mercoledì 25 giugno 2025

775 - LA DIMENTICANZA

Quanti giorni può sopravvivere un uomo senza bere né mangiare?Non esiste una risposta certa. I medici parlano di tre giorni senz’acqua, forse dieci senza cibo. Ma provate a chiederlo ad Andreas Mihavecz, lui una risposta ce l'ha.

È il primo aprile del 1979 a Bregenz, Austria occidentale. Andreas, diciottenne austriaco, non ha fatto nulla di male: è solo il passeggero di un’auto coinvolta in un banale incidente. La polizia lo porta in centrale per identificarlo. Lo chiudono in custodia cautelare in una cella nel seminterrato del tribunale. E poi… si dimenticano di lui.

Una svista collettiva. Ognuno dei tre agenti presume che sia stato già liberato dagli altri. Nessuno controlla. Nessuno sente le grida di aiuto. Nessuno si accorge che in quello sgabuzzino cementato c’è un ragazzo vivo e di ora in ora sempre più disperato.

I giorni passano. Andreas batte le mani contro le pareti, urla, chiama. Niente. Nessuno risponde. Resta lì. Senza acqua, senza cibo. Per sopravvivere lecca le gocce d’umidità che si formano sul muro. Scrosta pezzi d’intonaco. Rimane sdraiato e immobile per risparmiare energia. Il tempo diventa liquido, il corpo si svuota.

Passano diciotto giorni. Diciotto!

Lo trovano per caso il 19 aprile. Un agente nota il cattivo odore che sale dal seminterrato. La porta della cella si apre: Andreas è ancora vivo, ridotto a uno scheletro tremante. Ha perso 24 chili. Gli occhi scavati, la pelle grigia. Ma è vivo.

Lo portano in ospedale, viene salvato in extremis. I poliziotti coinvolti vengono multati per l’equivalente di 2000 euro, Andreas intenta una causa civile e due anni dopo lo stato austriaco lo risarcisce con l'equivalente di 18.000 euro: 1000 euro per ogni giorno di fame e di sofferenza passati in cella. Nel 1997 il Guinness World of Records lo riconoscerà come “l’essere umano che è sopravvissuto più a lungo senza cibo né acqua”.





774 - PIRAMIDI IN BRIANZA

 


Quel giorno di primo mattino Indiana Jones salì sulla sua Mercedes -Benz 540K in piazza del Duomo a Milano e in meno di 40 minuti raggiunse Montevecchia, in Brianza. Qui lasciò l'auto, imboccò un sentiero neanche troppo impegnativo e dopo un'ora si trovo davanti... le piramidi!

Scherzi a parte, Indiana Jones non esiste, ma le piramidi fra le colline della Brianza sì. Sono tre misteriose formazioni rocciose, alte tra i 40 e i 50 metri, con una pendenza massima di circa 44°. Niente a che vedere con i 138 metri della grande piramide di Giza, ma vederle lì, silenziose e maestose a vegliare da 15.000 anni sul paesaggio verde, un certo effetto lo fa.

La loro scoperta è recente e quasi casuale. Nel 2001 l'architetto e ricercatore Vincenzo Di Gregorio, appassionato di geologia e di luoghi nascosti, nota qualcosa di strano in una mappa satellitare della zona. Le immagini mostrano tre colline disposte in linea retta, simili a quelle della famosa cintura di Orione.

E' un angolo di mondo apparentemente trascurato, ma quella visione, amplificata dalla tecnologia, suggerisce che le formazioni possano nascondere un ordine celato, una simmetria che non è solo il frutto del caso. Di Gregorio, incredulo ma affascinato, decide di approfondire la questione.

Negli anni successivi, le piramidi di Montevecchia divengono oggetto di numerosi studi. Archeologi e geologi si mettono al lavoro cercando di determinare l'origine di queste formazioni. E, come sempre accade in questi casi, nascono subito due fazioni contropposte.

Da un lato il responso della scienza ufficiale: nessuna prova concreta suggerisce che si tratti di manufatti; sembra invece che la natura abbia creato queste strutture con il suo consueto, implacabile lavoro di erosione. Il terreno argilloso, modellato dai ghiacciai 15,000 anni fa durante l’ultima glaciazione, avrebbe attraverso secoli di piogge e venti dato vita a queste formazioni con una precisione capace di suscitare meraviglia.

Una posizione chiara: le piramidi sono frutto di un fenomeno naturale. La forma piramidale, benché suggestiva, non può esser considerata una prova di intervento umano. Insomma, come spesso accade, la natura è un’artista capace di produrre forme incredibili senza bisogno di assistenza esterna.

Sull'altro fronte si schierano agguerriti coloro che vedono nelle piramidi di Montevecchia un segno di qualcosa di più profondo. Studiosi del mistero e appassionati di archeologia alternativa teorizzano che queste formazioni siano state realizzate da antiche civiltà, oggi dimenticate.

Alcuni li chiamano "gli Etruschi della Brianza", supponendo che una popolazione misteriosa abbia costruito le piramidi in omaggio ai ritmi cosmici, allineandole con la cintura di Orione come quelle di Giza. Perché non pensare che anche in Italia, in un’epoca remota, potesse esistere una civiltà in grado di fare queste operazioni? Le ipotesi abbondano, ma fino ad oggi non esiste nessuna prova definitiva che supporti queste idee.

Insomma, una risposta certa non c'è, il dubbio scivola tra i contorni delle colline e tra le pieghe della storia. Davvero un bell'enigma quello delle piramidi di Montevecchia. Per risolverlo una volta per tutte ci vorrebbe Indiana Jones.



martedì 24 giugno 2025

773 - LA VITA STELLARE DEL TENENTE SCOTTY

 


Se lo ricordano tutti come Scotty, l’ingegnere col berretto rosso e l’accento scozzese che “spreme al massimo i motori” mentre l’Enterprise sfugge all’ennesimo cataclisma galattico. Ma James Doohan è stato molto di più.

Dietro il suo sorriso scanzonato e l’aria da eterno complice delle imprese di Kirk e Spock, il tenente comandante Montgomery “Scotty” Scott, ingegnere capo della USS Enterprise NCC-1701, nascondeva un passato avventuroso.

Nato a Vancouver nel 1920, James cresce tra le ombre dell’alcolismo paterno e il desiderio di riscatto. Sogna la scienza e la tecnica, e già al liceo brilla in matematica, un anticipo del futuro ingegnere spaziale. Ma la vita ha in serbo per lui un banco di prova tremendo: la guerra, con il suo giorno più lungo, il D-Day, lo sbarco in Normandia.

6 giugno 1944, Juno Beach. Doolan sbarca tra fuoco e acciaio, guida i suoi uomini attraverso un campo minato, mette a tacere due cecchini, ma quando cala la notte, viene centrato da fuoco amico: sei proiettili. Quattro lo straziano alla gamba, uno gli fa saltare il dito medio della mano destra, un altro si ferma su un portasigarette d’argento: “Un regalo di mio fratello, mi ha salvato il cuore”, racconterà anni dopo, alzando le sopracciglia come a dire “la vita a volte è un lancio di dadi”.

Dopo un periodo di convalescenza, rientra in servizio come pilota d’osservazione per la Royal Canadian Artillery. Ma se ve lo immaginate pacioso e tranquillo “alla Scotty”, siete in errore: Doohan in Inghilterra, sul suo Auster Mk IV, si diverte a fare lo slalom tra i pali del telegrafo, meritandosi il titolo di “pilota più pazzo della Canadian Air Force” e un severo richiamo da parte dei superiori. A chi gli domanda perché l'ha fatto, risponde: “Per dimostrare che si può fare”.

Poi, la svolta. Un giorno, ascolta un radiodramma e dice: “Posso fare meglio.” Ci riesce, eccome. Dalla radio alla tv, fino a Star Trek: nasce Scotty, che fra serie tv e film manterrà il suo posto sulla plancia dell'Enterprise per 28 anni, dal 1966 al 1994. E non solo: Doohan sarà anche la voce di mille personaggi, l’inventore dei primi dialoghi klingon e vulcaniani, il simbolo per generazioni di giovani ingegneri. Neil Armstrong, mica uno qualunque, gli stringe la mano e gli dice: “Da un ingegnere a un altro, grazie.”

Eppure, l’episodio che più gli riempie l’anima non avviene sul set, ma quando riceve una lettera da una fan disperata, pronta al suicidio. James non esita: la chiama, la invita a una convention di Star Trek tutto spesato, e poi a un’altra e a un’altra ancora. Anni dopo riceverà una lettera: “Grazie, mi sono laureata in ingegneria elettronica.” L'ingegnere dell'Enterprise ha riparato un cuore spezzato. Nessun motore a curvatura, stavolta, solo umanità.

James muore nel 2005, e la finzione diventa realtà. Ma anche questa è un'avventura: per esaudire il suo desiderio che le sue ceneri siano lanciate nello spazio un razzo suborbitale ne porta 7 grammi in volo, ma poi rientra sulla Terra con un paracadute, come previsto. Le ceneri vengono recuperate. Nel 2008 un’altra porzione delle sue ceneri decolla su un razzo SpaceX Falcon 1, ma la missione fallisce e il razzo si perde 2 minuti dopo il lancio.

Sempre nel 2008 Richard Garriott nasconde le ceneri di Doohan sotto il pavimento del modulo Columbus e le porta di nascosto a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) durante la sua missione. L’impresa rimane segreta per anni, fino a essere rivelata da Garriott nel 2020. Infine, il 22 maggio 2012, un’urna con ciò che resta delle sue ceneri vola nello spazio a bordo di un razzo Falcon 9: missione compiuta.



sabato 21 giugno 2025

772 - UNIT 731, L'INFERNO CANCELLATO

 


Gli orrori dei lager nazisti sono in tutti i libri di storia. Ma dei fatti accaduti nella Unit 731 di Harbin, almeno altrettanto terribili e cruenti, sappiamo poco o niente. Perchè? Perché i vincitori hanno scelto lucidamente di insabbiare e cancellare l'intera vicenda.

Le cose sono andate così: nel 1936 Harbin, megalopoli ferroviaria cinese vicina al confine russo, viene conquistata dai giapponesi. Qui prende vita l'incubo quando Shirō Ishii, medico devoto alla causa dell’”armamento biologico”, trasforma un finto centro di prevenzione epidemica in un laboratorio del terrore: la Unit 731.

Per dirla in breve, un lager dove uomini, donne e bambini — in massima parte cinesi, ma anche prigionieri sovietici, coreani, occidentali — diventano “maruta”, tronchi umani da sezionare a cuore battente.

Qui si progettano oggetti di morte che si spacciano per strumenti di ricerca legittima, si mettono a punto nuove bombe antiuomo e se ne studiano gli effetti “dal vivo”, si realizzano proiettili di artiglieria carichi di batteri, si liberano pulci e topi infetti sui campi cinesi.

Qui si iniettano patogeni letali: peste bubbonica, colera, antrace, vaiolo, gangrena gassosa. Si studiano tecniche d’ipotermia, tra congelamenti e scongelamenti, per testare i limiti del corpo umano.

Si praticano gravidanze forzate e dissezioni su persone vive e anche su neonati. Alla fine, secondo le stime, le vittime saranno fra 3.000 e 12.000 tra uomini, donne e bambini.

Nel 1945, dopo la resa del Giappone, il colonnello americano Murray Sanders, microbiologo militare, sbarca a Tokyo e scopre i documenti della Unit 731. Dentro c’è la ricetta del male, lo scheletro di una scienza criminale che nessun laboratorio al mondo avrebbe potuto replicare, e tanto meno rendere pubblico.

Gli americani sono interessati alle ricerche sulle armi biologiche e ai risultati di test effettuati su esseri umani “impossibili da ripetere” e si trovano di fronte alla possibilità di ottenerli: una scelta calcolata, cinica, fredda. Entrano in scena i servizi segreti. Gli ufficiali della Unit 731, a cominciare dal generale Shirō Ishii, negoziano l’immunità per loro e per i loro collaboratori in cambio dei dati ottenuti dagli esperimenti.

Il patto viene siglato: immunità legale “a chiunque abbia dati da offrire” . Promesse di silenzio, accordi a bassa voce, pagamenti simbolici (150–200 000 yen di quell’epoca). Le testimonianze sui crimini umani vengono ritirate dal processo di Tokyo, gli ufficiali sono spediti a casa.

Non ci saranno processi (come quello di Norimberga per i nazisti) per i responsabili della Unit 731: i colpevoli vengono risparmiati. In molti avranno carriere rispettabili nel Giappone del dopoguerra, alcuni anche in campo accademico e industriale. Gli Stati Uniti classificano come segreti i documenti sui crimini della Unit 731 e evitano che le informazioni siano divulgate.

L'Unione sovietica, che aveva catturato una dozzina di ufficiali della Unit 731, li processa e li condanna nell’inverno del 1949 a Khabarovsk. Gli atti del processo, pieni zeppi di episodi raccapriccianti, vengono pubblicati e l'eco arriva in Occidente, ma vengono considerati propaganda sovietica e ignorati.

La cortina del silenzio è efficace come non mai, per 40 anni sui giornali americani non compare niente o quasi sulla vicenda. Solo nel 1999 una legge del Congresso richiede l’apertura degli archivi. Ed è come scoperchiare il vaso di pandora. Ma ormai è trascorso più di mezzo secolo, e i giochi sono fatti.

Oggi a Harbin, nel sito originario di Pingfang, esiste un museo dedicato alla memoria delle vittime dell'orrore. Testimonianze, documenti e le stesse strutture rimaste in parte intatte raccontano la storia di uno dei crimini più efferati commessi impunemente nella storia dell'uomo.





martedì 17 giugno 2025

771 - IL RAGAZZO CHE CORRESSE EINSTEIN

 


 

Un silenzio interrotto, una frase che spazza via la sacralità dell’oratore, un giovane sconosciuto che vince con il dubbio: la fantastica storia di Lev Davidovich Landau comincia così.

Comincia con un aneddoto che contiene due messaggi importanti: la grandezza inizia dove l’umiltà sa riconoscere un errore. E il sapere avanza solo quando si osa dubitare.

Estate 1930, nel caldo torrido dellla sala della Società Fisica Tedesca a Lipsia Albert Einstein, icona mondiale, avanza tra lavagne e equazioni con la grazia di un giocoliere del pensiero. Il pubblico, rapito, applaude in un silenzio sacro. Nessuno osa interromperlo.

Da un angolo buio giunge una voce giovane, timida ma ferma. Il volto è scavato, i capelli scarruffati, l’accento tedesco un po’ inciampato. Il ragazzo – appena 22 anni – contesta la derivazione dell’ultima equazione: “Servono ulteriori assunti e manca invariance…”. Un colpo nel tranquillo mare delle certezze.

Uno shock che gela la sala. Einstein, ancora con il gesso in mano, si volta, osserva la lavagna. Silenzio. Poi, lentamente, rilegge le formule. Fa una pausa lunga, gravata dall’attenzione di tutti. Infine, con gentilezza: “Lei ha perfettamente ragione. Dimentichiamo quanto detto finora”. Il genio universale si inchina all'intuizione dello sconosciuto studentello, consapevole che la scienza vive di dubbi almeno quanto di certezze.

L'intervento per Landau è il primo passo verso la leggenda. Cresciuto a Baku, studente prodigio, da Leningrado nel 1929 approda a Göttingen, Lipsia, Zurigo e Copenaghen, dove incontra Bohr, Heisenberg, Dirac. Le sue capacità intellettive non passano inosservate, così come la sua personalità affilata.

Ma è quel giorno a Lipsia che la sua giovinezza e intelligenza riescono a cogliere l’attenzione di Einstein, sancire l’impulso della curiosità e inaugurare una carriera luminosa. Landau diventa uno dei padri della fisica teorica per i suoi studi su teorica quantistica, fisica dello stato solido, neutron stars e struttura dei corpi compatti. E nel 1962 arriva il Premio Nobel per la Fisica “Per le sue teorie pionieristiche sulla materia condensata, in particolare l'elio liquido”.

Ma Landau fa parlare di se anche per il suo umorismo acuto e per il carattere anticonformista: detesta i vanitosi e i superficiali, ama il sarcasmo tagliente e non le manda a dire a nessuno, neanche ai potenti. Quando un burocrate sovietico cerca di imporgli una posizione più “utile allo Stato”, Landau taglia corto: “La fisica non si scrive su commissione. Neppure Stalin può cambiare le leggi della natura”.

Il 7 gennaio 1962, pochi mesi prima della cerimonia di consegna del Nobel, viene investito da un camion nei pressi di Mosca. Rimane due mesi in coma, con gravi danni neurologici. Non si riprenderà mai del tutto, non riuscìrà più a lavorare con la lucidità di prima e non parteciperà più attivamente alla ricerca. L'incidente fra l'altro non gli consentirà di ritirare il Nobel di persona.

Resta memorabile l'aneddoto raccontato dallo psicologo Alexander Luria durante la convalescenza di Landau: Luria gli chiede di disegnare un cerchio: lui traccia una croce. Quando gli chiede di fare una croce, lui disegna un cerchio. Di fronte allo sguardo perplesso dello psicologo che gli chiede spiegazioni, Landau risponde mostrando di non aver perso la sua consueta ironia “Se facessi quello che mi chiede, lei potrebbe pensare che sono diventato mentalmente ritardato”.

Landau muore a Mosca il primo aprile 1968, all'età di 60 anni, per complicazioni derivanti dalle conseguenze dell'incidente. Fino alla fine è assistito da colleghi e amici, ma la sua straordinaria mente si era in buona parte spenta quel giorno d’inverno del 1962.

lunedì 16 giugno 2025

770 - IL BAMBINO POCO INTELLIGENTE

 


Chi è quel bambino così sporco?”. “E' un immigrato, è arrivato da poco, sembra anche più sporco perché è scuro di pelle. Comunque non capisce niente, è poco intelligente”.

Boston, anno 1895 Lo dicono tutti, a scuola. Lo dice la maestra, con quel suo sorriso compassato che nasconde fastidio. Lo dicono i compagni, ogni volta che lo vedono arrivare con i pantaloni rattoppati e la camicia troppo grande.

Lui ha 12 anni e ha appena attraversato un oceano. Arriva da un villaggio di montagna, in Libano, dove la neve cade fitta d’inverno e l’estate odora di resina. Suo padre è finito in prigione per debiti, e sua madre ha venduto tutto per comprare cinque biglietti di terza classe per l’America, per lei e per i suoi quattro figli. Sognava la “terra delle opportunità”. Invece ha trovato muffa, sudore, freddo. E quella lingua: un vetro opaco fra loro e il mondo.

Lo hanno messo in una classe speciale per “immigrati”, un modo come un altro per dire: lasciamoli da parte. E lui si rinchiude in se stesso, Disegna. Appena può, prende una matita e traccia occhi, volti, ali. Cerca i colori anche in mezzo alla polvere.

A 15 anni torna in Libano, studia al Collège de la Sagesse a Beirut, dove affina il suo arabo, impara il francese, fonda una rivista studentesca e viene eletto “poeta del collegio”. Ma il destino due anni dopo lo riporta in America.

Nel 1902 è di nuovo a Boston. Nel giro di pochi mesi muoiono la sorella Sultana, il fratellastro Boutros, poi sua madre, tutti colpiti da tubercolosi. Solo sua sorella Marianna resta accanto a lui, e lo mantiene con il proprio lavoro. Ma la fiammella della speranza non si spegne. "Il dolore è il solco che scava l’anima per far posto alla gioia” scriverà.

E finalmente arrivano anche i giorni belli, e gli incontri giusti: un’insegnante che vede nei suoi schizzi qualcosa di sacro e in lui “un principino mediorientale, un’anima nobile intrappolata in uno stato d’indigenza”; un editore che nota le sue parole. Una donna che ama la sua anima prima della sua grammatica.

E la sua voce si fa chiara, potente eppure dolce come un sussurro. Scrive in arabo, poi in inglese. Scrive di libertà, d’amore, di solitudine, di figli che non sono nostri ma “figli e figlie della sete della vita”. Le sue parole attraversano secoli, guerre, matrimoni, funerali.

E nel 1923 pubblica Il Profeta, destinato a diventare un vangelo laico, letto e recitato da generazioni. Sarà tradotto in più di cento lingue, venderà più di 100 milioni di copie, oggi nelle classifiche del New Yorker è la terza opera poetica più letta della storia, dopo Shakespeare e Lao Tzu.

Già, il ragazzino sporco, quello con la pelle troppo scura per l’America bianca, anglosassone e protestante, quello con la lingua troppo arida per la scuola, quello poco intelligente, si chiama Kahlil Gibran.

Poi la vita fa il suo corso, fama e benessere non riescono a vincere la partita contro la tubercolosi e lo spettro dell'alcolismo. Gibran muore a New York a 48 anni nel 1931. La salma verrà riportata nella sua Bsharri, che non ha mai smesso di amare, e tumulata nel monastero di Mar Sarkis. Sul sepolcro si legge “Io sono vivo come voi, e sto qui accanto a voi. Chiudete gli occhi e guardatevi intorno: mi vedrete davanti a voi.”


venerdì 13 giugno 2025

769 - IL SEGRETO DI RICHARD "TWO GUN"

 


 

Richard James “Two-Gun” Hart aveva due Colt e un cappello Stetson sempre in testa. Un pistolero del vecchio west, di quelli che stanno dalla parte dei buoni. La prima sorpresa è che era nato in Italia. Ma vi premetto che non sarà l'unica.

Richard nasce ad Angri in provincia di Salerno nel 1892, primo di 9 figli. Cresce a Brooklyn tra gli odori del salone di barbiere del padre, ma a 16 anni lascia la metropoli per le vaste praterie del Midwest . Qui il giovane scopre il circo, lavora come facchino e domatore di cavalli e si appassiona alla mitologia western.

Ammiratore di William S. Hart, stella del cinema muto, adotta il suo cognome, si spoglia dell’accento italiano e si rifugia nel mito: stivali col tacco, speroni, due Colt con impugnature d’avorio e sguardo da sceriffo. E impara a sparare con entrambe le mani. Da qui il soprannome “Two Gun” Hart.

Dopo il primo conflitto mondiale si insedia a Homer, Nebraska, sposa Kathleen Winch nel 1919 e nel 1920 avvia la sua carriera come agente federale del proibizionismo. Qui mette a frutto la sua perizia da tiratore: le cronache dell’epoca parlano di incursioni notturne, sequestri di alambicchi e bottiglie, decine di arresti (fra i quali almeno 20 ricercati per omicidio), tanto da essere definito “un loose cannon”, una scheggia impazzita .

Nel 1926 viene nominato agente speciale del Bureau of Indian Affairs, e opera nelle riserve indiane combattendo il contrabbando tra i nativi. In occasione di una visita del presidente Coolidge alle Black Hills del 1927, gli viene affidato il servizio d’onore con protezione presidenziale. Insomma, è un personaggio, quando entra nel saloon, la gente si sposta di lato: un uomo tutto d’un pezzo, dalla morale incisa nella roccia.

Ma un giorno, durante un inseguimento, un uomo rimase ucciso. Lo processano per omicidio colposo. Viene assolto, ma perde il posto al Bureau, e in seguito anche il lavoro da marshal per aver rubato dei viveri da una drogheria. Era la Depressione. Era l’America degli uomini che cadono senza rumore.

Negli anni Trenta entra in contatto con due dei fratelli che non vedeva da decenni. Ma della famiglia non parla mai volentieri. Si è costruito un’identità tutta sua, ed è deciso a portarla fino alla tomba. Ma nel 1951 ci si mette di mezzo il destino: lo chiamano a testimoniare al processo per evasione fiscale di Ralph, uno dei suoi fratelli.

Richard si presenta in tribunale a Chicago. L’aula è piena. L’aria sa di sudore, carta bollata e sigarette. Le porte si aprono e la gente stupita vede entrare “un uomo alto, dritto come un pioppo secco, col cappello Stetson calcato sulla fronte e gli stivali che risuonano sul parquet come tamburi in marcia”.

Il giudice lo squadra dall’alto in basso: “Nome?” “Richard James Hart”. “Professione?”. “Ex agente federale. Proibizionismo, Bureau of Indian Affairs, forze di polizia tribali. In pensione”. Poi risponde secco a un paio di domande del pubblico ministero. Che a un certo punto con un mezzo sorriso lo guarda fisso negli occhi e chiede: “Signor Hart... è vero che il suo nome di nascita non è quello che ha appena dichiarato?”.

Una pausa. Silenzio. Il giudice alza un sopracciglio. Richard si toglie il cappello. E risponde a testa bassa: “Mi chiamo James Vincenzo Capone. Sono il fratello maggiore di Ralph, l'imputato. E anche di Alfonso, più noto come Al Capone.

L'aula esplode, i giornalisti scattano in piedi, il giudice batte il martello tre volte: uno dei più noti agenti del west, flagello di contrabbandieri e assassini a cavallo è un Capone! Suo fratello è Scarface, il terrore di Chicago!

In quegli anni il ricordo di Al Capone è ancora vivissimo. Il boss dell'impero criminale che negli anni Venti ha messo a ferro e fuoco Chicago, incastrato nel 1931 solo grazie all'accusa di evasione fiscale, si è fatto 11 anni di carcere, poi si è ritirato nella sua villa in Florida dove è morto per un ictus nel 1947.

Richard, che non ha più rivisto il fratellino più piccolo lasciato a Brooklyn e ha appreso dai giornali della sua carriera criminale, conclude la sua testimonianza, si rimette il cappello in testa, esce senza dire una parola con lo sguardo dritto come la canna della sua Colt.

Non gli è bastato fuggire da New York lontano da ogni ombra mafiosa, in cerca di un destino diverso da quello che aspettava i suoi fratelli. Non gli è bastato cancellare il suo nome e fabbricarsi una vita da eroe del west. Il passato lo ha ritrovato.

Il giorno dopo la sua storia è su tutti i giornali. Il pistolero ammirato dalla brava gente del west, il famoso “Two-gun Hart” è il fratello di Scarface. Neanche un anno dopo morirà d'infarto a Homer, Nebraska, la città dove aveva scelto di vivere. Riposa nel cimitero locale. Il nome sulla lapide è Richard J. Hart.





mercoledì 11 giugno 2025

768 - IL TRIANGOLO


 
 

Questa è la storia di tre vite intrecciate dalla musica. Dentro c’è tutto: amore, soldi, desiderio, amicizia, successo, cocaina, tradimenti e la fortuna di vivere insieme un’epoca irripetibile.

Nel 1964, George Harrison è uno dei Beatles, e ho detto tutto. Pattie Boyd, invece, una delle tante giovani modelle inglesi con la frangetta alla Jean Shrimpton e il fascino fresco di Carnaby Street. Si incontrano sul set di *A Hard Day’s Night*. Lui le chiede di uscire quel pomeriggio stesso. Lei rifiuta: “Ho un fidanzato.” Risposta che farà solo accelerare le cose. Due anni dopo, sono marito e moglie.

 Il matrimonio inizia sotto i riflettori, ma scivola presto dietro le ombre lunghe del successo. George è già... tutto: chitarrista amato, mistico curioso, beatle silenzioso. Ma anche fragile, introverso, sfuggente. Quando nel 1968 si innamora del sitar e dell'arte di Ravi Shankar, si porta a casa anche il bisogno di silenzio, digiuni e meditazione. Pattie, invece, si ritrova spesso sola. “George era lunatico. Un giorno parlava di Krishna, il giorno dopo si faceva di cocaina,” scriverà nella sua autobiografia.

Ma al tempo stesso George nel 1969 scrive “Something”, una delle sue canzoni più celebri e amate, proprio per Pattie. La canzone è un inno all’amore, dolce e sincero, ed è una vera dichiarazione in musica.

Intanto, nel cerchio delle amicizie, compare Eric Clapton. All’inizio è solo un altro genio della chitarra. Poi diventa il migliore amico di George. Le cene a Friar Park, la villa immensa e misteriosa acquistata da Harrison, si fanno più frequenti. Clapton suona in salotto, Pattie ascolta. Clapton si innamora in silenzio. E nel 1970 le scrive una lettera firmata soltanto con una "E".

Pattie racconterà di aver pensato si trattasse di un fan ossessivo. La lettera - venduta all'asta nel 2024 da Christie’s per 107.000 sterilne - dice: “Vorrei chiederti se ami ancora tuo marito o se hai un altro amante. Tutte queste domande sono molto impertinenti, lo so, ma se nel tuo cuore c'è ancora un sentimento per me... devi farmelo sapere!”. 

Quello stesso anno, Clapton pubblica “Layla and Other Assorted Love Songs” con i Derek and the Dominos. Layla – lo dirà lui stesso in più interviste – era per Pattie. E' una dichiarazione, una supplica, un urlo struggente di desiderio e sofferenza, ispirato a un’antica storia d’amore raccontata nel poema persiano “Layla e Majnun”. Clapton ci mette dentro quel senso di lotta interiore tra l’amicizia e l’amore impossibile, la speranza e la disperazione.

Il triangolo è ormai palese. Quando Clapton gli confessa di amare sua moglie, George gli risponde imperturbabile: “Allora prenditela. Io l’avevo solo presa in prestito”. Aneddoto vero? Difficile dirlo. Philip Norman, nella sua biografia *George Harrison: The Reluctant Beatle*, la riporta con la giusta dose di ironia e ambiguità. “Con quei tre, non sai mai dove finisce la verità e dove comincia la leggenda,” dice a Rolling Stone. 

Pattie non nasconde i sentimenti che Clapton le suscita, ma resta con George anche dopo che lui ha saputo della relazione, e il matrimonio continua per un bel po’. E' un triangolo delicato. Clapton e Harrison continuano a essere amici, anche se con una lunga serie di “non detto” che pesano sul loro rapporto.

Il matrimonio va avanti fino al 1974, ma i due non sono più una coppia, e anche George si dà da fare: “Un giorno lo sorpresi a letto con Maureen Starkey” racconterà Pattie a The Guardian. Maureen è la moglie di Ringo. E Harrison non si scompone, le sorride e dice: “Non significa niente”. 

Nel 1977, dopo tre anni di separazione, Pattie divorzia da George e sposa Eric. “Ero in cerca di amore. Ma mi bastò poco per accorgermi che anche Eric aveva bisogno di aiuto,” scriverà lei. Alcol, gelosia, dipendenze, e poi il tradimento: il secondo matrimonio è anche più difficile del primo. Nel 1989, il secondo divorzio.

Oggi Pattie vive serena con il marito Rod Weston. Ha messo all’asta lettere, foto e memorie, di George e di Eric. Non per rancore, ma – come ha detto in un'intervista – “Perché sono oggetti che hanno fatto il loro tempo. Ora che altri se ne prendano cura.” 

Ma se I suoi ricordi li ha venduti (a caro prezzo), a noi ha lasciato il regalo più bello: “Something” e “Layla”, due storie d'amore create solo per lei.




775 - LA DIMENTICANZA

Quanti giorni può sopravvivere un uomo senza bere né mangiare?Non esiste una risposta certa. I medici parlano di tre giorni senz’acqua, fors...