C’era un italiano tra i Padri Fondatori d’America. No, non è una leggenda metropolitana: si chiamava William Paca. Eppure, il suo nome oggi scivola via dai libri di scuola e dalle celebrazioni ufficiali sulla nascita degli Stati Uniti.
Invece, prima di Ellis Island, prima dei bastimenti carichi di speranza e di anime in cerca di riscatto, l’emigrazione italiana aveva già lasciato un segno profondo sulle rive selvagge del Potomac.
Tutto inizia nel 1657, quando Roberto Pace — nato a Carunchio, in provincia di Chieti — salpa per le colonie britanniche. Non è un povero in cerca di fortuna, ma un uomo colto, forse un mercante, forse un dissidente religioso. Cambia nome in Paca e si stabilìsce nel Maryland.
Suo figlio Aquila, nato nelle colonie, diventa una figura leggendaria nel Maryland: primo sceriffo di contea, noto per la fermezza e il senso di giustizia in un’epoca in cui la legge è più spesso un’arma che una tutela.
Ma è il nipote William, nato nel 1740, a entrare nella storia. Studi classici e giurisprudenza a Philadelphia e Londra, diventa uno dei protagonisti della rivoluzione americana. Avvocato, poi delegato al Congresso Continentale, è tra i 56 firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776. Un Padre fondatore. L’unico con radici italiane.
Non basta: Paca è anche tra i primi a denunciare l’ipocrisia della schiavitù in un paese che proclama l’uguaglianza degli uomini. Un tema su cui tornerà solo un secolo dopo Abramo Lincoln.
In quegli stessi giorni Thomas Jefferson viene colpito dalla frase che il filosofo toscano Filippo Mazzei, suo vicino di casa ed amico, ha scritto in italiano in un suo testo del 1774: “Tutti gli uomini per natura sono liberi e indipendenti”. La traduce e la inserisce pari pari nella Dichiarazione di indipendenza, a riprova di quanto l’influenza culturale italiana sia viva in quelle ore turbolente.
Oggi, a Washington, nel giardino silenzioso che onora i Founding fathers, il nome di William Paca è inciso nella pietra. Non è tra i più noti. Ma è lì, tra Franklin e Adams, a testimoniare che la nostra storia di emigrazione non racconta solo di valigie di cartone, di miseria nei vicoli di Little Italy e di mafia, ma anche di cultura, di politica, e di una firma su un foglio che avrebbe dovuto cambiare il mondo.
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