muore a Tokyo nel 1954.
Questa
in sintesi la vita di Shimoi, ma ciò che rileva è il personaggio
come ce lo racconta Indro Montanelli, che con lui avviò un'amicizia,
dopo esser stato suo ospite durante un reportage in Giappone negli
anni cinquanta. “Era veramente brutto – scrive di lui Montanelli
- piccolo e tozzo, con due sopracciglia foltissime. Prima di
parlarmi (in perfetto napoletano) del Giappone, volle che gli
raccontassi io dell'Italia e della fine di D'Annunzio e Mussolini”.
Già, perché Shimoi parlava solo in napoletano, accompagnando le
parole con ampi gesti: quando il vetturino di una carrozza lo derise
in dialetto per tutto il viaggio, per poi chiedergli una cifra
altissima, lui lo prese per il collo e gli lanciò una serie di
insulti coloritissimi, tanto che il cocchiere esclamò sorpreso:
“Chisto è cchiù nnapulitano ‘e me!“. Innamorato della città
frequentò sia i salotti-bene, in compagnia di Benedetto Croce e
dell’élite culturale, che i quartieri più poveri e popolari. E
quando anche all'estero o in trincea incontrava un napoletano, lo
chiamava “fratm” (fratello) in dialetto.
Montanelli
ci racconta anche i suoi giudizi sui rapporti fra D’Annunzio e
Mussolini: il duce per D'Annunzio era “nu cafone”, e per
Mussolini il vate era “‘nu pagliaccio”. E conclude col giudizio
che il giapponese dà dell'ultimo Mussolini, che dopo l’alleanza
con Hitler, a suo dire, “si era nu poco scimunito“.
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