mercoledì 30 luglio 2025

791 - LA DONNA CHE TORNO' DALLA MORTE


 

Nel 1724, Maggie Dickson fu impiccata nella pubblica piazza e data per morta. Ma poco dopo, il coperchio della bara cominciò a muoversi... Questa non è una leggenda: è la vera storia della donna che vinse la morte e costrinse la giustizia a fermarsi.

Margaret “Maggie” Dickson nasce intorno al 1702 a Musselburgh, cittadina di pesca vicino a Edimburgo. Giovanissima sposa un pescatore, ma ben presto lui scompare — probabilmente arruolato forzatamente nella Royal Navy — lasciandola sola e con due bambini da mantenere.

Nel 1723 trova lavoro come domestica in una locanda a Kelso, dove avvia una relazione col figlio del padrone e, pochi mesi dopo, rimane incinta. Lei tiene segreta la gravidanza e partorisce prematuramente. Il bambino nasce morto, o forse muore poco dopo, e Maggie abbandona il corpicino sulla sponda del fiume Tweed.

Qualcuno la vede e la denuncia. L'arrestano con l' accusa di aver causato la morte del figlio o quantomeno di aver tentato di occultarne il cadavere. La perizia porta alla condanna a morte per infanticidio pubblico.

Il 2 settembre 1724 Maggie viene impiccata nella Grassmarket di Edimburgo, alla presenza, com'è d'uso, di migliaia di spettatori.

Narra la leggenda che i parenti di Maggie sotto il patibolo litighino con gli studenti di medicina che reclamano il suo giovane corpo dopo la morte per fare i loro esperimenti (la facoltà di Medicina a Edimburgo sarà istituita solo due anni dopo, ma il mercato dei cadaveri era una realtà consolidata).

Fatto sta che, se lite c'è stata, devono averla avuta vinta i parenti, perché Maggie, staccata dal capestro dopo aver penzolato a lungo, viene dichiarata morta da un medico, e il suo corpo viene messo in una bara di legno per esser riportato a Musselburgh per la sepoltura.

A metà del tragitto, presso Duddingston, i necrofori decidono di fare una sosta per bere una birra alla Sheep Heid Inn, ma quando scendono dal carro sentono dei rumori uscire dalla bara. Il coperchio comincia a muoversi e loro, spaventati, lo scostano con cautela.

E scoprono che Maggie è viva: muove le mani, respira, e dopo un’ora esce dalla bara. Di fronte a un nutrito gruppo di astanti che la seguono a bocca aperta si rimette lentamente in piedi, prova a camminare e dopo qualche passo saluta e si avvia per tornare a casa.

Già, perché secondo la legge scozzese dell’epoca, avendo già “scontato” la condanna con l’impiccagione, questa non può essere nuovamente eseguita: il reato cessa con l’applicazione della pena. Solo in seguito si stabilirà di aggiungere alle sentenze la formula “until dead”, fino a che morte non sopraggiunga, per evitare futuri casi simili.

Il giorno dopo, della resurrezione della Dickson parla tutta la Scozia, e lei diventa “Half Hangit Maggie”. Vivrà serenamente altri circa 40 anni, si sposerà di nuovo e avrà numerosi figli.

Oggi, nella Grassmarket di Edimburgo, si può bere una birra al “Maggie Dickson’s Pub”, col luogo esatto dove avvenne l’esecuzione segnalato da una targa e dall’ombra del patibolo disegnata sul pavimento.


venerdì 11 luglio 2025

790 - LE TOMBE DEI RE MAGI

 


Il cuore di Milano nasconde uno dei misteri più affascinanti della storia. Non è il sacro Graal, ma quasi: la tomba dei re magi. O meglio, una delle due tombe.

Nella basilica di Sant’Eustorgio c'è un antico sarcofago vuoto, troppo grande per essere ignorato, troppo pesante per essere dimenticato. Tutto comincia lì. Ma prima bisogna fare un salto indietro fino al 1162.

L’imperatore Federico I Hohenstaufen – per tutti, Barbarossa – rade al suolo la città, colpevole di aver osato sfidarlo. Ma tra le rovine non trova solo macerie: trova anche un tesoro spirituale che vale più dell’oro. Le reliquie dei Re Magi.

Quei resti, secondo la tradizione medievale, erano arrivati a Milano secoli prima. Nessun documento ufficiale, ma la voce correva forte: le ossa dei Magi, i misteriosi sapienti d’Oriente giunti a Betlemme guidati da una stella, erano lì da tempo, custodite nella chiesa più antica della città.

E qui il racconto si fa più nitido. Due anni dopo la distruzione, nel 1164, le reliquie vengono ufficialmente trasferite a Colonia, in Germania, per volere dell’arcivescovo Rainaldo di Dassel, fidato di Barbarossa. Non un furto notturno, ma un gesto politico e simbolico: Colonia diventa centro di pellegrinaggio, la nuova custode dei Magi.

Ma chi erano davvero questi Magi? Storicamente, forse sacerdoti persiani, astrologi zoroastriani o sapienti dell’Est, ricordati nel Vangelo di Matteo ma mai nominati né contati. I loro nomi – Gaspare, Melchiorre, Baldassarre – compariranno solo secoli dopo. Quel che è certo è che attorno a loro si è costruito un culto, e le loro reliquie – vere o ritenute tali – avevano un peso enorme per la fede medievale.

A Milano resta solo il sarcofago. Gigantesco, vuoto, simbolico. Ma la storia non finisce qui. Nel 1904, l’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari riesce a ottenere da Colonia una piccola parte di quelle reliquie: due peroni, un’ulna e una vertebra. Tornano a casa. Un frammento del viaggio si chiude, dopo quasi otto secoli.

E se i Magi un tempo fecero chilometri e chilometri seguendo una stella, le loro ossa hanno fatto un viaggio ancora più lungo, costrette a seguire le tortuose scie del potere, tra fede, guerre e diplomazie. Per finire in due tombe: una riccamente dorata nel Duomo di Colonia, l’altra muta e imponente, in una chiesa di Milano.

789 - LA CHIOCCIOLA GIGANTE


 

C’è chi giura che è un fake, chi l’ha vista fotografata accanto a una bambina e ha gridato alla mutazione genetica, chi ha sentito dire che può uccidere un uomo col solo contatto.

Tutte maldicenze: la povera chiocciola gigante africana, per quanto imponente e straordinaria, è vittima di una mitologia digitale che ingigantisce — è proprio il caso di dirlo — ogni sua caratteristica.

In realtà si chiama *Lissachatina fulica*, proviene dall’Africa orientale e il suo guscio raramente supera i 20 centimetri. Ma bastano una mano piccola, un’inquadratura ravvicinata e un po’ di voglia di sensazionalismo per trasformarla in una leggenda social. Niente di tutto questo è reale. Sì, può impressionare, ma è pur sempre una lumaca.

Ermafrodita e insaziabile, depone centinaia di uova e si adatta facilmente a ogni ambiente. Proprio per questo è considerata una delle specie invasive più pericolose al mondo: devasta orti, mangia carta, intacca muri alla ricerca di calcio.

È anche un potenziale vettore del *parassita della meningite eosinofila*, ma solo se ingerita cruda o manipolata senza igiene. Di letale, insomma, ha solo l’indifferenza umana che l’ha portata fuori dal suo habitat.

Non è un animale domestico, anche se qualcuno l’ha trasformata in pet esotico. Non è radioattiva, né gigante oltre ogni logica. È solo una sopravvissuta. Una viaggiatrice senza passaporto, trasportata per errore — o per ignoranza — da un continente all’altro. Ma lei non se ne cura: cammina lenta ma inarrestabile, lasciando dietro di sé una scia di equivoci e verità da ristabilire.

788 - IL MEDICO MALEDETTO

 


Aveva mani piccole e precise, da orafo. Eppure non forgiava metalli preziosi, ma conservava fegati, cuori, bile e frammenti di cervello umano come fossero cammei.

Efisio Marini nasce a Cagliari nel 1835, e già da ragazzo, nei laboratori dell’università di Pisa, sussurra ai cadaveri: "Io vi salverò dal tempo". La sua formula — gelosamente custodita fino alla morte — non mummifica, non essicca. Pietrifica.

Ma il corpo, dopo il trattamento, resta morbido, con la pelle intatta e il colore simile a quello della vita. Una pietra che sembra carne, una carne che ha smesso di marcire. Marini ha creato l’illusione dell’immortalità organica. E ci riesce già nel 1861, quando mostra al pubblico un braccio umano pietrificato, iniettando un misterioso liquido nelle vene.

Tornato in Sardegna, cerca di insegnare la sua tecnica all’università. Ma la cattedra non arriva mai. La scienza ufficiale lo snobba, la gente comune ha paura di lui. A Bonaria, però, alcune famiglie gli affidano i corpi dei loro bambini morti. Vogliono che restino belli come quando vivevano. E lui li accontenta, come un artista del lutto. Ma la città borbotta: lo chiamano “su duttori malu”, il medico maledetto.

Allora parte per Napoli. Più tollerante, più caotica, più pronta ad accogliere un visionario. Lì trova lavoro come assistente all’Anatomia Patologica, e comincia a costruire la sua collezione: mani, piedi, intestini pietrificati, raccolti in ampolle o sistemati come suppellettili. Fa scalpore la notizia che è riuscito a pietrificare il piede di una mummia egizia: lo porta all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, dove è ammirato anche da Napoleone III.

Un giorno dona a Garibaldi un medaglione contenente il suo stesso sangue pietrificato. Il Generale, colpito, lo definisce “più artista che scienziato”. E in effetti, per Marini la dissezione è arte. In casa sua, a Napoli, riceve visitatori offrendo vino e una vista sul suo tavolino decorato con un fegato pietrificato.

Ma nonostante le onorificenze — perfino la Legion d’Onore francese — muore povero e dimenticato nel 1900. Con lui spariscono per sempre le sue formule per pietrificare. Non le ha mai pubblicate, né ha lasciato appunti completi. Nessuno decifrerà mai con certezza come facesse.

Oggi, nel Museo Anatomico di Napoli, si possono ancora vedere le sue creazioni. E a Sassari è custodita la celebre "mano di donna", perfetta, fragile, marmorea: una reliquia laica.

787 - LA CITTA' DELL'OSCURITA'


 

C’è un posto a Hong Kong, dove la densità umana fino a pochi anni fa superava ogni immaginazione. Una città nella città, un alveare di cemento e lamiere chiamato Kowloon Walled City. In poco più di due ettari vivevano oltre 33.000 persone. Un record: 1 milione e 270mila abitanti per chilometro quadrato.

Nessun luogo sulla Terra è mai stato tanto stipato. Eppure non è sempre stato così. Nato come presidio militare della dinastia Qing, il fortino di Kowloon sopravvive alla colonizzazione britannica grazie a una svista diplomatica: formalmente cinese, ma di fatto terra di nessuno. Dopo la seconda guerra mondiale, migliaia di rifugiati si riversano fra le sue mura, approfittando del vuoto legale. E da lì in poi è anarchia.

Senza controlli, senza polizia, senza un criterio urbanistico, la città cinta da mura cresce in verticale: oltre 300 edifici attaccati uno all’altro, fino a 12 piani, spesso senza fondamenta né luce solare. La colonna sonora è il rombo degli aerei in arrivo o in partenza dal vicinissimo aeroporto di Hong Kong, il celebre Kai Tak Airport, noto per i suoi atterraggi mozzafiato tra i palazzi, che sarà chiuso nel 1998.

Dentro le mura, un labirinto di cunicoli, tubature colanti, scale anguste e cavi volanti. Al piano terra, traffici di ogni genere: oppio, gioco d’azzardo, bordelli, cliniche dentistiche abusive, fabbriche illegali di spaghetti e carta da sigarette. A governare, per un periodo, sono le Triadi. Poi, lentamente, anche in quel caos si formano equilibri, e perfino comunità: scuole, botteghe, templi, un piccolo sistema postale.

Ma la fama di “città dell’oscurità” – come la chiamano i locali – è ormai impossibile da cancellare. Negli anni Ottanta, con l’approssimarsi del ritorno di Hong Kong alla Cina, Londra e Pechino decidono di intervenire. Dopo lunghi negoziati e trasferimenti forzati, la demolizione parte nel 1993. Un anno dopo, della città murata non resta che polvere.

Oggi, al suo posto, c’è il Kowloon Walled City Park. Tranquillo, ordinato, attraversato da vialetti curati e padiglioni tradizionali. Qualcosa resta: la South Gate, la Yamen, frammenti di mura. E soprattutto le targhe coi nomi delle vecchie strade, come strani fantasmi di cemento.

Chi passeggia qui oggi non può neanche immaginare che, proprio sotto i suoi piedi, una volta vivevano come sardine 33.000 persone: gente come noi, con i suoi sogni, le sue paure, le sue speranze in un domani migliore soffocate in un'area grande come quattro campi di calcio.


mercoledì 9 luglio 2025

786 - IL SOLDATO SEMPLICE

 


L’ho immaginato più volte, Jean Thurel. La schiena diritta come le sue convinzioni, un uomo tutto d'un pezzo, di quelli che sembrano nati già in uniforme, scolpiti nel dovere e temprati dal silenzio.

Il suo destino ha dell’incredibile: visse 109 anni e servì il re di Francia per 75. Ma non come ufficiale da scrivania. No. Sul campo di battaglia, sempre, come semplice fante.

Thurel nasce nel 1698 a Orain, in Borgogna, entra nei ranghi del Reggimento di Turenna a 18 anni, nel 1716. Da lì in poi non abbandonerà mai il passo regolare del soldato: marcia e combatte sotto tre re e due rivoluzioni, e sopravvive a tutto.

Al suo primo scontro, l’assedio di Kehl nel 1733, prende un colpo di fucile al petto. Ferita netta, cattiva. Lui si fa estrarre il proiettile senza anestesia e torna a combattere.

Nel 1747 riceve l’unico rimprovero della carriera: durante l’assedio di Bergen rimane isolato dal plotone. Scala le mura da solo e si unisce all’assalto dall’interno. Riceverà una nota di biasimo: colpevole d’iniziativa.

Sessantunenne, a Minden nel 1759, gli toccano sei colpi di sciabola, nessuno mortale. Si salverà anche dal nemico più spietato di ogni soldato di quell'epoca, la cancrena. Di quei giorni conserverà non una medaglia, ma una ragnatela di cicatrici.

Meno fortuna di lui hanno tre suoi fratelli, caduti a Fontenoy nel '45, e suo figlio, disperso al largo della Guadalupa nella battaglia navale delle Saintes. Lui continua a marciare. Anche a 89 anni, nel 1787, quando il reggimento gli offre un carro. Rifiuta: “Mai usata una carrozza in vita mia, non comincerò ora”.

Quando i capelli sono bianchi già da tempo, lo riceve Luigi XVI che gli concede una pensione e tre medaglie di merito (caso rarissimo). Nel 1804, ormai ultracentenario, Napoleone lo vuol conoscere. E gli offre finalmente una promozione. Lui scuote la testa: "Mon général - dice - est mort à Fontenoy". Come dire: no grazie, il mio generale, che era un graduato, è morto da anni. Io, soldato semplice, sono ancora vivo. Si racconta che Napoleone si sia fatto sfuggire uno dei suoi pochi sorrisi,

Jean Thurel muore nel 1807. Centonove anni vissuti obbedendo agli ordini come gli hanno insegnato che è dovere di ogni buon soldato. E facendo una sola cosa fuori dall'ordinario, la più difficile su un campo di battaglia: sopravvivere.

785 - I GIGANTI DELLE ALPI

 


La fotografia in bianco e nero ti lascia a bocca aperta per qualche istante, poi pensi “ok, è un fake”. Macché, i due uomini altissimi ed elegantissimi sono i fratelli Ugo (è il cognome), Battista e Paolo. La gente li conosceva con un soprannome che sa di leggenda: i giganti delle Alpi.

Piemontesi di Vinadio, nati a cavallo fra Otto e Novecento in una valle che ha il respiro della solitudine e il silenzio della neve, hanno affrontato insieme un destino straordinario e struggente, fatto di fatica, stupore e nostalgia.

Battista, il maggiore, ha spalle robuste che sembrano scolpite da Michelangelo ed è alto due metri e sessantacinque, stando alle cronache dell'epoca. Probabilmente un bel po' meno: non esistono documenti ufficiali medici o anagrafici che diano una misura precisa, che comunque dovrebbe superare i due metri e venti. L’unico oggetto conservato — uno stivale esposto oggi in vetrina da un calzolaio di Cuneo — ha una suola di 42×17 cm, che però non è sufficiente a determinare con certezza l’altezza.

Paolo è alto pochi centimetri di meno, e ha la sua stessa solida dignità, quella che i due manterranno quando il mondo li guarderà con occhi spalancati e dita puntate. Non sono mostri, e nemmeno prodigi. Sono ragazzi che si spaccano la schiena nei campi, tagliano legna nei boschi della Valle Stura e si adattano a una vita dura come la roccia.

Finché un giorno un impresario francese conosce Battista e vede in lui molto più che un boscaiolo: vede il biglietto per riempire i tendoni e le sue tasche. Così ingaggia i due fratelli e comincia il viaggio. Prima la Francia, poi l’Europa, infine l’America dove li scrittura nientemeno che Barnum & Bailey.

I due fratelli, ribattezzati Baptiste e Paul Hugo, che suona più esotico, diventano attrazioni internazionali da side show. Li si può vedere in varie immagini, in smoking accanto a gente di tutte le età che li guarda dal basso in alto, o vestiti da soldati napoleonici a fiere ed esposizioni.

Ma c’è un prezzo da pagare, e non solo in franchi. I due fratelli camminano tra gli sguardi curiosi come dentro una vetrina. E se da un lato possono inviare soldi a casa, dall’altro la loro vita si va consumando in una dolce prigione fatta di lustrini e solitudine.

Con i soldi guadagnati comprano una casa a Maisons-Alfort, alle porte di Parigi, che sembra fatta apposta per due Gulliver; lo fanno per lasciar fuori dalla porta dubbi e tristezze, ma la nostalgia delle montagne, quella non ci riescono a tenerla fuori.

Nel 1914 Paolo muore di polmonite fulminante. Ha appena 26 anni. Battista lo seguirà due anni dopo, solo e stanco, in un ospedale di Manhattan. La diagnosi è difterite, ma il New York Times scrive che è morto di nostalgia per l’Italia. E forse non è retorica.

Oggi due statue coloratissime li ricordano a Vinadio, una rosa shocking, l’altra verde mela. Sembrano giocattoli giganti. Le ha realizzate nel 2012 l'artista scozzese David Mach, di forma tubolare spiraliforme; bizzarre e visivamente impattanti, sembrano una versione extra slim dell'omino Michelin. La gente si ferma a guardarle a bocca aperta. Non credo gli sarebbero piaciute.


martedì 8 luglio 2025

784 - LA PENNA E LA SPADA

 


Il sonno della ragione genera mostri. Lo sapeva bene Erika Mann, la donna che ebbe il coraggio di schierarsi contro quei mostri per tenere acceso il lume della ragione quando il mondo sembrava averlo smarrito.

Erika nasce nel 1905 a Monaco di Baviera, in una famiglia dove l’intelligenza è pane quotidiano e la cultura una seconda lingua. Condivide col fratello Klaus un’irrequietezza fatta di teatro, viaggi e provocazioni. Insieme fondano una compagnia sperimentale, recitano testi audaci, sfidano le convenzioni con ironia e libertà. Berlino è la sua scuola, Max Reinhardt il suo maestro, il palcoscenico la sua prima arena.

Nel 1926 sposa l’attore Gustaf Gründgens, destinato a brillare nei teatri del terzo Reich, ma il matrimonio durerà poco. Il tempo di fare un giro del mondo con Klaus, e al ritorno divorzia. Intanto si è innamorata di Pamela Wedekind, già promessa del fratello, e quella strana geometria affettiva fra i tre – Erika, Klaus, Pamela – diventa una commedia esistenziale in un’epoca sempre più tragica. Ma la recita più pericolosa deve ancora cominciare.

Nel gennaio del ’32, durante una lettura pacifista, le SA fanno irruzione tra il pubblico. Fischi, insulti, oggetti lanciati. Erika non si piega. Ha già iniziato a scrivere articoli infuocati contro l’ascesa del nazismo, dal suo studio situato accanto alla sede del partiito nazionalsocialista di Monaco, un paradosso che dice molto sul suo coraggio.

Quando Hitler sale al potere, lei è tra le prime scrittrici inserite nella lista degli "autori degenerati". Il suo bersaglio più diretto? Bernhard Rust, ministro dell’Istruzione del Reich, teorico di un’educazione al servizio del fanatismo. Rust vuol trasformare la scuola tedesca in una fabbrica di nazionalisti, inventa persino una settimana scolastica di otto giorni – sei di studio, uno di lavoro fisico, uno di riposo – un’idea tanto ridicola quanto fallimentare. Epura libri, vieta autori non tedeschi, predica una purezza culturale tanto delirante da risultare indigesta perfino a Goebbels.

Erika lo attacca frontalmente nel suo libro *Scuola per Barbari*, pubblicato nel 1938. Denuncia la colpa della Repubblica di Weimar, che aveva lasciato le menti dei giovani in balia della propaganda, senza prepararli alla difesa della democrazia. Scrive: “Non abituato all’autogoverno, il popolo tedesco si sottomise a uno Stato che si fece padrone e costrinse il popolo a esserne servitore”.

Rust fa tradurre ogni suo articolo. Erika lo sa e rilancia: “Di questo infimo ometto, nella cultura non resterà nulla se non cavilli”. Una profezia destinata ad avverarsi. Dopo la fine del Reich Rust si toglie la vita. L’unica sua traccia sopravvissuta sarà riforma ortografica, proposta nel 1944 e ripresa nel 1996 – un’impronta minuscola, dimenticabile.

Erika, invece, continuerà a scrivere, a viaggiare, a parlare in pubblico, a battersi per la libertà. Nel 1935, quando restare in Germania significa rischiare la vita, si trasferisce a Londra, dove sposa per avere la cittadinanza il poeta W\.H. Auden, omosessuale anche lui, che le offre aiuto e protezione. Trascorre gli anni successivi tra l’Europa e gli Stati Uniti, accanto al fratello Klaus fino alla sua tragica morte, sempre in prima linea contro ogni intolleranza.

Muore nel 1969. Solo allora molti comprenderanno davvero chi fosse: non solo la figlia di Thomas Mann, uno dei più grandi scrittori del novecento. Non bastava quel nome a definirla. Perché se Rust ha lasciato dietro di sé il nulla, Erika – come suo padre – ha lasciato in eredità all’umanità una voce limpida, una lezione di coraggio, e una fede incrollabile nella dignità della cultura.


domenica 6 luglio 2025

783 - LO ZOO UMANO

 

 

Avete presente “Il pianeta delle scimmie”, con gli esseri umani in gabbia per il divertimento di primati evoluti? Beh, poco piu' di un secolo fa nel cuore della civilissima europa accadeva qualcosa del genere:

A Parigi, nel Bois de Vincennes, tra erbacce e silenzi spezzati solo dal gracchiare dei corvi, è possibile visitare il Jardin d’agronomie tropicale, che ai primi del novecento fu teatro di una delle pagine più vergognose della civiltà occidentale: lo zoo umano.

Anno 1907, la Ville lumière ospita l’Esposizione Coloniale, una gigantesca messa in scena della potenza imperiale francese. Un milione di visitatori, tra maggio e ottobre, sfilano davanti a capanne in stile africano o asiatico, dove esseri umani – uomini, donne e bambini – vengono mostrati come attrazioni esotiche.

Sono indocinesi, marocchini, malgasci, sudanesi, congolesi. Portati a Parigi per "rappresentare" le proprie culture, ma trattati come animali in gabbia. L'organizzazione è meticolosa: villaggi ricostruiti nei dettagli, usanze simulate per il pubblico borghese, performance orchestrate con tamburi e danze così da dare un sapore più “autentico” allo spettacolo coloniale.

Un evento unico? Macché, solo il più eclatante. Da Londra a Bruxelles, da Amburgo a Oslo, e fino a Chicago o Tokyo, l’epoca d’oro degli zoo umani attraversa il mondo tra il 1870 e il 1930. Circa un miliardo di persone, secondo le stime più attendibili, visitano queste “esposizioni etnologiche”.

Alcuni dei “campioni” – come li chiamano – sono pagati, è vero, ma la maggior parte sono deportati con l’inganno o presi direttamente nei territori occupati. E molti non torneranno mai a casa: muoiono per malattie, stenti o nel circuito infernale dei circhi coloniali.

Oggi, nel Jardin d’Agronomie Tropicale René-Dumont, l’erba alta inghiotte le ultime vestigia di quel passato. Il giardino, gestito dal Comune di Parigi, dal 2006 è tornato visitabile.

Fra serre coloniali e flora tropicale sono ancora visibili la porta cinese, il ponte khmer, il ponte tonkinois, l’Esplanade du Dinh con il portico vietnamita, urne funebri imperiali, i padiglioni restaurati di Indocina e Tunisia. Altri padiglioni (Marocco, Réunion, Guyana) sono parzialmente o totalmente in rovina. Ci sono monumenti in memoria dei soldati coloniali e delle truppe africane .

Ma sono pochi a varcarne i cancelli. Forse perché in un silenzio irreale i sentieri in rovina, gli edifici diroccati coperti dal muschio, le persiane rotte che si aprono su architetture consunte raccontano senza parole una verità scomoda: che anche l’Europa delle luci, del progresso e delle rivoluzioni ha i suoi scheletri nell'armadio. E che in tempi non lontani è stata capace perfino di chiamarli spettacolo.






 
 
 

782 - L'IMPRONTA SUL MARE

 


C’è un fazzoletto di terra nell'Adriatico che porta inciso il segno dell’uomo come un palmo segnato dalla vita dura.

Si chiama Baljenac, ed è uno di quei luoghi che si raccontano meglio con le immagini che con le parole. E dall’alto, quell’isola di appena 0,14 chilometri quadrati è un’impronta digitale incisa nel mare.

Siamo a una decina di chilometri dalla costa di Sebenico, nella Croazia centrale. Il mare qui è punteggiato da oltre mille isole, ma questa non è solo un’isola: è un disegno umano. Un mosaico. Un labirinto.

Sulla sua superficie minuscola si snodano 23 chilometri di muri a secco. Non strade, non sentieri: muri. Costruiti sovrapponendo pietre, senza calce né legante, come si è fatto per secoli nel Mediterraneo.

La storia – quella certa, documentata – ci dice che furono i contadini dell’isola vicina di Kaprije, nel XIX secolo, a colonizzare Baljenac per coltivarci ulivi e viti. Per proteggerli dal vento, per delimitare ogni fazzoletto di terra, tirarono su pietra dopo pietra, senza immaginare di creare un’opera che oggi i droni fotografano con stupore. Ma alcuni muretti, più antichi, lasciano pensare che mani ignote abbiano iniziato prima.

L'isola di Baljenac è quella con la maggiore concentrazione, ma queste reti di muri si trovano anche in alcune isole vicine. Si stima che 300 contadini abbiano costruito 106 km di muri su una superficie di 12 km² in tutto l'arcipelago circostante. La testimonianza muta di come, a volte, l’uomo non distrugge, ma disegna, e lascia la sua impronta di pace e di lavoro.


781 - IL MECCANISMO FUORI DAL TEMPO





Ultimi giorni del 1900, un gruppo di pescatori di spugne dell’isola di Simi, in Grecia, ripesca dalle profondità del tempo una strana scatola piena di rotelle e ingranaggi. E dà vita ad un enigma ancora non del tutto risolto.

Quel giorno nelle acque di Anticitera è Elias Stadiatos che riporta su quel reperto di bronzo verdastro, corroso da secoli di abbandono che si rivelerà il cuore spezzato di un congegno antico quanto l’ambizione umana. Lo chiameranno il Meccanismo di Anticitera. Solo decenni dopo si capirà cos'è: una macchina capace di misurare il tempo e i cieli.

Una calcolatrice astronomica, larga quanto un libro e spessa quanto un mattone, composta da decine di ingranaggi dentati, tutti connessi, tutti armonizzati. Risale al secondo o forse al primo secolo avanti Cristo, all’epoca in cui Roma espandeva il suo impero e la Grecia sembrava aver già detto tutto ciò che aveva da dire.

Incredibilmente, per anni viene ignorato, rimosso dalla teca del Museo Archeologico di Atene, catalogato come un pezzo “da fondo”. E' solo grazie a Derek de Solla Price, fisico inglese, che il meccanismo riceve l’attenzione che merita.

A partire dagli anni Cinquanta, con pazienza ossessiva, Price lo studia, lo fotografa ai raggi X, cerca modelli e analogie. Conclude che l'oggetto è troppo avanti per la sua epoca, che il mondo non vide niente del genere nei secoli successivi alla sua costruzione, almeno fino ai meccanismi degli orologiai di Norimberga.

Cosa sappiamo oggi dopo oltre un secolo dal ritrovamento, dopo anni di studi meticolosi con tecnologie sempre più sofisticate, analisi a raggi X, tomografia 3D e modellazione meccanica?

Sappiamo che il meccanismo è composto da una complessa serie di ingranaggi in bronzo contenuti in una cassa lignea (oggi perduta). Si tratta di ingranaggi epicicloidali e differenziali, tecnologie che si credevano apparse solo nel tardo Medioevo. La loro presenza nel II o I secolo a.C. è a dir poco sorprendente.

Sappiamo che il dispositivo serviva a calcolare le fasi lunari e le posizioni del Sole e della Luna, a prevedere le eclissi, a segnalare i cicli di Venere e Saturno, ad allineare i calendari lunare e solare in un ciclo di 19 anni, ad indicare le date dei Giochi Olimpici e altri eventi panellenici. Il tutto in quel minuscolo teatro meccanico.

Cosa invece non sappiamo del Meccanismo di Anticitera? Ancora oggi, nessuno sa con certezza chi lo abbia progettato né a cosa servisse. Era un dono? Uno strumento didattico? Un simbolo di prestigio per aristocratici? Un calendario astronomico portatile?

Si stima che il meccanismo completo contenesse oltre 60 ingranaggi, ma ne sono stati recuperati solo 30. A cosa servivano quelli perduti? Anche le ipotesi sulle funzioni planetarie sono ancora controverse. Circa 3.500 caratteri greci sono stati decifrati sul meccanismo, ma si pensa che in origine ve ne fossero oltre 15.000. Molte frasi sono parzialmente leggibili o ambigue, alcuni dettagli sulle funzioni del congegno sono ancora ipotetici.

Infine non sappiamo la risposta all'enigma più grande di tutti: il livello di miniaturizzazione e precisione meccanica è talmente avanzato che non esistono altri oggetti simili noti nell’antichità. Nessuna catena di trasmissione tecnologica è documentata: è un'invenzione isolata nel suo tempo. È come se ci fosse un’intera civiltà tecnologica perduta, o almeno una filiera artigianale d’élite della quale non è sopravvissuto nient’altro.

Insomma, il meccanismo di Anticitera sembra essere troppo avanti per esser stato concepito e compreso dai contemporanei. Questo è il vero mistero per gli uomini del terzo millennio.

(Nella foto, sopra il meccanismo originale, sotto una recente ricostruzione in 3D)





venerdì 4 luglio 2025

780 - MANGIATORI DI ARGILLA


 

Ci sono colline nel sud degli Stati Uniti dove la terra si lascia mordere. Bianca come il latte versato, liscia al tatto, con un odore che pare di pioggia appena caduta. La chiamano kaolin, oggi è solo un minerale, un tempo era conforto, era abitudine. Era fame.

Ho trovato la storia in un documento medico del 1852. Pare che a metà ottocento di mangiatori di argilla ce ne fossero parecchi. La chiamavano white dirt, e la tenevano in tasca come altri tengono il tabacco. Ne staccavano piccoli pezzi, li inumidivano con un fazzoletto e li masticavano piano. “Fa bene allo stomaco”, diceva qualcuno. “Ti riempie quando non c’è niente da mettere sotto i denti”, diceva qualcun altro.

La pratica, ereditata dalle donne africane deportate nei campi del Sud, era sopravvissuta anche fra i bianchi più poveri. In certe contee la geofagia era quasi un rito, una forma di resistenza domestica alla fame e alla miseria. Il caolino veniva usato per alleviare disturbi gastrointestinali, per integrare minerali o semplicemente per abitudine o piacere tattile.

Ai medici dell’epoca non piaceva né poco né punto, parlavano di pance gonfie, denti consunti, anemia, stitichezza. Alcuni racconti esageravano: famiglie intere che si nutrivano solo di argilla, pelli giallastre, morti precoci e miasmi che allontanavano persino i becchini. Invenzioni, certo. Ma nella leggenda c’è spesso un fondo di verità.

Chissà cosa penserebbero quei medici del fatto che ai giorni nostri il caolino è usato in alcuni medicinali da banco, come ad esempio antidiarroici, in cosmetici e maschere per il viso, talvolta anche come additivo alimentare (l'E559).

Ah, un'ultima cosa: se vuoi sapere che sapore ha, ancora oggi nei mercatini rurali in Georgia o in Alabama, nel Mississippi o nel South Carolina, puoi trovare chi vende palline bianche che se non le conosci le scambi per vecchi biscotti. Donne anziane le annusano prima di assaggiarle. Se ti capita di vederle non ti mettere a ridere. Quella che un tempo per loro è stata fame, oggi è continuità, è tradizione, è parlare un linguaggio più vecchio del nostro sapere.



779 - LA FOTO DI EDITH

  

Edith Piaf nel pieno dell’occupazione nazista ha cantato per i prigionieri francesi in un campo di prigionia tedesco, e grazie a una fotografia è riuscita a farne evadere non meno di 118.

La grande cantante francese, ospite del comando nazista, dopo il concerto per i compatrioti in catene ha chiesto e ottenuto di fare una foto di gruppo con loro. Tornata a Parigi, ha fatto ritagliare uno per uno quei volti per incollarli su documenti falsi. Nella tournée successiva li ha portati di nascosto al campo e con la scusa di fare autografi ha consegnato a ciascun prigioniero la propria via di fuga.

Un bel film. Ma è tutto vero? Diciamo che questa è la versione rilanciata e amplificata dai social. E allora cosa è avvenuto davvero? Riavvolgiamo il nastro.

Anno 1943, la Francia è spezzata in due e Parigi cammina a testa bassa tra rastrellamenti e fame. Edith Piaf, che è già una celebrità, sale su un treno diretto a Berlino. Viaggia con la sua segretaria, Andrée Bigard. Non è un viaggio di piacere. Deve cantare per i prigionieri francesi dello Stalag III D. L’invito è arrivato tramite i canali ufficiali tedeschi: un concerto per sollevare il morale dei connazionali deportati.

La Piaf accetta. Sottolinea che va solo per loro. Canta Mon légionnaire e L’Accordéoniste davanti a centinaia di uomini in divisa logora, in un cortile spoglio, nel gelo di dicembre. Alla fine dello spettacolo chiede un favore: una foto con i prigionieri. Una foto di gruppo tutti insieme. Il comando tedesco, colpito dalla fama e dal fascino della diva, acconsente.

Tutto questo è certo: la foto fu scattata. E fu riportata a Parigi. È da lì che diventa difficile distinguere la realtà dalla leggenda. Lo scatto affidato a una stamperia clandestina della Resistenza, i volti dei prigionieri ingranditi uno a uno per costruire documenti falsi, la cantante che torna allo Stalag III D con i documenti nascosti in una valigia col doppio fondo e poi li passa ai prigionieri mentre distribuisce autografi. Detta così, è fantascienza.

Nella realtà, è certo che Piaf durante l'occupazione aiuta colleghi e amici ebrei, come Marcel Blistène che nasconde anche a casa sua e come il compositore Norbert Glanzberg, Michel Émer, Youra Guller. E la storia della foto? Circola già pochi anni dopo la guerra, i documenti falsi sono stati realmente prodotti, e secondo molte fonti ci sarebbe stato un tentativo parzialmente riuscito di far fuggire alcuni prigionieri, spacciandoli per membri della troupe di Piaf.

Detto questo, le cifre non tornano: c'è chi parla di 12 fuggitivi, chi di decine, chi, i più, di 118, chi di 170. La stessa Piaf racconterà la vicenda alla stampa con un misto di orgoglio e pudore, senza entrare troppo nei particolari. Fatto sta che nessuno tra coloro che sarebbero evasi si è mai fatto avanti per confermare, né ci sono testimonianze dirette di chi sarebbe fuggito con quei documenti falsi. Biografi autorevoli come Robert Belleret e Carolyn Burke mettono in dubbio la portata reale del salvataggio, pur non escludendo che qualcosa sia effettivamente avvenuto.

Di certo Edith, il “passerotto di Francia”, non è mai stata una collaborazionista: dopo la guerra il Tribunale dell’Épuration la prosciolse da ogni accusa. Non fu mai arrestata né processata. Sottolineò di essere stata costretta a partire per Berlino, e che aveva cantato solo per i prigionieri.

Quel che resta, al di là delle molte incertezze, è una fotografia. In mezzo a uomini stanchi, con lo sguardo verso l’obiettivo, c’è Edith. Un po’ piegata in avanti, le mani sulle ginocchia, un sorriso appena accennato. Non sembra la Piaf da copertina. Sembra una donna qualsiasi in mezzo ad altri uomini qualsiasi. In quella foto c'è la verità. Tutto il resto è la storia che la Francia ha voluto raccontare a sé stessa.

778 - LO SCIOPERO DEGLI STRILLONI

 


New York, estate 1899. L’odore di piombo tipografico si mescola a quello della polvere e del sudore, mentre i passi rapidi di centinaia di ragazzini attraversano i marciapiedi della città che non dorme.

Hanno otto, dieci, dodici anni, i vestiti strappati, la voce spezzata e le mani che sanno già di fatica. Li chiamano newsboys, strilloni. Col berretto a coppola calato e la lingua tagliente, li vedi spesso a piedi scalzi, quasi sempre affamati.

Sono loro che urlano i titoli a pieni polmoni, che fermano i passanti, rincorrono gli uomini in giacca, cravatta e cappello alla lobbia per vendere una copia del World o del Journal.

E in quel luglio torrido sono loro a bloccare l’ingranaggio, a fermare la stampa. A piegare due colossi, Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst, i magnati dei giornali più potenti d’America.

I newsboys lavorano duro e non hanno alcuna tutela. Comprano un mazzo di cento copie a 60 centesimi – prezzo maggiorato dai tempi della guerra ispano-americana – e devono rivenderle a un cent ciascuna, sotto il sole e fino a notte fonda. Se restano copie invendute, sono perdite. E nessuno ti rimborsa, neanche se hai otto anni e una gamba sola.

Da tempo chiedono una riduzione di 10 centesimi al costo del pacco di giornali. Nessuno li ascolta, nessuno li protegge. E quel 18 luglio i ragazzini decidono di agire. La scintilla scocca a Long Island, quando un fattorino del Journal dopo una lite si rifiuta di consegnare il pacco. I newsboys lo affrontano, rovesciano il carro, si prendono i giornali.

Il giorno dopo, Manhattan si sveglia con un sindacato di bambini. Migliaia. Cinquemila in tutto. Riuniti a Irving Hall, gremito fino all’ultimo scalino. Parlano, discutono, si danno un’organizzazione.

Non è uno sciopero qualsiasi, è una marcia silenziosa e scatenata guidata da scugnizzi con nomi da romanzo: Kid Blink, Racetrack Higgins, Crutchie Morris, Young Mush.

Kid Blink, occhi storti e voce da predicatore, arringa la folla urlando con tutta la voce che ha: “Quei dieci centesimi valgono più per loro che per noi? Se non li possono perdere loro, come possiamo noi?”.

I newsboys si muovono in branco, attaccano i vagoni pieni di copie, lanciano frutta marcia ai crumiri, svuotano secchi d’acqua sui venditori che non aderiscono allo sciopero. Ma con un codice d’onore: “Nessuno bagni una donna”, ordina Kid Blink. E nessuno lo farà.

All'inizio la stampa parla di una buffonata. Poi qualche giornale – il Telegram, l’Evening Sun – inizia a simpatizzare con gli scioperanti, pubblicano editoriali in loro favore. I ragazzi fanno un gesto che li rende leggenda: distribuiscono volantini con su scritto: “Boicottate il World e il Journal. Se siete con noi, non comprateli, non leggeteli. Senza di noi, i milionari non guadagnano un cent”.

E la città si schiera. Hearst e Pulitzer – che si erano arricchiti a suon di titoli scandalistici e fake news ante litteram – vedono il disastro. Le vendite calano. Il World passa da 360.000 a 125.000 copie in pochi giorni. Gli inserzionisti si ritirano. La gente smette di leggere i due giornali incriminati. Le rotative girano inutilmente.

Lo sciopero dura due settimane. Alla fine, Pulitzer e Hearst accettano di negoziare. Il prezzo resta a 60 centesimi, ma con una novità rivoluzionaria: i giornali invenduti potranno essere restituiti. Niente più notti a urlare “Extra! Extra!* per non perdere tutto. I newsboys hanno vinto.

E non solo la loro battaglia: Lewis Hine, fotografo del National Child Labor Committee, immortalerà i loro visi stanchi e fieri. Quelle foto fanno il giro del Paese, e accendono i riflettori sulle condizioni dei bambini lavoratori.

Kid Blink – al secolo Louis Ballatt – sparisce nell’anonimato, probabilmente muore giovane. Ma l'eco del suo grido di protesta, più potente di un titolo a nove colonne, lo senti ancora oggi, se ascolti bene, mentre sfogli le pagine di un giornale.

giovedì 3 luglio 2025

777 - LA MUSA INQUIETANTE

 


A Città del Messico, quando il sole cade a picco su Avenida Insurgentes e i passi della gente fanno eco tra le ombre lunghe del pomeriggio, qualcuno ancora ricorda quel nome come un sussurro ribelle: Nahui Olin. Ma pochi sanno che dietro quel nome, che in lingua nahuatl significa “movimento perpetuo”, “forza cosmica” c’era una donna in carne e sogni: Carmen Mondragón.

Nata nel 1893 in una famiglia di élite – figlia del generale Mondragón, l’uomo che brevettò l’omonimo fucile automatico – Carmen cresce tra Parigi e Città del Messico. Parla cinque lingue, suona il piano, studia arte. Ma soprattutto, rifiuta ogni forma di gabbia.

Bella di una bellezza luminosa, due occhi verdi in un volto che lo vedi una volta e non lo dimentichi più, la sua sola presenza basta a mettere in subbuglio i caffè letterari della capitale.

Tornata in Messico all’inizio degli anni Venti, lascia il marito, un pittore basco tradizionalista, dopo aver scoperto che la tradisce. E' allora che Carmen muore, e nasce Nahui Olin. Una donna nuova, tutta da inventare, con un'unica certezza: non vuol più chiedere permesso a nessuno.

Diventa musa e amante del pittore Dr. Atl (Gerardo Murillo), uno dei padri del muralismo messicano. Le sue forme entrano nei quadri come colpi di pennello violenti, carnali. Ma Nahui non è solo un corpo da idolatrare: scrive poesie impudenti, dipinge donne nude senza vergogna né veli, filosofa sulla libertà femminile quando il termine "femminismo" ancora non ha alcun senso nei salotti borghesi.

Sarà compagna di ribellione di Modotti, di Siqueiros, di Diego Rivera. E sarò lei – non Frida – la prima a spezzare il binomio “o musa o artista”. Sarà entrambe. Fino all’eccesso.

Amerà molto, e molto sarà amata. Ma sempre a modo suo. Scriverà: “L’amore che ho vissuto non me lo può togliere nessuno, neppure tu”. Neppure la morte. Neppure la follia.

Quando il dottor Atl la lascia, qualcosa in lei si incrina. Continua a dipingere, a scrivere, ma le sue opere vengono ignorate. Muoiono uno a uno i suoi amori, i suoi compagni di rivoluzione, i suoi ideali.

Negli anni '50 si aggira come un fantasma nei giardini di Chapultepec, parlando da sola tra le aiuole, vestita ancora coi fiori nei capelli. Nel 1961 il poeta Homero Aridjis si ferma per strada davanti a una stracciona che vende per pochi centavos vecchie cartoline: due occhi verdi in un volto che lo vedi una volta e non lo dimentichi più. Sulle cartoline una ragazza giovane, bellissima e nuda. Nessuno la riconosce. Nessuno, tranne lui.

Carmen Mondragón muore nel 1978, sola e dimenticata. Nahui Olin, la forza cosmica, il movimento perpetuo, donna libera, artista irregolare, fiamma pura e travolgente, continua a vivere.

776 - IL FIUME SOTTO IL DESERTO

 


Nel cuore arido della Persia 2700 anni fa antichi ingegneri costruirono un capolavoro di ingegneria idraulica: un fiume sotterraneo lungo oltre 33 chilometri. E quel fiume scorre ancora oggi.

Si chiama Qanat di Gonabad il sistema sotterraneo che si allunga sotto il deserto per 33.113 metri, collegato alla superficie da 427 pozzi. Costruito fra il 700 e il 500 a.C, continua a fornire l'acqua a circa 40 000 persone anche ai giorni nostri.

Scavato con una pendenza dolce, il Qanat intercetta falde d’acqua montane e sfrutta la gravità per farla fluire senza l'ausilio di pompe. I pozzi verticali, distanziati ogni 20–30 metri, servono per evacuare materiale, ossigenare l’aria e permettere la manutenzione. Alcuni superano i 300 metri di profondità, con il pozzo principale che raggiunge circa 360 metri.

Ma la meraviglia non s’arresta qui. Già nel V secolo a.C. – e giù fino al 328 a.C. –, vengono infatti introdotti singolari strumenti di “giustizia idrica”: gli orologi ad acqua, detti fenjān. Un boccale con un minuscolo foro galleggia in una vasca; appena pieno, affonda: è il segnale temporale per misurare l’erogazione equa tra gli agricoltori . Da sempre la figura del mirʾāb, il custode del fenjān, è altamente rispettata: conta ogni immersione in un edificio predisposto.

Questo equilibrio tra scienza e diritto agrario avrà effetti straordinari: deserti spettrali si tramutati in campagne rigogliose e città come Yazd, Isfahan, Kashan, e soprattutto Gonabad, che per secoli hanno prosperato grazie a queste risorse. E fin dai tempi di Dario I chi costruiva o restaurava un qanat godeva di esenzioni fiscali per cinque generazioni.

Le strutture del Qanat di Gonabad sono talmente equilibrate da permettere, in certe stagioni, di sfruttare il flusso sotterraneo per raffreddare le abitazioni attraverso antichi sistemi di raffreddamento passivo . Alcune zone – come Turpan in Cina o le foggara nordafricane – hanno ripreso questa tecnologia, ma senza mai raggiungere l’estensione e la complessità persiana originaria.

Oggi, il sistema è riconosciuto patrimonio Unesco ed è oggetto di studio per chi cerca soluzioni sostenibili in ambienti estremi . Più che un reperto archeologico, è un corridoio di vita sotto il deserto, un esempio di sapienza antica che continua a operare, silenziosa e potente, in armonia con la natura.



812 - L'AQUILA E IL LEONE

  “ Fatti non foste a viver come bruti”: Dante spinge Ulisse oltre le Colonne d'Ercole, ed è subito mistero, ignoto, poesia....