“Chi è quel bambino così sporco?”. “E' un immigrato, è arrivato da poco, sembra anche più sporco perché è scuro di pelle. Comunque non capisce niente, è poco intelligente”.
Boston, anno 1895 Lo dicono tutti, a scuola. Lo dice la maestra, con quel suo sorriso compassato che nasconde fastidio. Lo dicono i compagni, ogni volta che lo vedono arrivare con i pantaloni rattoppati e la camicia troppo grande.
Lui ha 12 anni e ha appena attraversato un oceano. Arriva da un villaggio di montagna, in Libano, dove la neve cade fitta d’inverno e l’estate odora di resina. Suo padre è finito in prigione per debiti, e sua madre ha venduto tutto per comprare cinque biglietti di terza classe per l’America, per lei e per i suoi quattro figli. Sognava la “terra delle opportunità”. Invece ha trovato muffa, sudore, freddo. E quella lingua: un vetro opaco fra loro e il mondo.
Lo hanno messo in una classe speciale per “immigrati”, un modo come un altro per dire: lasciamoli da parte. E lui si rinchiude in se stesso, Disegna. Appena può, prende una matita e traccia occhi, volti, ali. Cerca i colori anche in mezzo alla polvere.
A 15 anni torna in Libano, studia al Collège de la Sagesse a Beirut, dove affina il suo arabo, impara il francese, fonda una rivista studentesca e viene eletto “poeta del collegio”. Ma il destino due anni dopo lo riporta in America.
Nel 1902 è di nuovo a Boston. Nel giro di pochi mesi muoiono la sorella Sultana, il fratellastro Boutros, poi sua madre, tutti colpiti da tubercolosi. Solo sua sorella Marianna resta accanto a lui, e lo mantiene con il proprio lavoro. Ma la fiammella della speranza non si spegne. "Il dolore è il solco che scava l’anima per far posto alla gioia” scriverà.
E finalmente arrivano anche i giorni belli, e gli incontri giusti: un’insegnante che vede nei suoi schizzi qualcosa di sacro e in lui “un principino mediorientale, un’anima nobile intrappolata in uno stato d’indigenza”; un editore che nota le sue parole. Una donna che ama la sua anima prima della sua grammatica.
E la sua voce si fa chiara, potente eppure dolce come un sussurro. Scrive in arabo, poi in inglese. Scrive di libertà, d’amore, di solitudine, di figli che non sono nostri ma “figli e figlie della sete della vita”. Le sue parole attraversano secoli, guerre, matrimoni, funerali.
E nel 1923 pubblica Il Profeta, destinato a diventare un vangelo laico, letto e recitato da generazioni. Sarà tradotto in più di cento lingue, venderà più di 100 milioni di copie, oggi nelle classifiche del New Yorker è la terza opera poetica più letta della storia, dopo Shakespeare e Lao Tzu.
Già, il ragazzino sporco, quello con la pelle troppo scura per l’America bianca, anglosassone e protestante, quello con la lingua troppo arida per la scuola, quello poco intelligente, si chiama Kahlil Gibran.
Poi la vita fa il suo corso, fama e benessere non riescono a vincere la partita contro la tubercolosi e lo spettro dell'alcolismo. Gibran muore a New York a 48 anni nel 1931. La salma verrà riportata nella sua Bsharri, che non ha mai smesso di amare, e tumulata nel monastero di Mar Sarkis. Sul sepolcro si legge “Io sono vivo come voi, e sto qui accanto a voi. Chiudete gli occhi e guardatevi intorno: mi vedrete davanti a voi.”
Nessun commento:
Posta un commento