domenica 5 ottobre 2025

841 - IL NONNO DEI BEATLES


 

Ha visto nascere il treno a vapore e il telegrafo, ha vissuto sotto la regina Vittoria ed è corso nei rifugi per evitare le bombe tedesche su Londra. Eppure, a 100 e più anni, John Mosley Turner ascoltava i Beatles alla radio e si emozionava cantando Yesterday e Eleanor Rigby.

Turner nasce nel 1856, in piena epoca vittoriana, e lavora come tagliatore di tessuti di seta, uno di quei mestieri d’officina che odorano di fatica e sacrificio. Vive a Tottenham, assistito da una figlia, e a 73 anni perde la vista e trova nella musica la sua finestra sul mondo.

Non ha mai bevuto un bicchiere di birra né fumato un sigaro, e forse anche per questo arriverà a spegnere 111 candeline: il primo britannico documentato a superare quel traguardo, e per due anni l’uomo più vecchio della Terra.

Arrivano gli anni della “swinging London”, e lui, che ascolta ogni giorno la radio, scopre quel gruppo di ragazzi di Liverpool, e diventa il più vecchio dei loro fan. La stampa inglese, nel giugno del 1964, lo racconta con titoli pieni di tenerezza: “Swinging at 108”, scrive il Daily Herald; “The Beatle fan is 108”, gli fa eco il Daily Mirror. Lui, che fin da bambino ha lavorato 12 ore al giorno, dichiara: “I giovani d’oggi sono fortunati: possono ballare e divertirsi. Noi no, noi potevamo solo lavorare”.

E così, cieco ma sorridente, passa i pomeriggi accanto alla radio, battendo il ritmo con la mano nodosa. Forse non capisce tutte le parole, ma ne percepisce la gioia, la libertà, quella spinta nuova che scuote l’Inghilterra come un vento che soffia su un mare in bonaccia.

Quando la televisione comincia a trasmettere i volti dei Fab four, chiede che gli raccontino come sono fatti: “Sono giovani, eleganti, pieni di vita”, rispondono. E lui si mette a ridere: “Be’, è giusto così”.

Muore nel marzo del 1968, nei giorni in cui esce “Hey Jude”. Ha attraversato due secoli, due guerre mondiali, i fasti di un Impero e le miserie delle periferie dickensiane, e se ne va a 111 anni canticchiando “She Loves You”.


840 - NAPOLI SUL MAR NERO


 

Dalle pendici del Vesuvio alle sponde del mar Nero. La città di Odessa nacque dal sogno di un napoletano al servizio della zarina.

E' il 1794 quando José de Ribas — Giuseppe per i suoi amici d’infanzia ai Quartieri Spagnoli — sbarca su quel tratto di costa battuto dal vento del Mar Nero. Quello che trova lì è una vecchia fortezza ottomana e un pugno di capanne tatare. Ma Josè porta con se la luce del Golfo di Napoli, e i suoi occhi vedono un porto dove gli altri non vedevano che sabbia e steppa.

In quell'anno Caterina la Grande ha deciso di spingere l’impero russo verso il sud, di conquistare mari e rotte. De Ribas, ufficiale di collegamento con il principe Potëmkin, ha l’incarico di dare vita a una città.

E la inventa, letteralmente. Traccia strade, banchine, magazzini, e per darle un’anima sceglie un nome mitologico, “Odessos”, poi trasformato in “Odessa” per volere della zarina — “più femminile”, disse, “più degno di una perla sul mare”.

In pochi anni, la città nuova diventa un crocevia di lingue e commerci, un laboratorio di modernità. Arrivano greci, armeni, francesi, e soprattutto gente del regno delle due Sicilie: mercanti, musicisti, cuochi, artigiani.

Francesco Frapolli, architetto e ingegnere, napoletano anche lui, disegna porti e arsenali, palazzi e teatri. Le vie risuonano di accenti mediterranei, e lungo l’attuale “Italian Boulevard” non si può non notare la parlata partenopea, il gesto largo dei napoletani, il profumo di caffè e di mare.

A metà Ottocento gli italiani sono ormai migliaia, una piccola colonia nel cuore dell’impero russo. Poi, con i decenni, il loro numero si assottiglia, generazione dopo generazione il sangue si mescola con quello del melting pot della “città aperta” sul mar Nero. Ma di certo a Odessa per molti anni si è respirata l'aria di Napoli.

Tanto che, secondo molte fonti, nel 1898, in una stanza affacciata sul porto, Eduardo di Capua, in tournée col padre violinista, guardando l’alba sul mare avrebbe composto le prime note di “O Sole Mio”.

sabato 4 ottobre 2025

839 - CADUTA LIBERA


 

Lo so, questa storia è ai confini della realtà. Ai confini, e non oltre, perché è accaduta davvero. Un aereo in volo, un’esplosione, 27 morti. E una hostess che sopravvive alla caduta libera più alta mai registrata senza paracadute: 10.160 metri.

Vesna Vulović nasce a Belgrado nel 1950, sogna Londra, i Beatles e i viaggi. Decide così di diventare assistente di volo per poter vedere il mondo. Inizia con entusiasmo la sua esperienza sui voli di linea, fino a quel 26 gennaio 1972.

Cominciamo a dire che lei non ci sarebbe neanche dovuta essere sul volo JAT 367: è lì per un errore di nome, (un'altra assistente di volo che si chiama anch'essa Vesna), una confusione di turni. Il destino l’ha scelta. All'inizio è un po' contrariata, ma poi vede che l'aereo fa scalo a Copenaghen, e lei in Danimarca non c'è mai stata. Così non dice niente, e sale sulla scaletta.

Nel vano bagagli, in una valigetta, è nascosta una bomba, che esplode a 10.000 metri di altezza. L'aereo in fiamme precipita, tanti passeggeri vengono sbalzati fuori, ma non la hostess, che resta intrappolata dentro un pezzo della fusoliera, con la schiena bloccata da un carrello portavivande.

L’impatto con il suolo è ammortizzato dalla neve e dagli alberi, ma quello che salva Vesna è proprio il carrello, che le si incastra contro la colonna vertebrale, e la tiene aderente alla struttura dell’aereo creando una sorta di gabbia protettiva.

L'aereo cade vicino a Srbská Kamenice, in Cecoslovacchi. I primi soccorritori la trovano in mezzo a tanti corpi senza vita, straziati e dilaniati; il rosso del sangue ricopre la sua divisa turchese. Un contadino che era stato medico durante la guerra si accorge incredulo che respira. E la tiene in vita fino all'arrivo dei soccorsi, mentre i presenti sussurrano attoniti una sola parola: miracolo.

Vesna si risveglia all'ospedale di Praga dopo giorni di coma, con gambe, bacino, vertebre e cranio fratturati. E' paralizzata dalla vita in giù. Ma piano piano, dopo mesi di interventi e grazie a quella testarda volontà che lei chiama “la mia cocciutaggine serba”, le gambe ricominciano a muoversi. Unica conseguenza fisica, camminerà per tutta la vita zoppicando.

Non le resta invece alcun ricordo dell'incidente. E non ha paura di tornare a volare. Vorrebbe riprendere il suo lavoro, ma la Jat Airways le assegna un incarico d'ufficio. Intanto in Jugoslavia è quasi un'eroina: viene ricevuta da Tito e la sua storia è immortalata in una canzone popolare. Il Guinness dei Primati ratifica il suo record: nessuno era mai sopravvissuto a una caduta simile.

Negli anni novanta si oppone a Milošević, perde il lavoro e diventa bersaglio di campagne diffamatorie. Non finisce in carcere solo perché il governo vuole evitare la pubblicità negativa che il suo arresto porterebbe. Continua a manifestare, fino alla Rivoluzione dei bulldozer del 2000, quando vede cadere il dittatore. In seguito entra nel Partito Democratico e sostiene l'ingresso della Serbia nell'Unione Europea.

Gli ultimi anni li passa sola, in un appartamento di Belgrado, con una pensione misera e il peso di un destino che ha risparmiato solo lei: "Ogni volta che penso all'incidente, provo un forte senso di colpa per essermi salvata, piango, e penso che forse non sarei dovuta sopravvivere”.

Vesna Vulović muore a 66 anni, pochi giorni prima del Natale 2016. Negli ultimi tempi aveva trovato conforto nella fede, che, come ha raccontato ai giornali, le ha fatto rileggere la sua terribile esperienza e l'ha trasformata in una persona ottimista, perché “se riesci a scamparla a ciò che è capitato a me, puoi sopravvivere a qualsiasi cosa".

giovedì 2 ottobre 2025

838 - IL TESORO DI SADDLE RIDGE


 

Non è proprio la pentola piena d'oro delle fiabe, quella che si trova in fondo all'arcobaleno, ma qualcosa che gli assomiglia parecchio.

Otto barattoli arrugginiti nascosti appena sotto il terreno di una collina. Dentro, un tesoro da far girare la testa: 1.427 monete d’oro, lucenti, intatte, come se il tempo non fosse mai passato.

È il 2013 quando una coppia californiana (nota solo come “John e Mary”), passeggiando col cane tra i sentieri della loro proprietà a Trinity County, nota una lattina spuntare dalla terra smossa. Il cane tira, loro scavano: il metallo fragile si sbriciola e lascia cadere un fiume dorato. Non uno, ma otto recipienti colmi.

Il ritrovamento, battezzato “Saddle Ridge Hoard” (il tesoro nascosto di Saddle Ridge, toponimo volutamente generico e non identificabile) viene stimato dieci milioni di dollari, un valore che non sta soltanto nel metallo, ma nell’assurdità del mistero: monete emesse tra il 1847 e il 1894, molte mai circolate, custodite come in una cassaforte invisibile.

Chi le ha sepolte? E perché? Le ipotesi si sprecano: rapinatori leggendari come Jesse James, furti alla Zecca di San Francisco, complotti di società segrete. Ma nulla regge: le date non coincidono, i registri non parlano.

La spiegazione più sobria è che qualcuno, temendo crisi e banche, abbia preferito affidare il proprio oro alla terra, e poi non sia mai tornato a riprenderlo. Chissà che storia si nasconde dietro quei barattoli pieni di monete luccicanti. Di certo lo sconosciuto proprietario non immaginava che un giorno un cane avrebbe scavato in quel punto e avrebbe riportato alla luce il più grande tesoro sepolto d’America.

Oggi le monete, catalogate una per una, portano tutte l’impronta ufficiale “Saddle Ridge Hoard”. La coppia rimane anonima, comunica solo attraverso l’intermediario Kagin’s (la società numismatica che gestsceì la vendita di lotti delle monete), e ha spiegato questa scelta con motivi di sicurezza personale e di privacy fiscale e legale.

Allo stesso modo non ha mai rivelato l’esatta posizione del ritrovamento, per timore di orde di cacciatori nella loro proprieta. Per questo non è stato possibile condurre sul terreno ricerche più approfondite. E il mistero rimane.

837 - UNA LAMPADA, DUE GENI E UN AUTORE DIMENTICATO


Oggi vi racconto la fiaba di Aladino. Quella vera però, dove non c'è un solo genio, ma due; quella che non si svolge in Arabia ma in Cina, e soprattutto quella che non fa parte delle *Mille e una notte*, ma è nata molti secoli dopo dal racconto di un viaggiatore siriano.

Il mondo conosce Aladino soprattutto nella versione Disney del 1992: lampada d’oro scintillante, genio blu e principessa Jasmine. Ma la fiaba vera, quella che arrivò in Europa nel 1709, è ben diversa.

Per cominciare, la storia nelle Mille e una notte non c'era prioprio. La aggiunge il francese Antoine Galland, che aveva tradotto i 12 volumi di racconti da un manoscritto arabo del nono secolo conservato a Parigi, e li aveva iniziati a publicare nel 1704.

E Galland dove ha trovato la fiaba di Aladino? A lui l'ha raccontata, insieme a quella di Alì Babà e ad altre storie, un viaggiatore maronita di Aleppo, Hanna Diyab, nel 1709. Gailland non farà altro che appropriarsi dei racconti e aggiungerli alla sua raccolta.

Ma vediamo il testo della favola. “C’era una volta in Cina”, dice l’incipit originale, anche se in quell’antico racconto la Cina non era la Cina reale, ma una terra lontana, esotica, un oriente favoloso. Segue il ritratto del protagonista, un ragazzo scapestrato che passa le giornate a bighellonare. Si chiama ʿAlāʾ al-Dīn, che in arabo significa “Gloria della fede”, ed è cresciuto senza il padre e con una madre che fatica da mattina a sera per garantirgli un piatto caldo.

A questo punto compare il primo di tre avversari: un mago africano, che lo inganna convincendolo a scendere in una caverna per recuperare una vecchia lampada annerita. Aladino, invece, si tiene la lampada e anche un anello, scoprendo che ciascuno contiene un servitore mostruoso e potentissimo.

Due geni, non uno quindi: il primo nero come il catrame, con occhi rossi fiammeggianti, il secondo così spaventoso che la madre, al vederlo, cade svenuta. I geni possono esaudire desideri. Quanti? Non c'è un numero preciso. Anche il limite dei tre desideri è un'aggiunta moderna, nata nelle versioni cinematografiche.

Nell'originale non esiste, basta che i desideri siano compatibili con i poteri delle entità. Così al genio dell’anello Aladino chiede solo di poter uscire dalla grotta in cui è rinchiuso, mentre il genio della lampada soddisferà desideri vari (cibo, ricchezza, palazzi, spostamenti, protezioni, vendette).

Con i loro aiuti, Aladino riesce a sposare la figlia del sultano, la principessa Badroulbadour (“Luna delle lune”, e non Jasmine) e a sconfiggere un secondo rivale, il figlio del gran visir. Ma non è finita: il mago torna per riprendersi la lampada, e dopo di lui giunge il fratello, assetato di vendetta, travestito da guaritrice. Uno dopo l’altro cadranno, vinti dall’astuzia del ragazzo e dalla forza dei suoi spiriti. Così Aladino diventa sovrano e governa con giustizia, accanto alla sua principessa.

Una favola meravigliosa, come anche quella di Alì Babà. Eppure il vero autore, Hanna Diyab, non ha mai ricevuto compensi né un riconoscimento ufficiale, ed è morto ad Aleppo come un uomo qualunque. Ma se si scava sotto la patina dei cartoni e dei remake, resta l’eco di quella voce siriana che tre secoli fa, consegnò all’Europa un racconto che profumava di spezie, d’incanto e di mistero.



mercoledì 1 ottobre 2025

836 - L'INCREDIBILE VIAGGIO DELLA SIGNORA BENZ


 

Un mattino d’agosto del 1888 una donna salì sulla strana carrozza a tre ruote costruita dal marito, caricò i due figli e senza chiedere il permesso a nessuno partì, destinazione futuro.

Bertha Benz ha 39 anni quando decide che è tempo di smettere con i tentennamenti e di far parlare i fatti: quell’aggeggio rumoroso non è un capriccio, ma una rivoluzione, e lo vuol dimostrare al mondo .

Senza dir nulla al marito Carl, alle prime luci dell'alba va in officina e sale sulla nuova carrozza a motore che lui ha costruito due anni prima, vi carica i figli Eugen e Richard e parte da Mannheim, in Germania, in direzione di Pforzheim, dove vive sua madre.

Sono quasi cento chilometri di strade sterrata, senza mappe, senza segnali, accompagnata dagli sguardi diffidenti dei passanti in un mondo che non sa ancora cos'è un’automobile.

Carl aveva brevettato il suo “Patent-Motorwagen” due anni prima, ma esitava a metterlo alla prova in pubblico, per prudenza e per paura del ridicolo. Bertha, con l’intuito delle donne che vedono più lontano, capisce che quella macchina deve dimostrare la sua utilità non davanti a ingegneri e investitori, ma lungo la strada, in mezzo alla gente.

Così inizia l'avventura; orientarsi non è facile, non c'è certo il navigatore satellitare, così segue quando possibile i binari ferroviari e il corso del Reno; il suo veicolo ha ruote di legno e un motore monocilindrico da 2,5 cavalli di potenza. Ogni buca un rischio, ogni salita un’impresa.

E le difficoltà non si fanno attendere. A Wiesloch scarseggia la ligroina (il solvente utilizzato come carburante) e lei si ferma in una farmacia e “fa il pieno”, creando così la prima stazione di servizio della storia. Sulle salite più ripide chiede aiuto ai contadini del posto che spingono la vettura insieme ai figli, e prende nota della necessità di rapporti di cambio adeguati.

Quando il carburatore si intasa, lo pulisce liberando il condotto con lo spillone del suo cappello; poco dopo un filo elettrico si scopre e rischia di mandare in corto circuito l’accensione, e lei ferma l'auto e, senza alcun attrezzo, improvvisa: prende una delle sue giarrettiere di tessuto elastico, la avvolge intorno al filo danneggiato e isolandolo con una sorta di guaina protettiva.

Più avanti a Bauschlott si accorge che l'uso dei freni in discesa li consuma rapidamente, allora si ferma da un calzolaio e fa rivestire il pattino di legno con strisce di cuoio, dando vita di fatto al prototipo delle moderne pastiglie.

Quando i tre arrivano esausti a Pforzheim, sono passate 12 ore; quello che hanno compiuto è il primo viaggio extraurbano della storia in automobile: 104 chilometri su stradette polverose.

E il marito? La attende a casa preoccupato; ma ha anche capito che senza quella prova di coraggio la sua invenzione sarebbe rimasta un capriccio da officina. Il colpo di teatro di Bertha l’ha trasformata in un mezzo per vivere e viaggiare.

Tutti i giornali ne parlano, e l’impresa convince investitori e clienti della solidità del progetto Benz. In seguito Carl dichiarerà: “senza quel viaggio la mia invenzione non avrebbe mai avuto successo”.

Oggi gli automobilisti del terzo millennio percorrono la Bertha Benz Memorial Route, un itinerario turistico di circa 194 km che segue il tragitto andata e ritorno da Mannheim a Pforzheim, creato per ricordare una donna intraprendente che con un pizzico di audacia, una giarrettiera e uno spillone mise in moto il futuro.


841 - IL NONNO DEI BEATLES

  Ha visto nascere il treno a vapore e il telegrafo, ha vissuto sotto la regina Vittoria ed è corso nei rifugi per evitare le bo...