Al Festival del cinema di Cannes non lo conosceva nessuno, Luchino Visconti lo presentò come “il più bel ragazzo del mondo”. Bastò un'occhiata per capire che aveva ragione.
L'anno è il 1970, lui si chiama Björn Andrésen e non è un attore consumato, né una star costruita a tavolino, ma solo un adolescente svedese di appena 16 anni che il grande regista del Gattopardo e di Rocco e i suoi fratelli ha scelto per incarnare l’angelo biondo di “Morte a Venezia”.
Da allora il suo destino si intreccerà indissolubilmente con l’immagine di Tadzio, simbolo di purezza e di desiderio, proiettato sullo schermo in tutto il mondo. Un'interpretazione eterea, quasi onirica che entra nella memoria collettiva e lo imprigiona in un ruolo non facile da sostenere.
Durante le riprese gli proibiscono di nuotare, di correre, perfino di prendere il sole: tutto deve restare intatto, immacolato. Il rapporto con il regista oscilla tra gratitudine e disagio. Gratitudine per l’occasione, disagio per un controllo che spesso lo riduce a opera d'arte da contemplare. E poi il ricordo dell’imbarazzo al provino, quando Visconti gli chiese di spogliarsi fino agli slip, e il trauma di essere trascinato in locali notturni, a 15 anni, senza capire davvero cosa stesse succedendo.
A Cannes, durante la presentazione, Visconti arriva a dire che Björn è “già troppo vecchio”: lui, timido e fragile, non capisce una parola di francese, e sorride ignaro della sottile ironia del regista che lo racconta come un magnifico toy boy.
Per quanto giovanissimo, Björn ha alle spalle un'adolescenza già segnata da ombre nerissime. Non ha mai conosciuto il padre e la madre si è tolta la vita quando lui aveva dieci anni. Cresce con i nonni, ed è la nonna a spingerlo verso il cinema, desiderosa di un nipote famoso. Ma nulla lo ha preparato al vortice che lo travolgerà dopo “Morte a Venezia”.
La vera esplosione arriva in Giappone. Lì il suo volto etereo genera un’isteria collettiva trasformandolo, di fatto, in uno dei primi teen-idol occidentali del Sol Levante: folle di ragazzine urlanti, dischi pop incisi in fretta e furia, copertine di riviste, apparizioni televisive una dopo l'altra. Racconterà in seguito che per fargli sopportare la fatica delle tournée lo riempivano di “pillole rosse”.
In quel periodo il suo volto diventa l’archetipo del *bishōnen*, il “bel ragazzo” androgino che segna un’intera stagione di manga e anime. Riyoko Ikeda, creatrice de “La Rosa di Versailles”, confermerà anni dopo che sì, Lady Oscar nacque proprio guardando Björn, fu lui a ispirarla: la bellezza maschile e femminile fuse in un solo volto, la tristezza come cifra segreta del fascino. Senza Andrésen, Lady Oscar non sarebbe esistita.
Quando poi torna a Parigi, per mesi è il beniamino dei salotti mondani, e vive in appartamenti offerti da ricchi ammiratori: poco più di un bell'oggetto da mostrare agli amici. Poi la vita va avanti, cura qualche ferita e ne apre altre più profonde. Anni dopo dovrà sopportare un altro dolore fra i più terribili, la perdita del figlio Elvin, morto a nove mesi.
Oggi, a 70 anni, Björn vive a Stoccolma, e dopo un lungo periodo di depressione e di silenzio, sembra essersi finalmente liberato di quella gabbia che lo showbusiness gli aveva costruito intorno tanti anni fa. Ha ripreso a fare musica e a recitare, si è riaffacciato al cinema con un piccolo ruloo nel film “Midsommar” di Ari Aster, e nel 2021 ha raccontato se stesso senza inibizioni nel documentario “The Most Beautiful Boy in the World”. Non per alimentare la leggenda, ma per liberarsene: un modo per esorcizzare la maledizione della “grande bellezza”.
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