venerdì 30 maggio 2025

767 - IL VELIERO NEL DESERTO

 


C'è un punto della Namibia in cui il deserto abbraccia l’oceano. Si chiama Skeleton coast, e qui nel 2008 dalle sabbie del Namib è uscito un incredibile veliero portoghese del 1500.

La Costa degli scheletri: scheletri di balene, di marinai, di navi. Il mare da quelle parti non perdona: è uno dei tratti più letali del pianeta, dove nebbia, correnti e vento si alleano per schiantare le imbarcazioni che osano avvicinarsi a terra.

Anno 2008, un bulldozer scava alla ricerca di diamanti. Perché la terra, laggiù, è madre e matrigna, ti può regalare pietre preziose o una sepoltura senza lapide. Il regalo di quel giorno però non se lo aspetta nessuno. La pala della ruspa urta contro un altro metallo. Non è una roccia, né una cassa dimenticata da qualche cercatore. E' un frammento di tempo.

Sotto la sabbia, a poco più di duecento metri dalla linea d'acqua, c’è il Bom Jesus. Nome evangelico per un relitto perduto. La nave, appartenente alla flotta reale di re Giovanni III, era salpata da Lisbona il 7 marzo 1533, con a bordo fra i 100 e i 150 uomini tra marinai, mercanti e schiavi. Il suo carico? Una wunderkammer del Rinascimento: 1.845 lingotti di rame marchiati dalla potente famiglia Fugger di Augusta, oltre 100 zanne di elefante provenienti da 17 branchi diversi dell’Africa occidentale, più di 2.000 monete d’oro e d’argento di varia provenienza, tra cui spagnole, portoghesi, veneziane e moresche.

Quasi 500 anni prima una delle tante violente tempeste aveva sbattuto la Bom Jesus sulla costa. I corpi finirono tra le dune o divorati dai granchi. La nave, invece, fu accolta dall'abbraccio della sabbia: poi lentamente, per secoli, le dune l'hanno ricoperta proteggendola da batteri, salsedine e tempo.

Le condizioni ambientali uniche della zona, con la presenza di rame tossico per i batteri marini e le fredde correnti oceaniche, hanno contribuito a preservare incredibilmente bene il relitto e il suo contenuto. La Bom Jesus è finita sepolta sotto la sabbia a 200 metri dalla linea di costa attuale: in 500 anni, la dinamica della costa e delle dune è infatti cambiata: in certi punti il deserto è avanzato verso l’oceano, in altri la linea di marea si è ritirata.

Quella riaffiorata nel 2008 è una vera capsula del tempo. Le assi, ancora tenaci. Le monete, ancora lucide. Le zanne, ancora bianche. Gli archeologi si sono trovati di fronte non a un relitto, ma a un messaggio dal passato: il mondo del Cinquecento era lì, in attesa di raccontarsi, sepolto sotto il deserto. A sentire i vecchi del posto sarebbero decine le navi invisibili, “inghiottite” dalla sabbia e in attesa di essere riportate alla luce, di tornare a raccontare le loro storie.

Chi passa oggi da Oranjemund può vedere lo scheletro della nave. I reperti stanno al museo di Windhoek, in teche illuminate. Ma il vero tesoro resta intangibile: l’idea che sotto i nostri piedi possa ancora battere il cuore di una nave. Che la sabbia, quando decide, possa restituire la voce a ciò che credevamo perduto.

sabato 3 maggio 2025

766 - CACCIATORI E PREDE


 

 In Vietnam i marines americani erano preparati ad affrontare il nemico nell'inferno della giungla tropicale. Ma non si aspettavano di dover combattere contro centinaia di tigri.

Il 5 maggio del 1970 – lo stesso anno in cui Muhammad Ali torna a combattere mentre le radio gracchiano il soul di Marvin Gaye – un elicottero UH-1 Huey fende come una libellula il cielo torrido del Vietnam e atterra a quaranta chilometri da Da Nang.

Dalla pancia di metallo saltano fuori sette uomini, facce giovani e troppo vecchie insieme. Comanda la pattuglia il sergente Robert C. Phleger, 32 anni, un’aria da quarterback esperto e una fede al dito che luccica più del sole malato sopra la giungla: ha sposato alle Hawaii appena una settimana prima la sua ragazza delle superiori, e torna dalla licenza con ancora addosso il profumo dell’oceano.

La pattuglia si muove guardinga tra bambù e zanzare, nel cuore verde dell’inferno. La missione è localizzare movimenti vietcong. Ma la giungla – chi c’è stato lo sa – ha regole sue. Non c’è Nord o Sud. C’è il fruscio, il sudore, la febbre e il sospetto. Camminano tutto il giorno, lasciandosi dietro il rumore dei passi come unica traccia. Quella notte, si accovacciano in buche scavate in fretta, ciascuno col proprio pensiero. Il sergente si prende il primo turno. E' il più esperto. E il più sfortunato.

Sono le 20 quando un tonfo e un urlo che non è più umano spezzano il silenzio. I sei soldati lanciano l'allarme. “Mantenete la posizione, restate immobili fino al sorgere del sole” è l'ordine che arriva via radio. Segue una notte di paura, occhi sgranati e fucili spianati.

All'alba vanno in cerca di Phleger, ma trovano solo uno zaino, un fucile pronto a sparare che non ha sparato, e una scia di sangue che verga la terra come una firma crudele. La seguono, e a 50 metri lo vedono riverso su un tronco, gli occhi spalancati, il corpo martoriato, il collo spezzato da una forza che non è umana.

Poi, la tigre. Duecento chili di muscoli e fame. Furiosa e feroce, appare tra le felci come un demone antico, con gli occhi che ardono. E loro sono troppo vicini al suo pasto. Non è paura, quella degli uomini. E' peggio. E' l'ancestrale sensazione di sentirsi prede. Aprono il fuoco, la bestia scappa, ma ruggisce la sua sfida. Li attaccherà ancora, quando meno se lo aspettano. E' una promessa e una certezza.

Seguono 24 ore di batticuore e nervi bruciati, la tigre li segue come un incubo, li assale all'improvviso, più volte. Loro sparano con tutte le armi, lanciano anche granate. Alla fine come nei film arrivano i nostri: un elicottero li tira su uno dopo l'altro, c'è chi prega e chi piange. Portano con sé i resti del sergente avvolti in un telo militare, e un ricordo che li tormenterà per il resto della vita,

Una storia di guerra ai confini della leggenda? No, la cronaca di uno dei tanti attacchi di tigri ai danni di militari americani nel corso della “sporca guerra”. Quanti? Tanti dicevamo, tantissimi. La censura militare non ci consente di avere dati precisi: non era certo il caso di caricare i bravi ragazzi americani anche della paura delle tigri. Basti dire però che alle sigle classiche “Kia” (Killed in action - uccisi in azione), “Wia” (Wounded in action - feriti in azione) e “Mia” (Missing in action - dispersi in azione) per il Vietnam viene aggiunta la sigla “Eia” (Eaten in action - sbranati in azione).

Ma davvero negli anni 60 e 70 la giungla del sudest asiatico è infestata dalle tigri? Certo, e il motivo c'è: la colpa è proprio della guerra che ha sconvolto l'ecosistema e fatto saltare la catena alimentare. Le consuete fonti di cibo dei felini sono tutte fuggite verso terre più tranquille, o vengono mangiate dalla popolazione affamata. E le tigri sono costrette ad attaccare la preda che normalmente preferiscono evitare: l'uomo.

Ovviamente non ci sono solo gli americani, ma anche soldati vietnamiti e interi villaggi di contadini fuggiti nella giungla: migliaia di esseri umani indeboliti dalla fame e dalla guerra. Degli attacchi subiti da questi ultimi si sa anche meno, ma sicuramente non si contano. Perché l'abbondanza di prede “facili da catturare” ha fatto si che in poco tempo la popolazione di “mangiatrici di uomini” sia cresciuta in maniera esponenziale. Nel 1967 nella sola provincia di Quang Tri si contano oltre 3.000 tigri. Insomma, le guerre in Indocina hanno dato vita alla più numerosa e robusta popolazione di tigri che la storia ricordi.

Non a caso, firmata la pace con gli americani il Vietnam (ma anche la Cambogia e il Laos) hanno dichiarato guerra alle tigri. Negli anni seguenti, nonostante le proteste delle organizzazioni ambientaliste, lo sterminio è stato sistematico, e nel 1997 la tigre è stata dichiarata ufficialmente estirpata dal territorio vietnamita.

venerdì 2 maggio 2025

765 - IL PARADISO DEI TOPI


  

Dio ha il camice bianco, e il paradiso e' un recinto quadrato con tutti i comfort, una sorta di Truman show per topi.

Si chiama Universe 25, il nome glielo ha dato John B. Calhoun, il demiurgo in camice bianco. Quattro pareti alte al centro di un laboratorio, mangiatoie sempre piene, acqua fresca a volontà, nidi in quantità. Nessun predatore. Nessuna malattia. Nessun bisogno insoddisfatto. Un mondo ideale. Un sogno di ordine e abbondanza. Dentro, una piccola colonia di topi, puliti, sani, selezionati.

Siamo al National Institute of Mental Health di Poolesville, nel Maryland, e Calhoun è un etologo e psicologo. Obiettivo dell'esperimento, condotto fra il 1968 e il 1972, studiare il comportamento sociale attraverso la simulazione di un'utopia. Come è andata? Vediamolo insieme step by step.

Fase 1 – Adattamento: tutto procede tranquillamente.C’è cibo, c’è spazio, tutto va nel verso giusto. E' il sogno americano in versione roditore. Ma come ogni utopia, anche questa ha un orlo scucito, un piccolo strappo da cui comincia a penetrare l’inquietudine.

Fase 2 – Esplosione demografica: i topi si riproducono senza freni, la popolazione raddoppia ogni 55 giorni. Il giorno 315 la colonia conta 600 roditori, i problemi iniziano con la lotta per il territorio

Fase 3 – Saturazione: i maschi dominanti diventano iper-aggressivi, gli altri fuggono, si isolano, diventano apatici. Anche le femmine diventano aggressive, perdono l'istinto della maternità, non curano più i cuccioli, li abbandonano, alcune li divorano. Un gruppo di topi sviluppa comportamenti ossessivi, come la toelettatura compulsiva. Poi nascono loro, i “Beautiful ones”. Bellissimi, lucidi, impeccabili. Non litigano, non si accoppiano, non si sporcano mai. Stanno ore a pulirsi il pelo, sono topi-narciso, creature splendide e inutili. Vivono solo per sé stessi, senza relazioni, non combattono, non si riproducono.

Fase 4 – Collasso: la popolazione smette di crescere e poi inizia a diminuire rapidamente, nessuno si accoppia più. E nessun componente della colonia sembra farci caso. Non c’è più desiderio, non c’è più eros, non c’è più voglia di svolgere qualunque attività. I topi, semplicemente, si dimenticano come si vive. E così, in un ambiente perfetto, uno dopo l'altro muoiono. Tutti.

Nel silenzio ovattato del laboratorio Calhoun osserva dall'alto, come un Dio lontano e imperturbabile, senza intervenire. Guarda il paradiso trasformarsi in inferno. Non per fame, non per guerra ma per vuoto. Fino all'ultimo topo. Il resto è silenzio.

Lo studio di Calhoun si conclude con una diagnosi spaventosa: “morte comportamentale”. Vinte le malattie, la fame, i pericoli e le paure la società collassa per sovrappopolazione, assenza di stimoli, perdita di ruoli. Una lezione amara, che sembra sussurrare all’orecchio di ogni civiltà troppo sicura di sé: non basta riempire i frigoriferi e cancellare i pericoli; se l'unico scopo è soddisfare ogni bisogno, se togli le relazioni, se togli il senso, togli anche l’anima.

Tranquilli comunque, dall'esperimento sono passati più di 50 anni, e oggi la maggior parte degli studiosi sottolinea che sarebbe un errore fare due più due e applicare agli esseri umani le conseguenze di un test condotto sui roditori. Insomma, siamo uomini, non topi. O no?



775 - LA DIMENTICANZA

Quanti giorni può sopravvivere un uomo senza bere né mangiare?Non esiste una risposta certa. I medici parlano di tre giorni senz’acqua, fors...