Il sonno della ragione genera mostri. Lo sapeva bene Erika Mann, la donna che ebbe il coraggio di schierarsi contro quei mostri per tenere acceso il lume della ragione quando il mondo sembrava averlo smarrito.
Erika nasce nel 1905 a Monaco di Baviera, in una famiglia dove l’intelligenza è pane quotidiano e la cultura una seconda lingua. Condivide col fratello Klaus un’irrequietezza fatta di teatro, viaggi e provocazioni. Insieme fondano una compagnia sperimentale, recitano testi audaci, sfidano le convenzioni con ironia e libertà. Berlino è la sua scuola, Max Reinhardt il suo maestro, il palcoscenico la sua prima arena.
Nel 1926 sposa l’attore Gustaf Gründgens, destinato a brillare nei teatri del terzo Reich, ma il matrimonio durerà poco. Il tempo di fare un giro del mondo con Klaus, e al ritorno divorzia. Intanto si è innamorata di Pamela Wedekind, già promessa del fratello, e quella strana geometria affettiva fra i tre – Erika, Klaus, Pamela – diventa una commedia esistenziale in un’epoca sempre più tragica. Ma la recita più pericolosa deve ancora cominciare.
Nel gennaio del ’32, durante una lettura pacifista, le SA fanno irruzione tra il pubblico. Fischi, insulti, oggetti lanciati. Erika non si piega. Ha già iniziato a scrivere articoli infuocati contro l’ascesa del nazismo, dal suo studio situato accanto alla sede del partiito nazionalsocialista di Monaco, un paradosso che dice molto sul suo coraggio.
Quando Hitler sale al potere, lei è tra le prime scrittrici inserite nella lista degli "autori degenerati". Il suo bersaglio più diretto? Bernhard Rust, ministro dell’Istruzione del Reich, teorico di un’educazione al servizio del fanatismo. Rust vuol trasformare la scuola tedesca in una fabbrica di nazionalisti, inventa persino una settimana scolastica di otto giorni – sei di studio, uno di lavoro fisico, uno di riposo – un’idea tanto ridicola quanto fallimentare. Epura libri, vieta autori non tedeschi, predica una purezza culturale tanto delirante da risultare indigesta perfino a Goebbels.
Erika lo attacca frontalmente nel suo libro *Scuola per Barbari*, pubblicato nel 1938. Denuncia la colpa della Repubblica di Weimar, che aveva lasciato le menti dei giovani in balia della propaganda, senza prepararli alla difesa della democrazia. Scrive: “Non abituato all’autogoverno, il popolo tedesco si sottomise a uno Stato che si fece padrone e costrinse il popolo a esserne servitore”.
Rust fa tradurre ogni suo articolo. Erika lo sa e rilancia: “Di questo infimo ometto, nella cultura non resterà nulla se non cavilli”. Una profezia destinata ad avverarsi. Dopo la fine del Reich Rust si toglie la vita. L’unica sua traccia sopravvissuta sarà riforma ortografica, proposta nel 1944 e ripresa nel 1996 – un’impronta minuscola, dimenticabile.
Erika, invece, continuerà a scrivere, a viaggiare, a parlare in pubblico, a battersi per la libertà. Nel 1935, quando restare in Germania significa rischiare la vita, si trasferisce a Londra, dove sposa per avere la cittadinanza il poeta W\.H. Auden, omosessuale anche lui, che le offre aiuto e protezione. Trascorre gli anni successivi tra l’Europa e gli Stati Uniti, accanto al fratello Klaus fino alla sua tragica morte, sempre in prima linea contro ogni intolleranza.
Muore nel 1969. Solo allora molti comprenderanno davvero chi fosse: non solo la figlia di Thomas Mann, uno dei più grandi scrittori del novecento. Non bastava quel nome a definirla. Perché se Rust ha lasciato dietro di sé il nulla, Erika – come suo padre – ha lasciato in eredità all’umanità una voce limpida, una lezione di coraggio, e una fede incrollabile nella dignità della cultura.
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