domenica 5 ottobre 2025

841 - IL NONNO DEI BEATLES


 

Ha visto nascere il treno a vapore e il telegrafo, ha vissuto sotto la regina Vittoria ed è corso nei rifugi per evitare le bombe tedesche su Londra. Eppure, a 100 e più anni, John Mosley Turner ascoltava i Beatles alla radio e si emozionava cantando Yesterday e Eleanor Rigby.

Turner nasce nel 1856, in piena epoca vittoriana, e lavora come tagliatore di tessuti di seta, uno di quei mestieri d’officina che odorano di fatica e sacrificio. Vive a Tottenham, assistito da una figlia, e a 73 anni perde la vista e trova nella musica la sua finestra sul mondo.

Non ha mai bevuto un bicchiere di birra né fumato un sigaro, e forse anche per questo arriverà a spegnere 111 candeline: il primo britannico documentato a superare quel traguardo, e per due anni l’uomo più vecchio della Terra.

Arrivano gli anni della “swinging London”, e lui, che ascolta ogni giorno la radio, scopre quel gruppo di ragazzi di Liverpool, e diventa il più vecchio dei loro fan. La stampa inglese, nel giugno del 1964, lo racconta con titoli pieni di tenerezza: “Swinging at 108”, scrive il Daily Herald; “The Beatle fan is 108”, gli fa eco il Daily Mirror. Lui, che fin da bambino ha lavorato 12 ore al giorno, dichiara: “I giovani d’oggi sono fortunati: possono ballare e divertirsi. Noi no, noi potevamo solo lavorare”.

E così, cieco ma sorridente, passa i pomeriggi accanto alla radio, battendo il ritmo con la mano nodosa. Forse non capisce tutte le parole, ma ne percepisce la gioia, la libertà, quella spinta nuova che scuote l’Inghilterra come un vento che soffia su un mare in bonaccia.

Quando la televisione comincia a trasmettere i volti dei Fab four, chiede che gli raccontino come sono fatti: “Sono giovani, eleganti, pieni di vita”, rispondono. E lui si mette a ridere: “Be’, è giusto così”.

Muore nel marzo del 1968, nei giorni in cui esce “Hey Jude”. Ha attraversato due secoli, due guerre mondiali, i fasti di un Impero e le miserie delle periferie dickensiane, e se ne va a 111 anni canticchiando “She Loves You”.


840 - NAPOLI SUL MAR NERO


 

Dalle pendici del Vesuvio alle sponde del mar Nero. La città di Odessa nacque dal sogno di un napoletano al servizio della zarina.

E' il 1794 quando José de Ribas — Giuseppe per i suoi amici d’infanzia ai Quartieri Spagnoli — sbarca su quel tratto di costa battuto dal vento del Mar Nero. Quello che trova lì è una vecchia fortezza ottomana e un pugno di capanne tatare. Ma Josè porta con se la luce del Golfo di Napoli, e i suoi occhi vedono un porto dove gli altri non vedevano che sabbia e steppa.

In quell'anno Caterina la Grande ha deciso di spingere l’impero russo verso il sud, di conquistare mari e rotte. De Ribas, ufficiale di collegamento con il principe Potëmkin, ha l’incarico di dare vita a una città.

E la inventa, letteralmente. Traccia strade, banchine, magazzini, e per darle un’anima sceglie un nome mitologico, “Odessos”, poi trasformato in “Odessa” per volere della zarina — “più femminile”, disse, “più degno di una perla sul mare”.

In pochi anni, la città nuova diventa un crocevia di lingue e commerci, un laboratorio di modernità. Arrivano greci, armeni, francesi, e soprattutto gente del regno delle due Sicilie: mercanti, musicisti, cuochi, artigiani.

Francesco Frapolli, architetto e ingegnere, napoletano anche lui, disegna porti e arsenali, palazzi e teatri. Le vie risuonano di accenti mediterranei, e lungo l’attuale “Italian Boulevard” non si può non notare la parlata partenopea, il gesto largo dei napoletani, il profumo di caffè e di mare.

A metà Ottocento gli italiani sono ormai migliaia, una piccola colonia nel cuore dell’impero russo. Poi, con i decenni, il loro numero si assottiglia, generazione dopo generazione il sangue si mescola con quello del melting pot della “città aperta” sul mar Nero. Ma di certo a Odessa per molti anni si è respirata l'aria di Napoli.

Tanto che, secondo molte fonti, nel 1898, in una stanza affacciata sul porto, Eduardo di Capua, in tournée col padre violinista, guardando l’alba sul mare avrebbe composto le prime note di “O Sole Mio”.

sabato 4 ottobre 2025

839 - CADUTA LIBERA


 

Lo so, questa storia è ai confini della realtà. Ai confini, e non oltre, perché è accaduta davvero. Un aereo in volo, un’esplosione, 27 morti. E una hostess che sopravvive alla caduta libera più alta mai registrata senza paracadute: 10.160 metri.

Vesna Vulović nasce a Belgrado nel 1950, sogna Londra, i Beatles e i viaggi. Decide così di diventare assistente di volo per poter vedere il mondo. Inizia con entusiasmo la sua esperienza sui voli di linea, fino a quel 26 gennaio 1972.

Cominciamo a dire che lei non ci sarebbe neanche dovuta essere sul volo JAT 367: è lì per un errore di nome, (un'altra assistente di volo che si chiama anch'essa Vesna), una confusione di turni. Il destino l’ha scelta. All'inizio è un po' contrariata, ma poi vede che l'aereo fa scalo a Copenaghen, e lei in Danimarca non c'è mai stata. Così non dice niente, e sale sulla scaletta.

Nel vano bagagli, in una valigetta, è nascosta una bomba, che esplode a 10.000 metri di altezza. L'aereo in fiamme precipita, tanti passeggeri vengono sbalzati fuori, ma non la hostess, che resta intrappolata dentro un pezzo della fusoliera, con la schiena bloccata da un carrello portavivande.

L’impatto con il suolo è ammortizzato dalla neve e dagli alberi, ma quello che salva Vesna è proprio il carrello, che le si incastra contro la colonna vertebrale, e la tiene aderente alla struttura dell’aereo creando una sorta di gabbia protettiva.

L'aereo cade vicino a Srbská Kamenice, in Cecoslovacchi. I primi soccorritori la trovano in mezzo a tanti corpi senza vita, straziati e dilaniati; il rosso del sangue ricopre la sua divisa turchese. Un contadino che era stato medico durante la guerra si accorge incredulo che respira. E la tiene in vita fino all'arrivo dei soccorsi, mentre i presenti sussurrano attoniti una sola parola: miracolo.

Vesna si risveglia all'ospedale di Praga dopo giorni di coma, con gambe, bacino, vertebre e cranio fratturati. E' paralizzata dalla vita in giù. Ma piano piano, dopo mesi di interventi e grazie a quella testarda volontà che lei chiama “la mia cocciutaggine serba”, le gambe ricominciano a muoversi. Unica conseguenza fisica, camminerà per tutta la vita zoppicando.

Non le resta invece alcun ricordo dell'incidente. E non ha paura di tornare a volare. Vorrebbe riprendere il suo lavoro, ma la Jat Airways le assegna un incarico d'ufficio. Intanto in Jugoslavia è quasi un'eroina: viene ricevuta da Tito e la sua storia è immortalata in una canzone popolare. Il Guinness dei Primati ratifica il suo record: nessuno era mai sopravvissuto a una caduta simile.

Negli anni novanta si oppone a Milošević, perde il lavoro e diventa bersaglio di campagne diffamatorie. Non finisce in carcere solo perché il governo vuole evitare la pubblicità negativa che il suo arresto porterebbe. Continua a manifestare, fino alla Rivoluzione dei bulldozer del 2000, quando vede cadere il dittatore. In seguito entra nel Partito Democratico e sostiene l'ingresso della Serbia nell'Unione Europea.

Gli ultimi anni li passa sola, in un appartamento di Belgrado, con una pensione misera e il peso di un destino che ha risparmiato solo lei: "Ogni volta che penso all'incidente, provo un forte senso di colpa per essermi salvata, piango, e penso che forse non sarei dovuta sopravvivere”.

Vesna Vulović muore a 66 anni, pochi giorni prima del Natale 2016. Negli ultimi tempi aveva trovato conforto nella fede, che, come ha raccontato ai giornali, le ha fatto rileggere la sua terribile esperienza e l'ha trasformata in una persona ottimista, perché “se riesci a scamparla a ciò che è capitato a me, puoi sopravvivere a qualsiasi cosa".

giovedì 2 ottobre 2025

838 - IL TESORO DI SADDLE RIDGE


 

Non è proprio la pentola piena d'oro delle fiabe, quella che si trova in fondo all'arcobaleno, ma qualcosa che gli assomiglia parecchio.

Otto barattoli arrugginiti nascosti appena sotto il terreno di una collina. Dentro, un tesoro da far girare la testa: 1.427 monete d’oro, lucenti, intatte, come se il tempo non fosse mai passato.

È il 2013 quando una coppia californiana (nota solo come “John e Mary”), passeggiando col cane tra i sentieri della loro proprietà a Trinity County, nota una lattina spuntare dalla terra smossa. Il cane tira, loro scavano: il metallo fragile si sbriciola e lascia cadere un fiume dorato. Non uno, ma otto recipienti colmi.

Il ritrovamento, battezzato “Saddle Ridge Hoard” (il tesoro nascosto di Saddle Ridge, toponimo volutamente generico e non identificabile) viene stimato dieci milioni di dollari, un valore che non sta soltanto nel metallo, ma nell’assurdità del mistero: monete emesse tra il 1847 e il 1894, molte mai circolate, custodite come in una cassaforte invisibile.

Chi le ha sepolte? E perché? Le ipotesi si sprecano: rapinatori leggendari come Jesse James, furti alla Zecca di San Francisco, complotti di società segrete. Ma nulla regge: le date non coincidono, i registri non parlano.

La spiegazione più sobria è che qualcuno, temendo crisi e banche, abbia preferito affidare il proprio oro alla terra, e poi non sia mai tornato a riprenderlo. Chissà che storia si nasconde dietro quei barattoli pieni di monete luccicanti. Di certo lo sconosciuto proprietario non immaginava che un giorno un cane avrebbe scavato in quel punto e avrebbe riportato alla luce il più grande tesoro sepolto d’America.

Oggi le monete, catalogate una per una, portano tutte l’impronta ufficiale “Saddle Ridge Hoard”. La coppia rimane anonima, comunica solo attraverso l’intermediario Kagin’s (la società numismatica che gestsceì la vendita di lotti delle monete), e ha spiegato questa scelta con motivi di sicurezza personale e di privacy fiscale e legale.

Allo stesso modo non ha mai rivelato l’esatta posizione del ritrovamento, per timore di orde di cacciatori nella loro proprieta. Per questo non è stato possibile condurre sul terreno ricerche più approfondite. E il mistero rimane.

837 - UNA LAMPADA, DUE GENI E UN AUTORE DIMENTICATO


Oggi vi racconto la fiaba di Aladino. Quella vera però, dove non c'è un solo genio, ma due; quella che non si svolge in Arabia ma in Cina, e soprattutto quella che non fa parte delle *Mille e una notte*, ma è nata molti secoli dopo dal racconto di un viaggiatore siriano.

Il mondo conosce Aladino soprattutto nella versione Disney del 1992: lampada d’oro scintillante, genio blu e principessa Jasmine. Ma la fiaba vera, quella che arrivò in Europa nel 1709, è ben diversa.

Per cominciare, la storia nelle Mille e una notte non c'era prioprio. La aggiunge il francese Antoine Galland, che aveva tradotto i 12 volumi di racconti da un manoscritto arabo del nono secolo conservato a Parigi, e li aveva iniziati a publicare nel 1704.

E Galland dove ha trovato la fiaba di Aladino? A lui l'ha raccontata, insieme a quella di Alì Babà e ad altre storie, un viaggiatore maronita di Aleppo, Hanna Diyab, nel 1709. Gailland non farà altro che appropriarsi dei racconti e aggiungerli alla sua raccolta.

Ma vediamo il testo della favola. “C’era una volta in Cina”, dice l’incipit originale, anche se in quell’antico racconto la Cina non era la Cina reale, ma una terra lontana, esotica, un oriente favoloso. Segue il ritratto del protagonista, un ragazzo scapestrato che passa le giornate a bighellonare. Si chiama ʿAlāʾ al-Dīn, che in arabo significa “Gloria della fede”, ed è cresciuto senza il padre e con una madre che fatica da mattina a sera per garantirgli un piatto caldo.

A questo punto compare il primo di tre avversari: un mago africano, che lo inganna convincendolo a scendere in una caverna per recuperare una vecchia lampada annerita. Aladino, invece, si tiene la lampada e anche un anello, scoprendo che ciascuno contiene un servitore mostruoso e potentissimo.

Due geni, non uno quindi: il primo nero come il catrame, con occhi rossi fiammeggianti, il secondo così spaventoso che la madre, al vederlo, cade svenuta. I geni possono esaudire desideri. Quanti? Non c'è un numero preciso. Anche il limite dei tre desideri è un'aggiunta moderna, nata nelle versioni cinematografiche.

Nell'originale non esiste, basta che i desideri siano compatibili con i poteri delle entità. Così al genio dell’anello Aladino chiede solo di poter uscire dalla grotta in cui è rinchiuso, mentre il genio della lampada soddisferà desideri vari (cibo, ricchezza, palazzi, spostamenti, protezioni, vendette).

Con i loro aiuti, Aladino riesce a sposare la figlia del sultano, la principessa Badroulbadour (“Luna delle lune”, e non Jasmine) e a sconfiggere un secondo rivale, il figlio del gran visir. Ma non è finita: il mago torna per riprendersi la lampada, e dopo di lui giunge il fratello, assetato di vendetta, travestito da guaritrice. Uno dopo l’altro cadranno, vinti dall’astuzia del ragazzo e dalla forza dei suoi spiriti. Così Aladino diventa sovrano e governa con giustizia, accanto alla sua principessa.

Una favola meravigliosa, come anche quella di Alì Babà. Eppure il vero autore, Hanna Diyab, non ha mai ricevuto compensi né un riconoscimento ufficiale, ed è morto ad Aleppo come un uomo qualunque. Ma se si scava sotto la patina dei cartoni e dei remake, resta l’eco di quella voce siriana che tre secoli fa, consegnò all’Europa un racconto che profumava di spezie, d’incanto e di mistero.



mercoledì 1 ottobre 2025

836 - L'INCREDIBILE VIAGGIO DELLA SIGNORA BENZ


 

Un mattino d’agosto del 1888 una donna salì sulla strana carrozza a tre ruote costruita dal marito, caricò i due figli e senza chiedere il permesso a nessuno partì, destinazione futuro.

Bertha Benz ha 39 anni quando decide che è tempo di smettere con i tentennamenti e di far parlare i fatti: quell’aggeggio rumoroso non è un capriccio, ma una rivoluzione, e lo vuol dimostrare al mondo .

Senza dir nulla al marito Carl, alle prime luci dell'alba va in officina e sale sulla nuova carrozza a motore che lui ha costruito due anni prima, vi carica i figli Eugen e Richard e parte da Mannheim, in Germania, in direzione di Pforzheim, dove vive sua madre.

Sono quasi cento chilometri di strade sterrata, senza mappe, senza segnali, accompagnata dagli sguardi diffidenti dei passanti in un mondo che non sa ancora cos'è un’automobile.

Carl aveva brevettato il suo “Patent-Motorwagen” due anni prima, ma esitava a metterlo alla prova in pubblico, per prudenza e per paura del ridicolo. Bertha, con l’intuito delle donne che vedono più lontano, capisce che quella macchina deve dimostrare la sua utilità non davanti a ingegneri e investitori, ma lungo la strada, in mezzo alla gente.

Così inizia l'avventura; orientarsi non è facile, non c'è certo il navigatore satellitare, così segue quando possibile i binari ferroviari e il corso del Reno; il suo veicolo ha ruote di legno e un motore monocilindrico da 2,5 cavalli di potenza. Ogni buca un rischio, ogni salita un’impresa.

E le difficoltà non si fanno attendere. A Wiesloch scarseggia la ligroina (il solvente utilizzato come carburante) e lei si ferma in una farmacia e “fa il pieno”, creando così la prima stazione di servizio della storia. Sulle salite più ripide chiede aiuto ai contadini del posto che spingono la vettura insieme ai figli, e prende nota della necessità di rapporti di cambio adeguati.

Quando il carburatore si intasa, lo pulisce liberando il condotto con lo spillone del suo cappello; poco dopo un filo elettrico si scopre e rischia di mandare in corto circuito l’accensione, e lei ferma l'auto e, senza alcun attrezzo, improvvisa: prende una delle sue giarrettiere di tessuto elastico, la avvolge intorno al filo danneggiato e isolandolo con una sorta di guaina protettiva.

Più avanti a Bauschlott si accorge che l'uso dei freni in discesa li consuma rapidamente, allora si ferma da un calzolaio e fa rivestire il pattino di legno con strisce di cuoio, dando vita di fatto al prototipo delle moderne pastiglie.

Quando i tre arrivano esausti a Pforzheim, sono passate 12 ore; quello che hanno compiuto è il primo viaggio extraurbano della storia in automobile: 104 chilometri su stradette polverose.

E il marito? La attende a casa preoccupato; ma ha anche capito che senza quella prova di coraggio la sua invenzione sarebbe rimasta un capriccio da officina. Il colpo di teatro di Bertha l’ha trasformata in un mezzo per vivere e viaggiare.

Tutti i giornali ne parlano, e l’impresa convince investitori e clienti della solidità del progetto Benz. In seguito Carl dichiarerà: “senza quel viaggio la mia invenzione non avrebbe mai avuto successo”.

Oggi gli automobilisti del terzo millennio percorrono la Bertha Benz Memorial Route, un itinerario turistico di circa 194 km che segue il tragitto andata e ritorno da Mannheim a Pforzheim, creato per ricordare una donna intraprendente che con un pizzico di audacia, una giarrettiera e uno spillone mise in moto il futuro.


martedì 30 settembre 2025

835 - LA DONNA DEL BOSCO


C'era un volta una ragazza che dormiva con una lince nel letto, passava le giornate con un corvo ladro e considerava una scrofa di nome Żabka la sua migliore amica. Sembra l'inizio di una fiaba, invece è tutto vero.

Simona Kossak ha vissuto per trent'anni nella foresta, ne ha fatto il proprio tetto e il proprio specchio. Non era una bizzarra eremita né una turista in cerca di avventure esotiche, ma una scienziata che ha scelto di passare la vita in una casa senza luce né acqua corrente, nascosta tra i faggi e le querce millenarie di Białowieża, in Polonia.

Simona nasce nel 1943 in una Cracovia occupata dai nazisti. Il suo è un cognome importante, racconta di una stirpe di pittori, poeti e scrittori. Lei, invece, preferisce fin da bambina tele di muschio e pennellate di vento.

Dopo aver terminato un brillante corso di studi di biologia all’Università Jagellonica e aver iniziato a lavorare presso l’Istituto di Ricerca sui Mammiferi, nei primi anni settanta, quando non ha ancora compiuto 30 anni, fa la scelta che cambierà la sua vita. Si trasferisce nella casa forestale di Dziedzinka, in mezzo alla foresta primordiale di Białowieża (oggi patrimonio dell'Unesco), al confine tra Polonia e Bielorussia.

Da sola? All'inizio sì, ma negli anni successivi Lech Wilczek deciderà di condividere la sua scelta e di essere suo compagno di vita nel bosco. E poi, attorno a lei, come una moderna Biancaneve, si raduna una piccola corte di zampe, piume e zanne.

La scrofa Żabka, raccolta cucciola, vivrà al suo fianco per 17 anni, fedele come un cane e orgogliosa di rubarle il posto sulla sedia. La lince Agatka, cresciuta a Dziedzinka, divide con lei persino il letto. E Korasek, il corvo cleptomane che sottrae cucchiai e monili a chissà chi e li porta in dono alla padrona, trasformando la capanna in un bazar di oggetti smarriti. Accanto a loro passano cervi e volpi, tassi e civette: la porta non è mai chiusa, il confine fra casa e foresta non esiste.

Il paese vicino la chiama “la strega del bosco”: non perché lanci incantesimi e sortilegi, ma perché per la gente è davvero capace di conversare con gli animali. La verità è più semplice e più rivoluzionaria: Simona ascolta. Guarda. Rispetta. Non studia la natura da una scrivania, la abita. Lavora all’Istituto di Ricerca sui Mammiferi e poi all’Istituto Forestale, ma il suo laboratorio è il sottobosco, la sua biblioteca il fruscio delle foglie.

Nonostante i riconoscimenti ufficiali — un dottorato, l’abilitazione accademica, persino la Croce d’Oro al Merito — Simona è un personaggio scomodo. Denuncia le trappole crudeli usate per catturare gli animali, si oppone ai tagli indiscriminati di alberi, non arretra davanti alle autorità forestali. Per questo è amata e temuta: una voce che non chiede permessi.

Eppure, nella rudezza di quella vita senza comfort moderni, riesce a custodire delicatezza: racconta storie alla radio, sorride ai turisti smarriti. Vive con intensità, senza maschere, fino al 2007, quando la donna del bosco se ne va e diventa leggenda. Libri, film e documentari raccontano la sua vita diversa. E lei continua a vivere nel volo improvviso di un corvo, nel passo silenzioso di un capriolo, nella luce che filtra tra gli alberi di Białowieża.



lunedì 29 settembre 2025

834 - STONEHENGE IN SVIZZERA


Sembrava solo un fondale piatto, addormentato da millenni sotto le acque quiete del Lago di Costanza. Invece, nel 2015, i sonar restituirono un’immagine che lasciò gli archeologi a bocca aperta.

Una lunga fila di colossi silenziosi, più di 200 tumuli di pietre allineati per 15 chilometri lungo il litorale del lago, a pochi metri dalla riva svizzera. Non erano capricci della natura, ma l’opera di mani umane, mani che avevano sollevato e trascinato 80.000 tonnellate di roccia. E lo avevano fatto più di cinquemila anni fa.

I giornali sono i primi a parlare di “Stonehenge svizzera”, anche se non sono grandi cerchi di pietre erette, ma cairn sommersi, enormi cumuli di sassi larghi fino a trenta metri e alti due, disposti a ritmo regolare sotto quattro metri d’acqua. Una muraglia invisibile, nascosta finché la tecnologia non l’ha smascherata.

Le prime indagini, condotte dall’Ufficio archeologico di Turgovia e dall’Università di Berna, scavano nei sedimenti e trovano prove enigmatiche: pali di legno infissi nel fondale, tagliati con asce di pietra, e resti organici datati al 3500 avanti Cristo. Dunque costruzioni realizzate in un’epoca in cui sulle rive dei laghi alpini venivano edificati i primi villaggi palafitticoli.

Che scopo avevano? E' un mistero. Forse piattaforme sacre, isolotti artificiali per onorare i morti o evocare il passaggio tra terra e acqua. Forse segni rituali, monumenti al cielo e all’acqua più che agli uomini. Alcuni indizi – come pesi da rete ritrovati in loco – parlano anche di riusi più recenti legati alla pesca. Ma la funzione originaria resta un enigma, e ogni immersione aggiunge suggestioni senza cancellare dubbi.

Certo è che quelle pietre, caricate e posate con una fatica che non possiamo neanche immaginare, resistono sotto le onde del Bodensee. La “Stonehenge svizzera” senza cerchi solenni, né megaliti in piedi, racconta ai sub che continuano le ricerche muovendosi fra quei cumuli scuri la storia di uomini che cinquemila anni fa hanno lasciato messaggi di pietra capaci di superare le barriere del tempo.




domenica 28 settembre 2025

833 - LA BELLEZZA DI TADZIO


 

Al Festival del cinema di Cannes non lo conosceva nessuno, Luchino Visconti lo presentò come “il più bel ragazzo del mondo”. Bastò un'occhiata per capire che aveva ragione.

L'anno è il 1970, lui si chiama Björn Andrésen e non è un attore consumato, né una star costruita a tavolino, ma solo un adolescente svedese di appena 16 anni che il grande regista del Gattopardo e di Rocco e i suoi fratelli ha scelto per incarnare l’angelo biondo di “Morte a Venezia”.

Da allora il suo destino si intreccerà indissolubilmente con l’immagine di Tadzio, simbolo di purezza e di desiderio, proiettato sullo schermo in tutto il mondo. Un'interpretazione eterea, quasi onirica che entra nella memoria collettiva e lo imprigiona in un ruolo non facile da sostenere.

Durante le riprese gli proibiscono di nuotare, di correre, perfino di prendere il sole: tutto deve restare intatto, immacolato. Il rapporto con il regista oscilla tra gratitudine e disagio. Gratitudine per l’occasione, disagio per un controllo che spesso lo riduce a opera d'arte da contemplare. E poi il ricordo dell’imbarazzo al provino, quando Visconti gli chiese di spogliarsi fino agli slip, e il trauma di essere trascinato in locali notturni, a 15 anni, senza capire davvero cosa stesse succedendo.

A Cannes, durante la presentazione, Visconti arriva a dire che Björn è “già troppo vecchio”: lui, timido e fragile, non capisce una parola di francese, e sorride ignaro della sottile ironia del regista che lo racconta come un magnifico toy boy.

Per quanto giovanissimo, Björn ha alle spalle un'adolescenza già segnata da ombre nerissime. Non ha mai conosciuto il padre e la madre si è tolta la vita quando lui aveva dieci anni. Cresce con i nonni, ed è la nonna a spingerlo verso il cinema, desiderosa di un nipote famoso. Ma nulla lo ha preparato al vortice che lo travolgerà dopo “Morte a Venezia”.

La vera esplosione arriva in Giappone. Lì il suo volto etereo genera un’isteria collettiva trasformandolo, di fatto, in uno dei primi teen-idol occidentali del Sol Levante: folle di ragazzine urlanti, dischi pop incisi in fretta e furia, copertine di riviste, apparizioni televisive una dopo l'altra. Racconterà in seguito che per fargli sopportare la fatica delle tournée lo riempivano di “pillole rosse”.

In quel periodo il suo volto diventa l’archetipo del *bishōnen*, il “bel ragazzo” androgino che segna un’intera stagione di manga e anime. Riyoko Ikeda, creatrice de “La Rosa di Versailles”, confermerà anni dopo che sì, Lady Oscar nacque proprio guardando Björn, fu lui a ispirarla: la bellezza maschile e femminile fuse in un solo volto, la tristezza come cifra segreta del fascino. Senza Andrésen, Lady Oscar non sarebbe esistita.

Quando poi torna a Parigi, per mesi è il beniamino dei salotti mondani, e vive in appartamenti offerti da ricchi ammiratori: poco più di un bell'oggetto da mostrare agli amici. Poi la vita va avanti, cura qualche ferita e ne apre altre più profonde. Anni dopo dovrà sopportare un altro dolore fra i più terribili, la perdita del figlio Elvin, morto a nove mesi.

Oggi, a 70 anni, Björn vive a Stoccolma, e dopo un lungo periodo di depressione e di silenzio, sembra essersi finalmente liberato di quella gabbia che lo showbusiness gli aveva costruito intorno tanti anni fa. Ha ripreso a fare musica e a recitare, si è riaffacciato al cinema con un piccolo ruloo nel film “Midsommar” di Ari Aster, e nel 2021 ha raccontato se stesso senza inibizioni nel documentario “The Most Beautiful Boy in the World”. Non per alimentare la leggenda, ma per liberarsene: un modo per esorcizzare la maledizione della “grande bellezza”.



venerdì 26 settembre 2025

832 - BRUTTO, SPORCO E CATTIVO


 

Tony Galento pareva disegnato con l'inchiostro nero di una striscia di Dick Tracy. Quando saliva sul ring, non era pugilato, era una rissa: altro che “noble art”, botte da orbi, testate e colpi proibiti.

Una vita turbolenta e senza regole, piena zeppa di episodi incredibili quella di Dominick Anthony Galento, che nasce a Orange (New Jersey) nel 1910. Cresce in strada, sempre pronto a gettarsi nella mischia senza pensare troppo alle conseguenze, e scopre presto di avere un sinistro devastante.

Di giorno fa il facchino e consegna ghiaccio e birra, di notte si presenta sul ring, spesso in ritardo e quasi sempre alticcio. La gente ride quando vede l’omone basso e tozzo, con la pancia da osteria e il fisico da scaricatore, poi smette di ridere quando mette al tappeto anche i giganti. Negli anni successivi combatte senza sosta: nel 1931 fa tre incontri in una notte.

Agli allenamenti preferisce le abbuffate, alla tecnica l'irruenza. Il suo stile sporco, grezzo e violento piace al pubblico. Il match del 1939 con Lou Nova (che rischierà di perdere un occhio) viene definito “una delle risse più vergognose” della storia.

Un ko dopo l'altro, scala le classifiche, e il 28 giugno 1939 sfida il campione del mondo Joe Louis: il pugile perfetto, l’eroe d’America. Lewis si arrabbia come mai prima nella vita per le offese continue di Galento prima e durante il match, probabilmente si scompone e al terzo round avviene l'incedibile: incassa un gancio sinistro terribile e finisce al tappeto.

Non era mai successo prima; certo, poi si rialza e vince al quarto round, ma quel ko resta nella storia della boxe, e Galento diventa famoso in tutti gli States, è “l’uomo che ha buttato giù il più grande”.

Da lì nasce la leggenda, gonfiata da giornali e bar di periferia. E lui la cavalca alla sua maniera: si allena combattendo con canguri ammaestrati, strangola Oscar, un enorme polpo nell'acquario di Seattle, si dà al cinema (interpreta fra l'altro Truck in Fronte del porto con Marlon Brando), a fine carriera passa al wrestling e combatte più volte con orsi (mettendo al tappeto “Terrible Ted”).

E poi la dieta a base di spaghetti e birra, le mangiate pantagrueliche (decine di polli, 52 hot dog) millantate prima di ogni incontro. E la storia della puzza, questa sicuramente vera: si presenta sporco apposta sul ring, per disgustare gli avversari. Max Baer dirà di lui “puzzava come un tonno marcio in una vasca di liquore”. Certo, tutti stunt pubblicitari a cavallo fra verità e leggenda. A margine però di una carriera da campione: chiuderà con 79 vittorie (57 per KO) su 112 incontri.

Tony Galento muore di infarto nel 1979, dopo anni di malattie e l'amputazione di tutte e due le gambe. Al suo funerale gli amici raccontano sottovoce il più celebre degli aneddoti su di lui, di quando qualcuno gli citò Shakespeare: “Shakespeare chi? Mai sentito. È un peso massimo straniero? Non c'è problema, lo picchio!”.

giovedì 25 settembre 2025

831 - IL PICCOLO UOMO


 

Pedro stava lì da secoli, seduto e con le braccia conserte, in attesa di qualcuno che buttasse giù la parete di roccia di quella piccola grotta.

Nelle montagne del Wyoming, a oltre duemila metri d’altitudine, nel giugno del 1934 due cercatori d’oro si aprono un varco nella caverna che stanno esplorando facendo esplodere il fondo cieco di un cunicolo. E si ritrovano in una piccola grotta, chiusa da secoli.

Al suo interno, su una sporgenza di pietra a poco più di settanta centimetri dal suolo, siede immobile una creatura mummificata, grande quanto una bambola. Sembra meditare, le braccia ripiegate sul petto, il volto rugoso e contratto.

La battezzano Pedro, la mummia delle San Pedro Mountains. Alta poco più di quindici centimetri da seduta, diventa presto leggenda. La drogheria del paese la espone in vetrina come curiosità, i cartelloni la pubblicizzano come “l’uomo più piccolo del mondo”.

Quando il rivenditore d’auto Ivan Goodman la compra, la rinchiude in una teca di vetro su base di legno e la porta in giro come un trofeo. A New York la mostra al celebre antropologo Harry Shapiro, che gli fa una serie di radiografie. Risultato, ossa complete, vertebre, cranio, costole. Non è un falso assemblato per fregare i gonzi, come si usa nei side show dei luna park, è una vera mummia.

Attorno a Pedro si accendono le più sfrenate fantasie: per molti è uno dei Nimeriga, i “piccoli uomini” maligni delle leggende native che vivono tra i monti e colpiscono a morte gli anziani malati.

Alcuni resoconti giornalistici sparano titoli a tinte pulp, raccontano di denti aguzzi e carne cruda ritrovata nello stomaco, e di fratture violente, come se fosse stato ucciso. Gli studiosi non danno peso a queste favole. La loro diagnosi parla di un neonato affetto da anencefalia, una malformazione che deforma cranio e volto fino a renderlo simile a un adulto in miniatura.

A rendere più fitto il mistero, negli anni ’50 Pedro sparisce nel nulla. Forse venduto, forse rubato, forse nascosto in qualche collezione privata: di lui restano solo fotografie ingiallite e i ricordi di chi lo vide dietro un vetro.

Qualche decennio dopo viene fuori una seconda mini mummia, “Chiquita”, stavolta mostrata in uno show televisivo; analizzata e datata al Cinquecento: la diagnosi non cambia, un altro neonato con la stessa malformazione.

Spiegazioni che non non riescono a cancellare l’aura di mistero: scienza e leggenda, razionalità e mito continuano a combattere la loro battaglia sotto lo sguardo antico di Pedro, che non è solo un reperto ritrovato e poi perduto, ma un enigma che resiste al tempo.

830 - L'UOMO CHE ASCOLTAVA GLI ELEFANTI


 

Quel giorno sulla savana regnava un silenzio strano, insolito. La gente della riserva li sentì arrivare da lontano, col loro passo pesante e solenne. Ventuno elefanti si fermarono davanti alla casa di Lawrence Anthony.

Lui non era un uomo qualunque. Ambientalista, scrittore, visionario, aveva accolto nella sua riserva di Thula Thula nello Zululand, in Sudafrica, un branco di pachidermi destinato all’abbattimento salvandogli la vita.

Elefanti considerati “troppo difficili”, che solo la sua pazienza e il suo coraggio avevano trasformato in una comunità stabile. A loro aveva dato rifugio, imparando a leggere i loro silenzi, i fremiti impercettibili, le vibrazioni udibili solo con il cuore. Lo chiamavano “L'uomo che sussurra agli elefanti”, parafrasando un celebre film, ma lui preferiva “l'uomo che ascolta gli elefanti”.

Quel 4 marzo 2012 la moglie di Anthony, Françoise Malby, e tutti gli abitanti della riserva, non credevano ai loro occhi all'arrivo del branco guidato da Nana e Frankie, le matriarche storiche.

Lawrence era morto per un infarto due giorni prima, e i 21 elefanti avevano fatto ore di marcia per essere lì. Nessuno li aveva chiamati. Nessuno li aveva guidati. Eppure erano lì, come spinti da un richiamo invisibile.

Gli animali si disposero compatti davanti alla recinzione. Rimasero oltre un’ora, quasi immobili, come a vegliare un’assenza. Poi si voltarono e tornarono nel bush.

Negli anni successivi sarebbero tornati ancora, puntuali, in quegli stessi giorni. Una processione silenziosa che non si spiega con la scienza, ma che racconta una storia di memoria e di riconoscenza.

Stati mentali umani che per gli studiosi non è corretto attribuire agli animali, anche se la letteratura etologica documenta comportamenti compatibili col cordoglio: gli elefanti vegliano i loro morti, toccano le ossa, restano accanto ai corpi, tornano a visitarli.

Ma qui non c’era un cadavere, solo una casa vuota. E quel passo lento, quel pellegrinaggio inspiegabile, non possono che far pensare a un ricordo, a un addio, al vuoto lasciato dal loro “ascoltatore”.


mercoledì 24 settembre 2025

829 - IL SOLE SPLENDE SU GANDER


 

All’improvviso il cielo si fece ostile. L’11 settembre 2001, mentre l’America veniva ferita dagli attentati, un piccolo punto sulla mappa, quasi dimenticato, si trasformò in un rifugio accogliente per gente proveniente da ogni parte del mondo.

Torniamo al giorno che ha cambiato la storia, quello dell'attentato alle Torri gemelle. L'America è sotto shock e lo spazio aereo viene chiuso d’urgenza: nessun velivolo può più entrare o sorvolare gli Stati Uniti, per il timore di nuovi dirottamenti.

Per centinaia di aerei internazionali già in volo è necessario trovare atterraggi alternativi. Nasce così l’Operazione Yellow Ribbon, la più vasta riprogrammazione del traffico aereo della storia: tra i 225 e i 250 aerei sono dirottati e fatti atterrare in 17 aeroporti canadesi.

Gander, sull'isola di Terranova, è una cittadina di appena diecimila abitanti. Qui atterrano 38 aeromobili con circa 6.600 passeggeri e membri d’equipaggio. Una marea di gente proveniente da tutto il mondo bussa improvvisamente alle porte di casa degli attoniti abitanti del paese.

E i cittadini aprono le porte senza esitare. Le scuole diventano dormitori, le palestre mense improvvisate, le chiese rifugi per chi non sa se i propri cari sono ancora vivi. Non ci sono protocolli, né ordini dall’alto: solo gesti concreti. Coperte, telefoni, cucine casalinghe spalancate, passaggi in auto per raggiungere i rifugi.

Nessuno pensa ai disagi causati dagli “stranieri”, ma a uomini e donne in difficoltà. Nelle ore più buie, in un luogo lontano dal clamore, la gente di Gander mostra al mondo che la paura può generare solidarietà invece che sospetto.

Quei giorni sono rimasti scolpiti nella memoria collettiva. Un libro li racconta, e molti ex-viaggiatori tornano a Gander ogni 11 settembre per incontrare i “locals” che li avevano accolti.

Nel decimo anniversario (2011) si è tenuta una grande reunion, a cui ha partecipato anche un gruppo di autori teatrali che ha raccolto testimonianze e storie. Da quell'incontro è nato un musical di successo — Come From Away — applaudito nei più importanti teatri del mondo, da Broadway al West end londinese.



martedì 23 settembre 2025

828 - L'ESTATE DEL GRANDE SERPENTE


 

Nell’estate del 1817 il mare di Gloucester, nel Massachusetts, spalancò la porta a un incubo antico. Nelle acque del porto, in pieno giorno, apparve un enorme serpente marino.

Ora, io non è che dia molto credito a storie come questa, che 99 volte su 100 sono bufale. Quindi ve la racconto così come la riportano le cronache dell'epoca.

La prima apparizione del mostro nel porto della cittadina del Massachussets è di inizio agosto. Decine, poi centinaia di occhi vedono qualcosa di immenso muoversi tra le onde: un corpo smisurato, almeno 15 o 20 metri, scuro e sinuoso. Ha il movimento ondulatorio e verticale di un enorme bruco, la testa che emerge dall’acqua ricorda quella di un cavallo.

Non è il racconto da taverna di un marinaio ubriaco: centinaia di testimoni, pescatori esperti, uomini rispettabili della comunità, intere famiglie sulla riva, giudici e medici col cannocchiale puntato descrivono la stessa creatura. I più coraggiosi montano in barca e lo vanno a incrociare a poche decine di metri dalla riva. E la voce corre rapida come un incendio, la notizia, come diremmo oggi, diventa virale.

In poche ore Gloucester non è più un porto qualunque, ma il palcoscenico di un mistero che fa tremare perfino la scienza. La Linnaean Society of New England decide di indagare: raccoglie deposizioni giurate, traccia schizzi (l'immagine che vedete è intitolata “Serpente marino. Incisione tratta da un disegno dal vero, come apparve nel porto di Gloucester il 23 agosto 1817”).

Nei giorni successivi gli avvistamenti si moltiplicano, e l’entusiasmo raggiunge il culmine quando un piccolo e strano serpente, con la colonna vertebrale deformata, viene catturato su una spiaggia e presentato come la “prole del mostro”. Si parla di un nuovo genere, *Scoliophis Atlanticus*. Ma la scienza riporta tutti con i piedi per terra: è solo un comune serpente nero, un “coluber constrictor” nato con una malformazione.

Dopo qualche settimana gli avvistamenti cessano. Nessuna carcassa, nessuna prova tangibile: il grande serpente si è dissolto insieme all’estate. Resta però la fascinazione di uno dei più documentati avvistamenti collettivi d’America, capace di trasformare un porto di pescatori in un teatro di meraviglia.

Forse fu solo un branco di tonni, un gioco di riflessi sull’acqua, un’illusione condivisa. Di certo non è una favola come quella del mostro di Loch Ness; cosa abbia visto tutta quella gente non lo sapremo probabilmente mai. Se un segreto c'è, il mare ha deciso di custodirlo.


venerdì 19 settembre 2025

827 - LA GRANDE MURAGLIA GIAPPONESE


 

Non tutte le muraglie nascono per dividere. Quella costruita in Giappone, lunga quasi 400 chilometri, serve a combattere la furia del mare.

E' l’11 marzo 2011 quando l’onda nera dello tsunami travolge la costa del Tōhoku e trascina via quasi ventimila vite. Un dramma di inaudita violenza che lascia un segno profondo nel Paese. E convince il governo giapponese a inseguire un sogno: il mare non deve mai più poter colpire con la stessa furia.

Nasce così un’opera senza precedenti: una catena di barriere alte in media 12,5 metri con punte di 14,5, distesa per 395 chilometri lungo le regioni più esposte. Una “Grande Muraglia contro lo tsunami”, costruita con fondazioni profonde, blocchi di cemento ciclopici e un costo immenso: oltre mille miliardi di yen, più o meno 12 miliardi di euro per una delle più grandi opere di difesa civile del pianeta.

Il progetto non si ferma al cemento. Laddove possibile, lungo i litorali, sono stati piantati milioni di alberi, un secondo scudo vivo e silenzioso, perché le foreste costiere rallentano la forza delle onde e restituiscono un legame con la natura che il muro, da solo, cancella.

Del resto la devastazione è stata totale: a Rikuzentakata, ad esempio, di quella che era una grande pineta è rimasto un simbolo struggente: l'unico pino sopravvissuto allo tsunami, lasciato in piedi a ricordare una foresta intera.

Ma non tutti applaudono questa muraglia bianca e grigia. Ci sono pescatori che non vedono più il mare, comunità che si sentono rinchiuse dietro pareti di cemento, turisti che parlano di coste sfigurate. Qualcuno non crede neanche all'efficacia dell'opera, teme anzi che rischi di creare l’illusione di una sicurezza assoluta, e che nessun muro potrà mai fermare del tutto la potenza dell’oceano.

Quello che è certo, per chi si trova davanti a questo altissimo muro, è che non è solo una difesa, ma una cicatrice. E come ogni cicatrice, non cancella la ferita: la ricorda, e obbliga a non dimenticare quanto fragile sia l'uomo davanti alla potenza della natura


lunedì 15 settembre 2025

826 - SQUALI NEL VULCANO


 

Se fosse un trailer hollywoodiano, sorridereste pensando all’ennesima trovata pulp. E invece no, non è l'ultimo “Sharknado”: gli squali che nuotano dentro un vulcano esistono davvero.

Se pensate che sia una bufala, non posso darvi torto: è quello che ho pensato anch'io quando ho visto sul web immagini da film (quelle si tarocche) di squali che nuotano nella lava. Ho verificato per scrupolo, e ho trovato coordinate geografiche, strumenti di ricerca, immagini satellitari e telecamere che non lasciano spazio alla fantasia.

Nel cuore del Pacifico, nelle Isole Salomone, c’è un vulcano sottomarino che si chiama Kavachi. Un mostro geologico instabile, capace di eruttare con violenza, ribollire di gas tossici, tingere il mare di marrone e zolfo.

Un posto inospitale, dove si penserebbe che nessuna creatura possa sopravvivere. Eppure, lì dentro, i ricercatori hanno visto nuotare squali martello e squali seta. Veri, vivi, in carne e cartilagine.

Anno 2015, la spedizione che arriva a Kavachi non è in cerca di leggende, ma di dati. Quando il vulcano si placa per un breve intervallo, i ricercatori riescono a calare videocamere nel cratere. Quando scorrono le prime immagini, rimangono a bocca aperta: ombre sinuose e inquietanti scivolano nelle acque lattiginose.

Non c'è dubbio, sono grandi predatori marini che nuotano apparentemente indisturbati in un ambiente che per loro dovrebbe essere letale. Intorno, colonie di microbi adattati a condizioni estreme che si nutrono di zolfo e calore. La scienza, di colpo, sembra scontrarsi con una realtà che di scientifico sembra non avere niente.

Ma attenzione. Non tutto è come nei titoli roboanti che girano sulla rete. Non è provato che questi squali “vivano” costantemente dentro un lago di acido ribollente. Più probabilmente, entrano ed escono dal cratere nei momenti di quiete, sfruttando zone dove le condizioni sono meno proibitive.

L’acqua non è sempre bollente, né uniformemente letale: varia con i moti del vulcano, con i flussi di gas e con la profondità. E soprattutto, al momento nessuno ha dimostrato che gli squali abbiano sviluppato adattamenti a un ambiente proibitivo. L’ipotesi è affascinante, ma ad oggi resta un mistero aperto.

Quello che è certo è che la natura non finisce di stupirci. E che la realtà, spesso, è più incredibile della finzione.


venerdì 12 settembre 2025

825 - L'AUTORE DI GIULIETTA E ROMEO


 

No, non l’ha inventata Shakespeare la storia di Romeo e Giulietta. Quella che diventerà una tragedia immortale nasce a Vicenza, dalla penna di un giovane nobile malinconico e paralizzato, Luigi da Porto.

E' lui che nel 1524, ben settant’anni prima del Bardo, mette su carta la vicenda dei due amanti infelici. E allora conosciamolo più da vicino il vero autore dell'intreccio d'amore più famoso di tutti i tempi.

Luigi da Porto nasce a Vicenza nel 1485. Rampollo aristocratico, orfano precoce, educato tra umanisti e letterati, amico di Pietro Bembo, mostra fin da giovane la stoffa dell’uomo d’armi: nel 1511 guida cinquanta cavalleggeri veneziani nella guerra della Lega di Cambrai.

Ma sul Natisone, durante una scaramuccia con i soldati imperiali, una stoccata al collo lo lascia paralizzato a vita. Fine della carriera militare, inizio della parabola letteraria. Ritirato nella villa di famiglia a Montorso Vicentino, tra le colline, scrive le sue rime e soprattutto l’*Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti*.

È lui a dare il nome di Romeo Montecchi e Giulietta Cappelletti ai protagonisti. I cognomi non sono scelti a caso: li prende in prestito da Dante (Purgatorio, VI, 106), dove Montecchi e Cappelletti compaiono come famiglie in lotta.

Da Porto ambienta la vicenda ai tempi di Bartolomeo della Scala, tra il 1301 e il 1304. E non basta: nella cornice, racconta di aver udito la storia in Friuli, durante una cavalcata tra Gradisca e Udine, da un arciere che voleva distrarlo dalle pene d’amore. Un vezzo letterario, certo, ma che regala alla novella un’aria di confessione personale.

E infatti c’è chi sostiene che dietro Giulietta si nasconda una cugina vera, Lucina Savorgnan, e che Romeo non sia altri che lo stesso Luigi, innamorato impossibile in mezzo alle faide friulane tra Strumieri e Zamberlani. Forse è leggenda, ma è affascinante pensare che la tragedia nasca da una vicenda autobiografica, segreta e censurata dai parenti.

Dalla finestra della villa di Montorso, Luigi vede le due rocche scaligere di Montecchio Maggiore, contrapposte sul crinale. Oggi tutti le chiamano “i castelli di Romeo e Giulietta”: allora erano fortezze, ma l’immagine deve aver nutrito la sua fantasia.

La novella circola manoscritta, poi viene stampata anonima a Venezia nel 1530. Matteo Bandello la rielabora, Pierre Boaistuau la traduce, Arthur Brooke la porta in Inghilterra. A metà del Cinquecento il seme è piantato. Shakespeare lo raccoglie e nel 1595 lo trasforma in poesia immortale.

Ma il primo balcone, il primo bacio, il primo veleno sono nati tra le colline venete, nelle stanze di una villa nobiliare, dalla mente di un uomo provato dalla vita che combatteva la tristezza con una penna in mano e una storia meravigliosa da raccontare.

 

giovedì 11 settembre 2025

824 - IL PRIMO PECCATORE D'AMERICA


 

Quella che vi racconto è la storia grottesca e crudele del primo minorenne giustiziato in America. Premessa: se ti consideri un puritano, non la leggere.

E proprio della più famosa fra le comunità di puritani si parla. Quella dei Pilgrim fathers che attraversarono l'Atlantico e approdarono sulle coste nordamericane. Se capitate dalle parti di Boston vale la pena di fare un salto a Plymouth, a meno di un'ora di strada. E' qui che sbarcarono i Padri pellegrini, e fondarono la loro “città del cielo”.

E qui c'è un luogo dove la storia torna a vivere: il villaggio ricostruito a somiglianza di quello di 4 secoli fa, dove buona parte dei cittadini accolgono i turisti vivendo per 8 ore al giorno come i loro progenitori, e raccontando le storie di quel tempo. C'è una storia però che non raccontano. Quella di Thomas Granger, giustiziato a soli 16 anni. 

L'anno è il 1642, e Granger non è un ribelle né un ladro, e neanche un assassino. E allora, cosa ha fatto di così grave? Diciamo che il reato di cui si è macchiato non è esattamente quello da commettere in una colonia di puritani.

Ad incastrare il giovane, che svolge le sue mansioni di servo in una delle fattorie appena edificate, sono i vicini di casa che iniziano a bisbigliare. Quando le voci diventano un coro, arrivano le guardie e lo arrestano. L'accusa è la più infamante: bestialità.

Davanti al governatore William Bradford, il giovane non cerca neanche di negare, scoppia a piangere ed ammette tutte le sue colpe. Il verbale del processo è spietatamente dettagliato: Granger confessa di aver avuto rapporti con una cavalla, una mucca, due capre, cinque pecore, due vitelli e persino un tacchino. Si, avete letto bene.

Gli animali vengono mostrati in tribunale, come prove viventi del peccato, prima di essere messi a morte: per i coloni sono stati contaminati dal contatto, e non possono più rimanere al mondo.

Nella comunità puritana la legge è scritta sulle pagine della Bibbia. E il Levitico non lascia alternative. Per chi ha avuto rapporti con animali la pena è una sola: la morte. Bradford firma la condanna e annota la vicenda con dolore, quasi a giustificare l’ineluttabilità del gesto: “Il ragazzo è molto giovane, ma Dio non può essere offeso senza che ne derivino conseguenze”. All'alba del giorno dopo Thomas Granger viene impiccato davanti all'intera comunità raccolta in preghiera.


mercoledì 10 settembre 2025

823 - IL GRANDE CAMALEONTE


 

Ci sono vite che sembrano romanzi. Quella di Romain Gary è di più: un gioco di specchi in cui niente è quello che sembra. Avete presente lo Zelig di Woody Allen? Ecco, qualcosa di simile, ma ad altissimi livelli.

Spoiler: Gary sarà un eroe di guerra, poi un diplomatico, infine uno scrittore coronato dal premio Goncourt. Ma non gli basta: inventa un altro se stesso, Émile Ajar, e con lui trionfa di nuovo al premio più ambito di Francia, beffando l’intero mondo letterario. Una doppia vita che culmina nell’ultimo, spettacolare colpo di scena: confessare la verità solo dopo la morte.

Vale la pena di raccontare nel dettaglio gli highlights di una vita “spericolata”. Il suo vero nome è Roman Kacew e nasce nel 1914 a Vilnius, allora città dell'impero russo che cambierà più volte bandiera come lui cambierà volto. Figlio di Mina Owczyńska, attrice di scarso successo e madre onnipresente, e di un padre presto fuggito, cresce con l’ossessione di un destino più grande di lui.

La madre gli insegna il francese, lingua dei sogni e della promessa: “Diventerai ambasciatore, diventerai Victor Hugo”. E quel ragazzo ebreo, approdato con lei a Nizza, manterrà entrambe le profezie.

Per farlo si trasforma in Romain Gary, cittadino francese, aviatore durante la guerra. Nel 1943, ferito all’addome, riporta alla base un aereo col pilota accecato: un gesto che gli vale decorazioni altissime, fra cui la Légion d’onore e il titolo di Compagnon de la Libération.

Con la benedizione di De Gaulle inizia poi la carriera diplomatica: diventa ambasciatore, console a Los Angeles e in Bolivia, delegato Onu con incarichi in Africa. E intanto scrive. “Éducation européenne” (1945) viene accolto come uno dei migliori romanzi della Resistenza, e nel 1956 il Goncourt a “Les Racines du ciel” lo consacra: l’eroe di guerra diventa scrittore di fama.

Ma Gary non si accontenta. Ha bisogno di reinventarsi, di bruciare vite come il suo nome sembra suggerire (in russo gari significa “brucia!”). Usa altri pseudonimi, si sposa due volte — con la scrittrice Lesley Blanch e con l’attrice Jean Seberg —, conosce gloria e tormenti.

Poi, negli anni Settanta, orchestra la più grande beffa letteraria del secolo: crea Émile Ajar. Con la complicità del nipote Paul Pavlowitch, che ne interpreta il ruolo in pubblico, pubblica “Gros-Câlin” e poi “La vie devant soi”. Quest’ultimo nel 1975 vince il Goncourt: caso unico nella storia, Gary lo ottiene due volte, violando il regolamento senza che nessuno se ne accorga.

Nel 1979 Jean Seberg viene trovata morta a Parigi; un anno dopo, il 2 dicembre 1980, Gary profondamente depresso per il sopraggiungere della vecchiaia, si toglie la vita sparandosi alla tempia, dopo aver avuto cura d'indossare una vestaglia rosso vermiglio perché il sangue non si noti troppo.

Nel cassetto della sua scrivania viene trovato un manoscritto datato 21 marzo 1979: “Vie et mort d’Émile Ajar”, insieme a precise istruzioni per la pubblicazione dopo la sua morte. È la confessione finale: “Émile Ajar, c’est moi”. Non più maschere né doppi giochi. Il grande camaleonte si prende il gusto di un ultimo colpo di teatro: “Mi sono divertito parecchio. Arrivederci e grazie” è la frase con cui saluta la vita.






822 - LA NEBBIA ASSASSINA

 


Sembra un racconto distopico partorito dalla mente di uno Stephen King, invece è accaduto davvero, è storia, anche se raramente si legge sui libri.

Avete mai sentito parlare del “Great Smog”? Le sue vittime sono state almeno dodicimila. Sembra incredibile ma e strappare la vita a tante persone fino a quel momento sane e tranquille non fu un’epidemia, non una guerra, ma una cappa lattiginosa che in pochi giorni avvolse Londra.

Dicembre 1952, l’aria della capitale britannica, già carica di fumo di carbone, diventa un assassino invisibile. Basta uscire dal portone per sentirsi soffocare, e sono tanti quelli che a casa non torneranno più.

La visibilità è ridotta a pochi centimetri, gli autobus si fermano, le auto vengono abbandonate e c'è chi approfitta del caos anche per saccheggi; gli ospedali si riempiono e sono così pervasi dallo smog che non si riesce a vedere da un lato all’altro del reparto, il fumo entra persino nei teatri, dove gli spettacoli vengono interrotti perché nessuno riesce a vedere il palcoscenico.

All’inizio si pensa alla “solita nebbia londinese”, un capriccio del clima. In realtà, si tratta di un mostro nuovo, figlio dell'immediato dopoguerra. Soldi ne circolano pochi, e per riscaldarsi, milioni di famiglie bruciano carbone di bassissima qualità, il cosiddetto nutty slack, carico di zolfo. Le fabbriche aggiungono altro fumo, e le condizioni meteorologiche — un’alta pressione e l’inversione termica — bloccano tutto questo veleno sopra la città.

L’aria contiene ogni giorno fino a mille tonnellate di particolato, centinaia di tonnellate di acido cloridrico e anidride solforosa, trasformate in quasi ottocento tonnellate di acido solforico: una camera a gas a cielo aperto. Si contano quattromila morti subito, ma gli studi successivi parleranno di dodicimila vittime, senza contare le centinaia di migliaia di malati.

Ma cosa rende quella nebbia così letale? Per decenni la scienza non saprà rispondere. Poi, più di sessant’anni dopo, la risposta arriverà da lontano: dalla Cina del XXI secolo, con le sue metropoli soffocate dallo smog.

Un team guidato dal chimico Renyi Zhang, alla Texas A&M University, osserva i processi in corso a Pechino e Xi’an e scopre l’elemento mancante: il diossido di azoto, prodotto dalla combustione del carbone, che in ambiente umido trasforma l’anidride solforosa in acido solforico con una rapidità spaventosa.

La differenza fra la Cina odierna e la Londra del 1952 sta in un dettaglio: l’ammoniaca dei fertilizzanti neutralizza oggi almeno in parte l’acidità, rendendo la nebbia meno mortale. A Londra, invece, quella miscela era pura, corrosiva, inesorabile. Il risultato è stato la più grande catastrofe ambientale della storia europea contemporanea.

Il Grande Smog, oggi lo sappiamo con certezza, non è stato un incidente della natura, ma il prezzo pagato a un progresso cieco. Una trappola mortale che però ha prodotto al tempo anche un effetto positivo: dal disastro nacquero le prime leggi sull’aria, il Clean Air Act del 1956. Sono passati 70 anni e per Londra la situazione è migliorata. Per il pianeta un po' meno.

821 - IL GUERRIERO CHE RUBO' I CAVALLI AI NAZISTI


 

Quattro gesti, antichi come le pianure: toccare un nemico senza ucciderlo, strappargli l’arma di mano, guidare i compagni alla vittoria e rubare i cavalli al nemico. Joe Medicine Crow li fece tutti. E non li fece contro Custer, ma contro i nazisti.

Con una piuma gialla sotto l’elmetto e un canto Crow sulle labbra Joe portò sui campi di battaglia della seconda guerra mondiale le tradizioni che consentivano a un guerriero delle Grandi pianure di diventare capo di guerra.

Joe Medicine Crow nasce nel 1913 nella riserva Crow del Montana, con un nome che nella sua lingua significa “Uccello Alto”. Cresce ascoltando dalla voce del nonno adottivo, White Man Runs Him, testimone di Little Bighorn, il racconto vivo di quella battaglia.

Le memorie orali dei nativi convivono in lui con l’istruzione occidentale, che lo conduce fino a un master in antropologia alla University of Southern California, primo Crow a raggiungere quel traguardo.

Poi arriva la Seconda guerra mondiale. Arruolato come scout nella 103ª Divisione di fanteria, Joe non dimentica le usanze dei suoi avi: sotto l’uniforme dipinge due strisce rosse sulle braccia, e sotto l’elmetto nasconde una piuma d’aquila colorata di giallo, dono di uno sciamano.

E in Europa, compie i suoi quattro gesti rituali: tocca un nemico senza ucciderlo, lo disarma, guida con successo il suo gruppo e ruba non uno ma 50 cavalli a un reparto delle SS, allontanandosi al galoppo mentre intona un canto d’onore Crow.

Finita la guerra, torna alla sua gente come storico tribale, custode delle memorie e delle immagini, conservate in casa e in garage, relatore instancabile, autore di libri amati dagli studiosi e dai ragazzi.

Collabora con musei e college, scrive la sceneggiatura per la rievocazione di Little Bighorn a Hardin e parla persino alle Nazioni Unite. Nel 2009 Barack Obama gli mette al collo la Medaglia Presidenziale della Libertà, chiamandolo *bacheitche*, “uomo buono”.

Il 3 aprile del 2016 è una domenica, e a Billings, in Montana, l'ultimo war chief della sua gente, a 102 anni compiuti, decide che “è un buon giorno per morire”.



841 - IL NONNO DEI BEATLES

  Ha visto nascere il treno a vapore e il telegrafo, ha vissuto sotto la regina Vittoria ed è corso nei rifugi per evitare le bo...