Sembra impossibile ma...
Un avventuriero italiano in cerca di tesori distrusse in poco più di un mese oltre 40 piramidi millenarie. Ringrazio Gianfranco Di Mare per la segnalazione e vi presento il “dottor” Giuseppe Ferlini da Bologna.
Nato nel 1797, a 18 anni scappa da casa; nel 1817 raggiunge l'Albania dove entra come ufficiale medico nell'esercito di Ali pascià in guerra contro i turchi: sostiene di essersi laureato a Bologna, ma è molto più probabile che abbia appreso nozioni di medicina come infermiere in ospedale. Il seguito è un curriculum da manuale dell'avventuriero ottocentesco, fra battaglie contro gli ottomani e movimentare relazioni con compagne che lo seguono nella sua vita spericolata dalla Grecia a Smirne fino alla corte di Muhammad Ali in Egitto. Nel 1829, dopo un anno di lavoro in ospedale a Thura, vicino al Cairo, Ferlini si annoia e si fa trasferire in Sudan con la compagna del momento, una donna islamica, prima a Sennar (con un terribile viaggio durato 159 giorni), poi a Kordofan quindi, in una sorta di discesa verso il “cuore di tenebra” dell'Africa, a Khartum.
Qui cura e guarisce il figlio del governatore del Sudan, l'inglese Richard Guyon (diventato Curschid pascià) e ne conquista la stima e la simpatia. Tanto che a lui affida una spedizione alla ricerca di giacimenti auriferi. Solo che di oro sotto terra non ce n'è, e allora al bolognese spunta un'insolita idea: in Sudan ha visto un gran numero di piramidi e templi che risalgono alla civiltà egizia, e che potrebbero celare favolosi tesori. Perché non andare a prenderli? Così, colpito da improvvisa passione per l'archeologia, ottiene (non senza fatica) il consenso di Curschid pascià, si associa ad Antonio Stefàni, mercante albanese pratico dei luoghi, ingaggia 30 giovani indigeni e, acquistati cammelli, attrezzi e provviste nell'agosto del 1834 si dirige verso le rovine di Meroë l'antica capitale.
Qualche anno prima, nel 1821, il naturalista francese Frédéric Cailliaud esplorando l'area aveva descritto un'ottantina di piramidi, costruite durante il Regno di Kush, fra il 1550 e il 1070 a.C. “tutte in ottime condizioni”. E così le trova Ferlini al suo arrivo. 35 giorni dopo la metà non esistono più, di oltre 40 piramidi restano solo cumuli di rovine. In breve infatti, arruolati 550 operai del posto, fa demolire gli edifici più piccoli, trovando poco o niente. Dopo 20 giorni il clima e i disagi si fanno sentire (lui stesso soffre di febbri malariche) gli uomini e i cammelli cominciano a morire. Decide di fare un ultimo tentativo con la piramide più grande, la tomba della regina Amanishakheto alta 28 metri, intatta. Comincia dalla cima demolendo via via i 64 gradoni, e finalmente trova una cella rettangolare con un ricco sarcofago. Il drappo bianco che lo ricopre si dissolve al contatto con l'aria, e appare il tesoro: il corredo funebre della regina, intatto. Consigliato dall'albanese che teme la collera e l'avidità della gente del posto, nasconde tutto in sacchetti di pelle che poi nel cuore della notte porta nella sua tenda. Stefàni vuole fuggire subito, ma Ferlini, preso dalla cupidigia, va avanti per altri 15 giorni nella sua opera di demolizione, e altre grandi piramidi vanno giù. Finché un servitore fedele avverte i due che la notizia del ritrovamento si è sparsa, e oltre mille indigeni hanno preparato per il giorno dopo un assalto per liberarsi di loro. In piena notte i due europei con le loro donne e tre servitori caricano tutto sui cammelli e si danno alla fuga; inseguiti, si salvano raggiungendo per miracolo il Nilo e imbarcandosi fino al Cairo; da qui Ferlini lascia l'Egitto in nave fino a Trieste, da dove rientra a Bologna.
Tornato in patria, racconta (ammantandole di nobili scopi scientifici) le sue imprese, che finiscono su tutte le gazzette dell'epoca. In mezza Europa si discute del tesoro; gli esperti si dividono, c'è chi lo giudica un falso, e chi lo stima autentico. Seguono trattative per la vendita a Parigi con il principe Demidov, a Roma con la Santa Sede e il Granducato di Toscana e in Baviera con Luigi I. Che ne acquista una parte: oggi si trova al Residenzmuseum di Monaco. Ciò che resta Ferlini lo porta a Londra e lo affida a un insolito agente di vendita, “un certo” Giuseppe Mazzini, in esilio in riva al Tamigi. Il British Museum ritiene che il tesoro sia falso e rifiuta l'acquisto, allora Mazzini lo mostra all'egittologo tedesco K. R. Lepsius, che lo fa acquistare dal Neues Museum di Berlino. Gran parte dei reperti finiti nei musei di Monaco e di Berlino spariranno poi alla fine della seconda guerra mondiale, e oggi del tesoro restano solo una cinquantina di monili. In Italia invece, il Museo egizio di Torino ne conserva i facsimili donati a Vittorio Emanuele II nel 1860 dallo stesso Ferlini. Che negli ultimi anni della sua vita diventa a Bologna una sorta di personaggio tipico, sempre in giro per la città in costume turchesco con turbante, spada e una sfilza di medaglie, intento a raccontare la storia del suo tesoro.