mercoledì 25 giugno 2025

775 - LA DIMENTICANZA

Quanti giorni può sopravvivere un uomo senza bere né mangiare?Non esiste una risposta certa. I medici parlano di tre giorni senz’acqua, forse dieci senza cibo. Ma provate a chiederlo ad Andreas Mihavecz, lui una risposta ce l'ha.

È il primo aprile del 1979 a Bregenz, Austria occidentale. Andreas, diciottenne austriaco, non ha fatto nulla di male: è solo il passeggero di un’auto coinvolta in un banale incidente. La polizia lo porta in centrale per identificarlo. Lo chiudono in custodia cautelare in una cella nel seminterrato del tribunale. E poi… si dimenticano di lui.

Una svista collettiva. Ognuno dei tre agenti presume che sia stato già liberato dagli altri. Nessuno controlla. Nessuno sente le grida di aiuto. Nessuno si accorge che in quello sgabuzzino cementato c’è un ragazzo vivo e di ora in ora sempre più disperato.

I giorni passano. Andreas batte le mani contro le pareti, urla, chiama. Niente. Nessuno risponde. Resta lì. Senza acqua, senza cibo. Per sopravvivere lecca le gocce d’umidità che si formano sul muro. Scrosta pezzi d’intonaco. Rimane sdraiato e immobile per risparmiare energia. Il tempo diventa liquido, il corpo si svuota.

Passano diciotto giorni. Diciotto!

Lo trovano per caso il 19 aprile. Un agente nota il cattivo odore che sale dal seminterrato. La porta della cella si apre: Andreas è ancora vivo, ridotto a uno scheletro tremante. Ha perso 24 chili. Gli occhi scavati, la pelle grigia. Ma è vivo.

Lo portano in ospedale, viene salvato in extremis. I poliziotti coinvolti vengono multati per l’equivalente di 2000 euro, Andreas intenta una causa civile e due anni dopo lo stato austriaco lo risarcisce con l'equivalente di 18.000 euro: 1000 euro per ogni giorno di fame e di sofferenza passati in cella. Nel 1997 il Guinness World of Records lo riconoscerà come “l’essere umano che è sopravvissuto più a lungo senza cibo né acqua”.





774 - PIRAMIDI IN BRIANZA

 


Quel giorno di primo mattino Indiana Jones salì sulla sua Mercedes -Benz 540K in piazza del Duomo a Milano e in meno di 40 minuti raggiunse Montevecchia, in Brianza. Qui lasciò l'auto, imboccò un sentiero neanche troppo impegnativo e dopo un'ora si trovo davanti... le piramidi!

Scherzi a parte, Indiana Jones non esiste, ma le piramidi fra le colline della Brianza sì. Sono tre misteriose formazioni rocciose, alte tra i 40 e i 50 metri, con una pendenza massima di circa 44°. Niente a che vedere con i 138 metri della grande piramide di Giza, ma vederle lì, silenziose e maestose a vegliare da 15.000 anni sul paesaggio verde, un certo effetto lo fa.

La loro scoperta è recente e quasi casuale. Nel 2001 l'architetto e ricercatore Vincenzo Di Gregorio, appassionato di geologia e di luoghi nascosti, nota qualcosa di strano in una mappa satellitare della zona. Le immagini mostrano tre colline disposte in linea retta, simili a quelle della famosa cintura di Orione.

E' un angolo di mondo apparentemente trascurato, ma quella visione, amplificata dalla tecnologia, suggerisce che le formazioni possano nascondere un ordine celato, una simmetria che non è solo il frutto del caso. Di Gregorio, incredulo ma affascinato, decide di approfondire la questione.

Negli anni successivi, le piramidi di Montevecchia divengono oggetto di numerosi studi. Archeologi e geologi si mettono al lavoro cercando di determinare l'origine di queste formazioni. E, come sempre accade in questi casi, nascono subito due fazioni contropposte.

Da un lato il responso della scienza ufficiale: nessuna prova concreta suggerisce che si tratti di manufatti; sembra invece che la natura abbia creato queste strutture con il suo consueto, implacabile lavoro di erosione. Il terreno argilloso, modellato dai ghiacciai 15,000 anni fa durante l’ultima glaciazione, avrebbe attraverso secoli di piogge e venti dato vita a queste formazioni con una precisione capace di suscitare meraviglia.

Una posizione chiara: le piramidi sono frutto di un fenomeno naturale. La forma piramidale, benché suggestiva, non può esser considerata una prova di intervento umano. Insomma, come spesso accade, la natura è un’artista capace di produrre forme incredibili senza bisogno di assistenza esterna.

Sull'altro fronte si schierano agguerriti coloro che vedono nelle piramidi di Montevecchia un segno di qualcosa di più profondo. Studiosi del mistero e appassionati di archeologia alternativa teorizzano che queste formazioni siano state realizzate da antiche civiltà, oggi dimenticate.

Alcuni li chiamano "gli Etruschi della Brianza", supponendo che una popolazione misteriosa abbia costruito le piramidi in omaggio ai ritmi cosmici, allineandole con la cintura di Orione come quelle di Giza. Perché non pensare che anche in Italia, in un’epoca remota, potesse esistere una civiltà in grado di fare queste operazioni? Le ipotesi abbondano, ma fino ad oggi non esiste nessuna prova definitiva che supporti queste idee.

Insomma, una risposta certa non c'è, il dubbio scivola tra i contorni delle colline e tra le pieghe della storia. Davvero un bell'enigma quello delle piramidi di Montevecchia. Per risolverlo una volta per tutte ci vorrebbe Indiana Jones.



martedì 24 giugno 2025

773 - LA VITA STELLARE DEL TENENTE SCOTTY

 


Se lo ricordano tutti come Scotty, l’ingegnere col berretto rosso e l’accento scozzese che “spreme al massimo i motori” mentre l’Enterprise sfugge all’ennesimo cataclisma galattico. Ma James Doohan è stato molto di più.

Dietro il suo sorriso scanzonato e l’aria da eterno complice delle imprese di Kirk e Spock, il tenente comandante Montgomery “Scotty” Scott, ingegnere capo della USS Enterprise NCC-1701, nascondeva un passato avventuroso.

Nato a Vancouver nel 1920, James cresce tra le ombre dell’alcolismo paterno e il desiderio di riscatto. Sogna la scienza e la tecnica, e già al liceo brilla in matematica, un anticipo del futuro ingegnere spaziale. Ma la vita ha in serbo per lui un banco di prova tremendo: la guerra, con il suo giorno più lungo, il D-Day, lo sbarco in Normandia.

6 giugno 1944, Juno Beach. Doolan sbarca tra fuoco e acciaio, guida i suoi uomini attraverso un campo minato, mette a tacere due cecchini, ma quando cala la notte, viene centrato da fuoco amico: sei proiettili. Quattro lo straziano alla gamba, uno gli fa saltare il dito medio della mano destra, un altro si ferma su un portasigarette d’argento: “Un regalo di mio fratello, mi ha salvato il cuore”, racconterà anni dopo, alzando le sopracciglia come a dire “la vita a volte è un lancio di dadi”.

Dopo un periodo di convalescenza, rientra in servizio come pilota d’osservazione per la Royal Canadian Artillery. Ma se ve lo immaginate pacioso e tranquillo “alla Scotty”, siete in errore: Doohan in Inghilterra, sul suo Auster Mk IV, si diverte a fare lo slalom tra i pali del telegrafo, meritandosi il titolo di “pilota più pazzo della Canadian Air Force” e un severo richiamo da parte dei superiori. A chi gli domanda perché l'ha fatto, risponde: “Per dimostrare che si può fare”.

Poi, la svolta. Un giorno, ascolta un radiodramma e dice: “Posso fare meglio.” Ci riesce, eccome. Dalla radio alla tv, fino a Star Trek: nasce Scotty, che fra serie tv e film manterrà il suo posto sulla plancia dell'Enterprise per 28 anni, dal 1966 al 1994. E non solo: Doohan sarà anche la voce di mille personaggi, l’inventore dei primi dialoghi klingon e vulcaniani, il simbolo per generazioni di giovani ingegneri. Neil Armstrong, mica uno qualunque, gli stringe la mano e gli dice: “Da un ingegnere a un altro, grazie.”

Eppure, l’episodio che più gli riempie l’anima non avviene sul set, ma quando riceve una lettera da una fan disperata, pronta al suicidio. James non esita: la chiama, la invita a una convention di Star Trek tutto spesato, e poi a un’altra e a un’altra ancora. Anni dopo riceverà una lettera: “Grazie, mi sono laureata in ingegneria elettronica.” L'ingegnere dell'Enterprise ha riparato un cuore spezzato. Nessun motore a curvatura, stavolta, solo umanità.

James muore nel 2005, e la finzione diventa realtà. Ma anche questa è un'avventura: per esaudire il suo desiderio che le sue ceneri siano lanciate nello spazio un razzo suborbitale ne porta 7 grammi in volo, ma poi rientra sulla Terra con un paracadute, come previsto. Le ceneri vengono recuperate. Nel 2008 un’altra porzione delle sue ceneri decolla su un razzo SpaceX Falcon 1, ma la missione fallisce e il razzo si perde 2 minuti dopo il lancio.

Sempre nel 2008 Richard Garriott nasconde le ceneri di Doohan sotto il pavimento del modulo Columbus e le porta di nascosto a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) durante la sua missione. L’impresa rimane segreta per anni, fino a essere rivelata da Garriott nel 2020. Infine, il 22 maggio 2012, un’urna con ciò che resta delle sue ceneri vola nello spazio a bordo di un razzo Falcon 9: missione compiuta.



sabato 21 giugno 2025

772 - UNIT 731, L'INFERNO CANCELLATO

 


Gli orrori dei lager nazisti sono in tutti i libri di storia. Ma dei fatti accaduti nella Unit 731 di Harbin, almeno altrettanto terribili e cruenti, sappiamo poco o niente. Perchè? Perché i vincitori hanno scelto lucidamente di insabbiare e cancellare l'intera vicenda.

Le cose sono andate così: nel 1936 Harbin, megalopoli ferroviaria cinese vicina al confine russo, viene conquistata dai giapponesi. Qui prende vita l'incubo quando Shirō Ishii, medico devoto alla causa dell’”armamento biologico”, trasforma un finto centro di prevenzione epidemica in un laboratorio del terrore: la Unit 731.

Per dirla in breve, un lager dove uomini, donne e bambini — in massima parte cinesi, ma anche prigionieri sovietici, coreani, occidentali — diventano “maruta”, tronchi umani da sezionare a cuore battente.

Qui si progettano oggetti di morte che si spacciano per strumenti di ricerca legittima, si mettono a punto nuove bombe antiuomo e se ne studiano gli effetti “dal vivo”, si realizzano proiettili di artiglieria carichi di batteri, si liberano pulci e topi infetti sui campi cinesi.

Qui si iniettano patogeni letali: peste bubbonica, colera, antrace, vaiolo, gangrena gassosa. Si studiano tecniche d’ipotermia, tra congelamenti e scongelamenti, per testare i limiti del corpo umano.

Si praticano gravidanze forzate e dissezioni su persone vive e anche su neonati. Alla fine, secondo le stime, le vittime saranno fra 3.000 e 12.000 tra uomini, donne e bambini.

Nel 1945, dopo la resa del Giappone, il colonnello americano Murray Sanders, microbiologo militare, sbarca a Tokyo e scopre i documenti della Unit 731. Dentro c’è la ricetta del male, lo scheletro di una scienza criminale che nessun laboratorio al mondo avrebbe potuto replicare, e tanto meno rendere pubblico.

Gli americani sono interessati alle ricerche sulle armi biologiche e ai risultati di test effettuati su esseri umani “impossibili da ripetere” e si trovano di fronte alla possibilità di ottenerli: una scelta calcolata, cinica, fredda. Entrano in scena i servizi segreti. Gli ufficiali della Unit 731, a cominciare dal generale Shirō Ishii, negoziano l’immunità per loro e per i loro collaboratori in cambio dei dati ottenuti dagli esperimenti.

Il patto viene siglato: immunità legale “a chiunque abbia dati da offrire” . Promesse di silenzio, accordi a bassa voce, pagamenti simbolici (150–200 000 yen di quell’epoca). Le testimonianze sui crimini umani vengono ritirate dal processo di Tokyo, gli ufficiali sono spediti a casa.

Non ci saranno processi (come quello di Norimberga per i nazisti) per i responsabili della Unit 731: i colpevoli vengono risparmiati. In molti avranno carriere rispettabili nel Giappone del dopoguerra, alcuni anche in campo accademico e industriale. Gli Stati Uniti classificano come segreti i documenti sui crimini della Unit 731 e evitano che le informazioni siano divulgate.

L'Unione sovietica, che aveva catturato una dozzina di ufficiali della Unit 731, li processa e li condanna nell’inverno del 1949 a Khabarovsk. Gli atti del processo, pieni zeppi di episodi raccapriccianti, vengono pubblicati e l'eco arriva in Occidente, ma vengono considerati propaganda sovietica e ignorati.

La cortina del silenzio è efficace come non mai, per 40 anni sui giornali americani non compare niente o quasi sulla vicenda. Solo nel 1999 una legge del Congresso richiede l’apertura degli archivi. Ed è come scoperchiare il vaso di pandora. Ma ormai è trascorso più di mezzo secolo, e i giochi sono fatti.

Oggi a Harbin, nel sito originario di Pingfang, esiste un museo dedicato alla memoria delle vittime dell'orrore. Testimonianze, documenti e le stesse strutture rimaste in parte intatte raccontano la storia di uno dei crimini più efferati commessi impunemente nella storia dell'uomo.





martedì 17 giugno 2025

771 - IL RAGAZZO CHE CORRESSE EINSTEIN

 


 

Un silenzio interrotto, una frase che spazza via la sacralità dell’oratore, un giovane sconosciuto che vince con il dubbio: la fantastica storia di Lev Davidovich Landau comincia così.

Comincia con un aneddoto che contiene due messaggi importanti: la grandezza inizia dove l’umiltà sa riconoscere un errore. E il sapere avanza solo quando si osa dubitare.

Estate 1930, nel caldo torrido dellla sala della Società Fisica Tedesca a Lipsia Albert Einstein, icona mondiale, avanza tra lavagne e equazioni con la grazia di un giocoliere del pensiero. Il pubblico, rapito, applaude in un silenzio sacro. Nessuno osa interromperlo.

Da un angolo buio giunge una voce giovane, timida ma ferma. Il volto è scavato, i capelli scarruffati, l’accento tedesco un po’ inciampato. Il ragazzo – appena 22 anni – contesta la derivazione dell’ultima equazione: “Servono ulteriori assunti e manca invariance…”. Un colpo nel tranquillo mare delle certezze.

Uno shock che gela la sala. Einstein, ancora con il gesso in mano, si volta, osserva la lavagna. Silenzio. Poi, lentamente, rilegge le formule. Fa una pausa lunga, gravata dall’attenzione di tutti. Infine, con gentilezza: “Lei ha perfettamente ragione. Dimentichiamo quanto detto finora”. Il genio universale si inchina all'intuizione dello sconosciuto studentello, consapevole che la scienza vive di dubbi almeno quanto di certezze.

L'intervento per Landau è il primo passo verso la leggenda. Cresciuto a Baku, studente prodigio, da Leningrado nel 1929 approda a Göttingen, Lipsia, Zurigo e Copenaghen, dove incontra Bohr, Heisenberg, Dirac. Le sue capacità intellettive non passano inosservate, così come la sua personalità affilata.

Ma è quel giorno a Lipsia che la sua giovinezza e intelligenza riescono a cogliere l’attenzione di Einstein, sancire l’impulso della curiosità e inaugurare una carriera luminosa. Landau diventa uno dei padri della fisica teorica per i suoi studi su teorica quantistica, fisica dello stato solido, neutron stars e struttura dei corpi compatti. E nel 1962 arriva il Premio Nobel per la Fisica “Per le sue teorie pionieristiche sulla materia condensata, in particolare l'elio liquido”.

Ma Landau fa parlare di se anche per il suo umorismo acuto e per il carattere anticonformista: detesta i vanitosi e i superficiali, ama il sarcasmo tagliente e non le manda a dire a nessuno, neanche ai potenti. Quando un burocrate sovietico cerca di imporgli una posizione più “utile allo Stato”, Landau taglia corto: “La fisica non si scrive su commissione. Neppure Stalin può cambiare le leggi della natura”.

Il 7 gennaio 1962, pochi mesi prima della cerimonia di consegna del Nobel, viene investito da un camion nei pressi di Mosca. Rimane due mesi in coma, con gravi danni neurologici. Non si riprenderà mai del tutto, non riuscìrà più a lavorare con la lucidità di prima e non parteciperà più attivamente alla ricerca. L'incidente fra l'altro non gli consentirà di ritirare il Nobel di persona.

Resta memorabile l'aneddoto raccontato dallo psicologo Alexander Luria durante la convalescenza di Landau: Luria gli chiede di disegnare un cerchio: lui traccia una croce. Quando gli chiede di fare una croce, lui disegna un cerchio. Di fronte allo sguardo perplesso dello psicologo che gli chiede spiegazioni, Landau risponde mostrando di non aver perso la sua consueta ironia “Se facessi quello che mi chiede, lei potrebbe pensare che sono diventato mentalmente ritardato”.

Landau muore a Mosca il primo aprile 1968, all'età di 60 anni, per complicazioni derivanti dalle conseguenze dell'incidente. Fino alla fine è assistito da colleghi e amici, ma la sua straordinaria mente si era in buona parte spenta quel giorno d’inverno del 1962.

lunedì 16 giugno 2025

770 - IL BAMBINO POCO INTELLIGENTE

 


Chi è quel bambino così sporco?”. “E' un immigrato, è arrivato da poco, sembra anche più sporco perché è scuro di pelle. Comunque non capisce niente, è poco intelligente”.

Boston, anno 1895 Lo dicono tutti, a scuola. Lo dice la maestra, con quel suo sorriso compassato che nasconde fastidio. Lo dicono i compagni, ogni volta che lo vedono arrivare con i pantaloni rattoppati e la camicia troppo grande.

Lui ha 12 anni e ha appena attraversato un oceano. Arriva da un villaggio di montagna, in Libano, dove la neve cade fitta d’inverno e l’estate odora di resina. Suo padre è finito in prigione per debiti, e sua madre ha venduto tutto per comprare cinque biglietti di terza classe per l’America, per lei e per i suoi quattro figli. Sognava la “terra delle opportunità”. Invece ha trovato muffa, sudore, freddo. E quella lingua: un vetro opaco fra loro e il mondo.

Lo hanno messo in una classe speciale per “immigrati”, un modo come un altro per dire: lasciamoli da parte. E lui si rinchiude in se stesso, Disegna. Appena può, prende una matita e traccia occhi, volti, ali. Cerca i colori anche in mezzo alla polvere.

A 15 anni torna in Libano, studia al Collège de la Sagesse a Beirut, dove affina il suo arabo, impara il francese, fonda una rivista studentesca e viene eletto “poeta del collegio”. Ma il destino due anni dopo lo riporta in America.

Nel 1902 è di nuovo a Boston. Nel giro di pochi mesi muoiono la sorella Sultana, il fratellastro Boutros, poi sua madre, tutti colpiti da tubercolosi. Solo sua sorella Marianna resta accanto a lui, e lo mantiene con il proprio lavoro. Ma la fiammella della speranza non si spegne. "Il dolore è il solco che scava l’anima per far posto alla gioia” scriverà.

E finalmente arrivano anche i giorni belli, e gli incontri giusti: un’insegnante che vede nei suoi schizzi qualcosa di sacro e in lui “un principino mediorientale, un’anima nobile intrappolata in uno stato d’indigenza”; un editore che nota le sue parole. Una donna che ama la sua anima prima della sua grammatica.

E la sua voce si fa chiara, potente eppure dolce come un sussurro. Scrive in arabo, poi in inglese. Scrive di libertà, d’amore, di solitudine, di figli che non sono nostri ma “figli e figlie della sete della vita”. Le sue parole attraversano secoli, guerre, matrimoni, funerali.

E nel 1923 pubblica Il Profeta, destinato a diventare un vangelo laico, letto e recitato da generazioni. Sarà tradotto in più di cento lingue, venderà più di 100 milioni di copie, oggi nelle classifiche del New Yorker è la terza opera poetica più letta della storia, dopo Shakespeare e Lao Tzu.

Già, il ragazzino sporco, quello con la pelle troppo scura per l’America bianca, anglosassone e protestante, quello con la lingua troppo arida per la scuola, quello poco intelligente, si chiama Kahlil Gibran.

Poi la vita fa il suo corso, fama e benessere non riescono a vincere la partita contro la tubercolosi e lo spettro dell'alcolismo. Gibran muore a New York a 48 anni nel 1931. La salma verrà riportata nella sua Bsharri, che non ha mai smesso di amare, e tumulata nel monastero di Mar Sarkis. Sul sepolcro si legge “Io sono vivo come voi, e sto qui accanto a voi. Chiudete gli occhi e guardatevi intorno: mi vedrete davanti a voi.”


venerdì 13 giugno 2025

769 - IL SEGRETO DI RICHARD "TWO GUN"

 


 

Richard James “Two-Gun” Hart aveva due Colt e un cappello Stetson sempre in testa. Un pistolero del vecchio west, di quelli che stanno dalla parte dei buoni. La prima sorpresa è che era nato in Italia. Ma vi premetto che non sarà l'unica.

Richard nasce ad Angri in provincia di Salerno nel 1892, primo di 9 figli. Cresce a Brooklyn tra gli odori del salone di barbiere del padre, ma a 16 anni lascia la metropoli per le vaste praterie del Midwest . Qui il giovane scopre il circo, lavora come facchino e domatore di cavalli e si appassiona alla mitologia western.

Ammiratore di William S. Hart, stella del cinema muto, adotta il suo cognome, si spoglia dell’accento italiano e si rifugia nel mito: stivali col tacco, speroni, due Colt con impugnature d’avorio e sguardo da sceriffo. E impara a sparare con entrambe le mani. Da qui il soprannome “Two Gun” Hart.

Dopo il primo conflitto mondiale si insedia a Homer, Nebraska, sposa Kathleen Winch nel 1919 e nel 1920 avvia la sua carriera come agente federale del proibizionismo. Qui mette a frutto la sua perizia da tiratore: le cronache dell’epoca parlano di incursioni notturne, sequestri di alambicchi e bottiglie, decine di arresti (fra i quali almeno 20 ricercati per omicidio), tanto da essere definito “un loose cannon”, una scheggia impazzita .

Nel 1926 viene nominato agente speciale del Bureau of Indian Affairs, e opera nelle riserve indiane combattendo il contrabbando tra i nativi. In occasione di una visita del presidente Coolidge alle Black Hills del 1927, gli viene affidato il servizio d’onore con protezione presidenziale. Insomma, è un personaggio, quando entra nel saloon, la gente si sposta di lato: un uomo tutto d’un pezzo, dalla morale incisa nella roccia.

Ma un giorno, durante un inseguimento, un uomo rimase ucciso. Lo processano per omicidio colposo. Viene assolto, ma perde il posto al Bureau, e in seguito anche il lavoro da marshal per aver rubato dei viveri da una drogheria. Era la Depressione. Era l’America degli uomini che cadono senza rumore.

Negli anni Trenta entra in contatto con due dei fratelli che non vedeva da decenni. Ma della famiglia non parla mai volentieri. Si è costruito un’identità tutta sua, ed è deciso a portarla fino alla tomba. Ma nel 1951 ci si mette di mezzo il destino: lo chiamano a testimoniare al processo per evasione fiscale di Ralph, uno dei suoi fratelli.

Richard si presenta in tribunale a Chicago. L’aula è piena. L’aria sa di sudore, carta bollata e sigarette. Le porte si aprono e la gente stupita vede entrare “un uomo alto, dritto come un pioppo secco, col cappello Stetson calcato sulla fronte e gli stivali che risuonano sul parquet come tamburi in marcia”.

Il giudice lo squadra dall’alto in basso: “Nome?” “Richard James Hart”. “Professione?”. “Ex agente federale. Proibizionismo, Bureau of Indian Affairs, forze di polizia tribali. In pensione”. Poi risponde secco a un paio di domande del pubblico ministero. Che a un certo punto con un mezzo sorriso lo guarda fisso negli occhi e chiede: “Signor Hart... è vero che il suo nome di nascita non è quello che ha appena dichiarato?”.

Una pausa. Silenzio. Il giudice alza un sopracciglio. Richard si toglie il cappello. E risponde a testa bassa: “Mi chiamo James Vincenzo Capone. Sono il fratello maggiore di Ralph, l'imputato. E anche di Alfonso, più noto come Al Capone.

L'aula esplode, i giornalisti scattano in piedi, il giudice batte il martello tre volte: uno dei più noti agenti del west, flagello di contrabbandieri e assassini a cavallo è un Capone! Suo fratello è Scarface, il terrore di Chicago!

In quegli anni il ricordo di Al Capone è ancora vivissimo. Il boss dell'impero criminale che negli anni Venti ha messo a ferro e fuoco Chicago, incastrato nel 1931 solo grazie all'accusa di evasione fiscale, si è fatto 11 anni di carcere, poi si è ritirato nella sua villa in Florida dove è morto per un ictus nel 1947.

Richard, che non ha più rivisto il fratellino più piccolo lasciato a Brooklyn e ha appreso dai giornali della sua carriera criminale, conclude la sua testimonianza, si rimette il cappello in testa, esce senza dire una parola con lo sguardo dritto come la canna della sua Colt.

Non gli è bastato fuggire da New York lontano da ogni ombra mafiosa, in cerca di un destino diverso da quello che aspettava i suoi fratelli. Non gli è bastato cancellare il suo nome e fabbricarsi una vita da eroe del west. Il passato lo ha ritrovato.

Il giorno dopo la sua storia è su tutti i giornali. Il pistolero ammirato dalla brava gente del west, il famoso “Two-gun Hart” è il fratello di Scarface. Neanche un anno dopo morirà d'infarto a Homer, Nebraska, la città dove aveva scelto di vivere. Riposa nel cimitero locale. Il nome sulla lapide è Richard J. Hart.





mercoledì 11 giugno 2025

768 - IL TRIANGOLO


 
 

Questa è la storia di tre vite intrecciate dalla musica. Dentro c’è tutto: amore, soldi, desiderio, amicizia, successo, cocaina, tradimenti e la fortuna di vivere insieme un’epoca irripetibile.

Nel 1964, George Harrison è uno dei Beatles, e ho detto tutto. Pattie Boyd, invece, una delle tante giovani modelle inglesi con la frangetta alla Jean Shrimpton e il fascino fresco di Carnaby Street. Si incontrano sul set di *A Hard Day’s Night*. Lui le chiede di uscire quel pomeriggio stesso. Lei rifiuta: “Ho un fidanzato.” Risposta che farà solo accelerare le cose. Due anni dopo, sono marito e moglie.

 Il matrimonio inizia sotto i riflettori, ma scivola presto dietro le ombre lunghe del successo. George è già... tutto: chitarrista amato, mistico curioso, beatle silenzioso. Ma anche fragile, introverso, sfuggente. Quando nel 1968 si innamora del sitar e dell'arte di Ravi Shankar, si porta a casa anche il bisogno di silenzio, digiuni e meditazione. Pattie, invece, si ritrova spesso sola. “George era lunatico. Un giorno parlava di Krishna, il giorno dopo si faceva di cocaina,” scriverà nella sua autobiografia.

Ma al tempo stesso George nel 1969 scrive “Something”, una delle sue canzoni più celebri e amate, proprio per Pattie. La canzone è un inno all’amore, dolce e sincero, ed è una vera dichiarazione in musica.

Intanto, nel cerchio delle amicizie, compare Eric Clapton. All’inizio è solo un altro genio della chitarra. Poi diventa il migliore amico di George. Le cene a Friar Park, la villa immensa e misteriosa acquistata da Harrison, si fanno più frequenti. Clapton suona in salotto, Pattie ascolta. Clapton si innamora in silenzio. E nel 1970 le scrive una lettera firmata soltanto con una "E".

Pattie racconterà di aver pensato si trattasse di un fan ossessivo. La lettera - venduta all'asta nel 2024 da Christie’s per 107.000 sterilne - dice: “Vorrei chiederti se ami ancora tuo marito o se hai un altro amante. Tutte queste domande sono molto impertinenti, lo so, ma se nel tuo cuore c'è ancora un sentimento per me... devi farmelo sapere!”. 

Quello stesso anno, Clapton pubblica “Layla and Other Assorted Love Songs” con i Derek and the Dominos. Layla – lo dirà lui stesso in più interviste – era per Pattie. E' una dichiarazione, una supplica, un urlo struggente di desiderio e sofferenza, ispirato a un’antica storia d’amore raccontata nel poema persiano “Layla e Majnun”. Clapton ci mette dentro quel senso di lotta interiore tra l’amicizia e l’amore impossibile, la speranza e la disperazione.

Il triangolo è ormai palese. Quando Clapton gli confessa di amare sua moglie, George gli risponde imperturbabile: “Allora prenditela. Io l’avevo solo presa in prestito”. Aneddoto vero? Difficile dirlo. Philip Norman, nella sua biografia *George Harrison: The Reluctant Beatle*, la riporta con la giusta dose di ironia e ambiguità. “Con quei tre, non sai mai dove finisce la verità e dove comincia la leggenda,” dice a Rolling Stone. 

Pattie non nasconde i sentimenti che Clapton le suscita, ma resta con George anche dopo che lui ha saputo della relazione, e il matrimonio continua per un bel po’. E' un triangolo delicato. Clapton e Harrison continuano a essere amici, anche se con una lunga serie di “non detto” che pesano sul loro rapporto.

Il matrimonio va avanti fino al 1974, ma i due non sono più una coppia, e anche George si dà da fare: “Un giorno lo sorpresi a letto con Maureen Starkey” racconterà Pattie a The Guardian. Maureen è la moglie di Ringo. E Harrison non si scompone, le sorride e dice: “Non significa niente”. 

Nel 1977, dopo tre anni di separazione, Pattie divorzia da George e sposa Eric. “Ero in cerca di amore. Ma mi bastò poco per accorgermi che anche Eric aveva bisogno di aiuto,” scriverà lei. Alcol, gelosia, dipendenze, e poi il tradimento: il secondo matrimonio è anche più difficile del primo. Nel 1989, il secondo divorzio.

Oggi Pattie vive serena con il marito Rod Weston. Ha messo all’asta lettere, foto e memorie, di George e di Eric. Non per rancore, ma – come ha detto in un'intervista – “Perché sono oggetti che hanno fatto il loro tempo. Ora che altri se ne prendano cura.” 

Ma se I suoi ricordi li ha venduti (a caro prezzo), a noi ha lasciato il regalo più bello: “Something” e “Layla”, due storie d'amore create solo per lei.




venerdì 30 maggio 2025

767 - IL VELIERO NEL DESERTO

 


C'è un punto della Namibia in cui il deserto abbraccia l’oceano. Si chiama Skeleton coast, e qui nel 2008 dalle sabbie del Namib è uscito un incredibile veliero portoghese del 1500.

La Costa degli scheletri: scheletri di balene, di marinai, di navi. Il mare da quelle parti non perdona: è uno dei tratti più letali del pianeta, dove nebbia, correnti e vento si alleano per schiantare le imbarcazioni che osano avvicinarsi a terra.

Anno 2008, un bulldozer scava alla ricerca di diamanti. Perché la terra, laggiù, è madre e matrigna, ti può regalare pietre preziose o una sepoltura senza lapide. Il regalo di quel giorno però non se lo aspetta nessuno. La pala della ruspa urta contro un altro metallo. Non è una roccia, né una cassa dimenticata da qualche cercatore. E' un frammento di tempo.

Sotto la sabbia, a poco più di duecento metri dalla linea d'acqua, c’è il Bom Jesus. Nome evangelico per un relitto perduto. La nave, appartenente alla flotta reale di re Giovanni III, era salpata da Lisbona il 7 marzo 1533, con a bordo fra i 100 e i 150 uomini tra marinai, mercanti e schiavi. Il suo carico? Una wunderkammer del Rinascimento: 1.845 lingotti di rame marchiati dalla potente famiglia Fugger di Augusta, oltre 100 zanne di elefante provenienti da 17 branchi diversi dell’Africa occidentale, più di 2.000 monete d’oro e d’argento di varia provenienza, tra cui spagnole, portoghesi, veneziane e moresche.

Quasi 500 anni prima una delle tante violente tempeste aveva sbattuto la Bom Jesus sulla costa. I corpi finirono tra le dune o divorati dai granchi. La nave, invece, fu accolta dall'abbraccio della sabbia: poi lentamente, per secoli, le dune l'hanno ricoperta proteggendola da batteri, salsedine e tempo.

Le condizioni ambientali uniche della zona, con la presenza di rame tossico per i batteri marini e le fredde correnti oceaniche, hanno contribuito a preservare incredibilmente bene il relitto e il suo contenuto. La Bom Jesus è finita sepolta sotto la sabbia a 200 metri dalla linea di costa attuale: in 500 anni, la dinamica della costa e delle dune è infatti cambiata: in certi punti il deserto è avanzato verso l’oceano, in altri la linea di marea si è ritirata.

Quella riaffiorata nel 2008 è una vera capsula del tempo. Le assi, ancora tenaci. Le monete, ancora lucide. Le zanne, ancora bianche. Gli archeologi si sono trovati di fronte non a un relitto, ma a un messaggio dal passato: il mondo del Cinquecento era lì, in attesa di raccontarsi, sepolto sotto il deserto. A sentire i vecchi del posto sarebbero decine le navi invisibili, “inghiottite” dalla sabbia e in attesa di essere riportate alla luce, di tornare a raccontare le loro storie.

Chi passa oggi da Oranjemund può vedere lo scheletro della nave. I reperti stanno al museo di Windhoek, in teche illuminate. Ma il vero tesoro resta intangibile: l’idea che sotto i nostri piedi possa ancora battere il cuore di una nave. Che la sabbia, quando decide, possa restituire la voce a ciò che credevamo perduto.

sabato 3 maggio 2025

766 - CACCIATORI E PREDE


 

 In Vietnam i marines americani erano preparati ad affrontare il nemico nell'inferno della giungla tropicale. Ma non si aspettavano di dover combattere contro centinaia di tigri.

Il 5 maggio del 1970 – lo stesso anno in cui Muhammad Ali torna a combattere mentre le radio gracchiano il soul di Marvin Gaye – un elicottero UH-1 Huey fende come una libellula il cielo torrido del Vietnam e atterra a quaranta chilometri da Da Nang.

Dalla pancia di metallo saltano fuori sette uomini, facce giovani e troppo vecchie insieme. Comanda la pattuglia il sergente Robert C. Phleger, 32 anni, un’aria da quarterback esperto e una fede al dito che luccica più del sole malato sopra la giungla: ha sposato alle Hawaii appena una settimana prima la sua ragazza delle superiori, e torna dalla licenza con ancora addosso il profumo dell’oceano.

La pattuglia si muove guardinga tra bambù e zanzare, nel cuore verde dell’inferno. La missione è localizzare movimenti vietcong. Ma la giungla – chi c’è stato lo sa – ha regole sue. Non c’è Nord o Sud. C’è il fruscio, il sudore, la febbre e il sospetto. Camminano tutto il giorno, lasciandosi dietro il rumore dei passi come unica traccia. Quella notte, si accovacciano in buche scavate in fretta, ciascuno col proprio pensiero. Il sergente si prende il primo turno. E' il più esperto. E il più sfortunato.

Sono le 20 quando un tonfo e un urlo che non è più umano spezzano il silenzio. I sei soldati lanciano l'allarme. “Mantenete la posizione, restate immobili fino al sorgere del sole” è l'ordine che arriva via radio. Segue una notte di paura, occhi sgranati e fucili spianati.

All'alba vanno in cerca di Phleger, ma trovano solo uno zaino, un fucile pronto a sparare che non ha sparato, e una scia di sangue che verga la terra come una firma crudele. La seguono, e a 50 metri lo vedono riverso su un tronco, gli occhi spalancati, il corpo martoriato, il collo spezzato da una forza che non è umana.

Poi, la tigre. Duecento chili di muscoli e fame. Furiosa e feroce, appare tra le felci come un demone antico, con gli occhi che ardono. E loro sono troppo vicini al suo pasto. Non è paura, quella degli uomini. E' peggio. E' l'ancestrale sensazione di sentirsi prede. Aprono il fuoco, la bestia scappa, ma ruggisce la sua sfida. Li attaccherà ancora, quando meno se lo aspettano. E' una promessa e una certezza.

Seguono 24 ore di batticuore e nervi bruciati, la tigre li segue come un incubo, li assale all'improvviso, più volte. Loro sparano con tutte le armi, lanciano anche granate. Alla fine come nei film arrivano i nostri: un elicottero li tira su uno dopo l'altro, c'è chi prega e chi piange. Portano con sé i resti del sergente avvolti in un telo militare, e un ricordo che li tormenterà per il resto della vita,

Una storia di guerra ai confini della leggenda? No, la cronaca di uno dei tanti attacchi di tigri ai danni di militari americani nel corso della “sporca guerra”. Quanti? Tanti dicevamo, tantissimi. La censura militare non ci consente di avere dati precisi: non era certo il caso di caricare i bravi ragazzi americani anche della paura delle tigri. Basti dire però che alle sigle classiche “Kia” (Killed in action - uccisi in azione), “Wia” (Wounded in action - feriti in azione) e “Mia” (Missing in action - dispersi in azione) per il Vietnam viene aggiunta la sigla “Eia” (Eaten in action - sbranati in azione).

Ma davvero negli anni 60 e 70 la giungla del sudest asiatico è infestata dalle tigri? Certo, e il motivo c'è: la colpa è proprio della guerra che ha sconvolto l'ecosistema e fatto saltare la catena alimentare. Le consuete fonti di cibo dei felini sono tutte fuggite verso terre più tranquille, o vengono mangiate dalla popolazione affamata. E le tigri sono costrette ad attaccare la preda che normalmente preferiscono evitare: l'uomo.

Ovviamente non ci sono solo gli americani, ma anche soldati vietnamiti e interi villaggi di contadini fuggiti nella giungla: migliaia di esseri umani indeboliti dalla fame e dalla guerra. Degli attacchi subiti da questi ultimi si sa anche meno, ma sicuramente non si contano. Perché l'abbondanza di prede “facili da catturare” ha fatto si che in poco tempo la popolazione di “mangiatrici di uomini” sia cresciuta in maniera esponenziale. Nel 1967 nella sola provincia di Quang Tri si contano oltre 3.000 tigri. Insomma, le guerre in Indocina hanno dato vita alla più numerosa e robusta popolazione di tigri che la storia ricordi.

Non a caso, firmata la pace con gli americani il Vietnam (ma anche la Cambogia e il Laos) hanno dichiarato guerra alle tigri. Negli anni seguenti, nonostante le proteste delle organizzazioni ambientaliste, lo sterminio è stato sistematico, e nel 1997 la tigre è stata dichiarata ufficialmente estirpata dal territorio vietnamita.

venerdì 2 maggio 2025

765 - IL PARADISO DEI TOPI


  

Dio ha il camice bianco, e il paradiso e' un recinto quadrato con tutti i comfort, una sorta di Truman show per topi.

Si chiama Universe 25, il nome glielo ha dato John B. Calhoun, il demiurgo in camice bianco. Quattro pareti alte al centro di un laboratorio, mangiatoie sempre piene, acqua fresca a volontà, nidi in quantità. Nessun predatore. Nessuna malattia. Nessun bisogno insoddisfatto. Un mondo ideale. Un sogno di ordine e abbondanza. Dentro, una piccola colonia di topi, puliti, sani, selezionati.

Siamo al National Institute of Mental Health di Poolesville, nel Maryland, e Calhoun è un etologo e psicologo. Obiettivo dell'esperimento, condotto fra il 1968 e il 1972, studiare il comportamento sociale attraverso la simulazione di un'utopia. Come è andata? Vediamolo insieme step by step.

Fase 1 – Adattamento: tutto procede tranquillamente.C’è cibo, c’è spazio, tutto va nel verso giusto. E' il sogno americano in versione roditore. Ma come ogni utopia, anche questa ha un orlo scucito, un piccolo strappo da cui comincia a penetrare l’inquietudine.

Fase 2 – Esplosione demografica: i topi si riproducono senza freni, la popolazione raddoppia ogni 55 giorni. Il giorno 315 la colonia conta 600 roditori, i problemi iniziano con la lotta per il territorio

Fase 3 – Saturazione: i maschi dominanti diventano iper-aggressivi, gli altri fuggono, si isolano, diventano apatici. Anche le femmine diventano aggressive, perdono l'istinto della maternità, non curano più i cuccioli, li abbandonano, alcune li divorano. Un gruppo di topi sviluppa comportamenti ossessivi, come la toelettatura compulsiva. Poi nascono loro, i “Beautiful ones”. Bellissimi, lucidi, impeccabili. Non litigano, non si accoppiano, non si sporcano mai. Stanno ore a pulirsi il pelo, sono topi-narciso, creature splendide e inutili. Vivono solo per sé stessi, senza relazioni, non combattono, non si riproducono.

Fase 4 – Collasso: la popolazione smette di crescere e poi inizia a diminuire rapidamente, nessuno si accoppia più. E nessun componente della colonia sembra farci caso. Non c’è più desiderio, non c’è più eros, non c’è più voglia di svolgere qualunque attività. I topi, semplicemente, si dimenticano come si vive. E così, in un ambiente perfetto, uno dopo l'altro muoiono. Tutti.

Nel silenzio ovattato del laboratorio Calhoun osserva dall'alto, come un Dio lontano e imperturbabile, senza intervenire. Guarda il paradiso trasformarsi in inferno. Non per fame, non per guerra ma per vuoto. Fino all'ultimo topo. Il resto è silenzio.

Lo studio di Calhoun si conclude con una diagnosi spaventosa: “morte comportamentale”. Vinte le malattie, la fame, i pericoli e le paure la società collassa per sovrappopolazione, assenza di stimoli, perdita di ruoli. Una lezione amara, che sembra sussurrare all’orecchio di ogni civiltà troppo sicura di sé: non basta riempire i frigoriferi e cancellare i pericoli; se l'unico scopo è soddisfare ogni bisogno, se togli le relazioni, se togli il senso, togli anche l’anima.

Tranquilli comunque, dall'esperimento sono passati più di 50 anni, e oggi la maggior parte degli studiosi sottolinea che sarebbe un errore fare due più due e applicare agli esseri umani le conseguenze di un test condotto sui roditori. Insomma, siamo uomini, non topi. O no?



lunedì 28 aprile 2025

764 - LA ISLA BLANCA


 

 Questa e' la storia di una barca bianca che arrivo' su un'isola dove non sarebbe mai dovuta arrivare con un carico di ricchezza e di morte che cambio' per sempre la vita di tutti gli abitanti.

Il 6 giugno 2001, il villaggio di Pilar da Bretanha, nel nord-ovest dell’isola di São Miguel, nelle Azzorre, si sveglia con un’aria diversa. Non è un giorno speciale, ma di lì a poco lo diventerà. Di primo mattino una barca bianca appare all'orizzonte, spinta dal vento e dalle correnti.

E' un catamarano in avaria, salpato dal Sudamerica e diretto in Spagna. A bordo, centinaia di chili di cocaina non tagliata racchiusa in contenitori di plastica grandi come mattoni. Nei giorni successivi al naufragio, i pescatori di Pilar da Bretanha trovano i primi pacchetti di quella sostanza che sembra farina nascosti tra le rocce e le reti. Poi il mare restituisce altri carichi. Qualcuno chiama la polizia che ne conta 270 per un peso di 290 chili. Nei giorni successivi altri 500 chili. Ma ce ne sono molti, molti altri, si pensa fra i 500 e i 3000 chili.

Ma non tutti denunciano la scoperta. Per molti la polvere bianca è una fortuna insperata, una sorta di tesoro, un miracolo. Non sanno che è un miracolo che costa caro. E in breve le strade di Pilar si riempiono di voci e di sussurri, di nuovi commerci, di nuove opportunità che sembrano arrivare dal nulla.

Fra i primi a trovarla due pescatori che ne recuperano tanta, tantissima, e la vendono a prezzi irrisori rispetto al mercato. La voce si sparge più veloce del vento: "C'è polvere buona laggiù, e tanta da riempirci l’isola”. Inizia la corsa. Uomini, donne, ragazzini: a rovistare tra le scogliere, a strappare al mare pacchetti gonfi di sogni.

La cocaina invade il paese, si infila nelle case, si mescola all’odore di pesce e di terra umida. C’è chi racconta di averne consumata un chilo in un mese, ci sono casalinghe che, ignare, la usano come farina per il pane o come zucchero per il caffè.

Andre Costa, un impresario e musicista che suona alle feste di paese, racconta: “Vendevano bicchieri pieni di polvere bianca nei bar. Bicchieri! A pochi spiccioli. Come vendere birra al porto”.La cocaina, prima quasi sconosciuta in un’isola così lontana da tutto, diventa la protagonista indiscussa delle vite dei suoi abitanti.

E inesorabilmente in breve arrivano le prime morti per overdose. Sono soprattutto giovani: iniziano per gioco, per sfida, e finiscono in ospedale, in coma. Il dottor Mariano Pacheco all’ospedale di Ponta Delgada ricorda bene gli occhi vuoti che arrivavano su barelle sporche di sabbia. “Ne salvammo alcuni, Ma altri non ce l’hanno fatta. È stato devastante, non eravamo preparati a una cosa del genere”.

Intanto la polizia locale indaga per scoprire l’origine del carico di coca. Il timoniere del catamarano, Antonino Quinci, ha due identità e due passaporti. E' lui l'uomo incaricato di portare il carico a destinazione. Più difficile arrivare all'organizzazione che gestisce il traffico. Le manette scattano solo per Quinci. L’uomo che ha portato la polvere del paradiso e il fango dell'inferno sull'isola cambiandola perc sempre rimarrà in carcere per 10 anni.

Oggi a São Miguel la storia della barca bianca è ancora un fantasma che si muove tra i campi e le taverne. Qualcuno con il denaro sporco ha fatto fortuna, ha aperto negozi e ristoranti ancora in piena attività. Altri invece non sono mai usciti dal buco nero che la polvere ha scavato nelle loro anime.

E le Azzorre, un tempo tranquille, sono diventate un punto di passaggio strategico nel traffico internazionale di droga. La vicenda ha ispirato il romanzo di Niccolò Agliardi “Ti devo un ritorno”, pubblicato nel 2017, e “La isla blanca” sta per diventare una serie Tv in 8 puntate.

giovedì 24 aprile 2025

763 - LA GUERRA DEI BIKERS


 

Quest'ala del carcere era riservata ai bikers. In pratica qui comandavano loro, gli Hell's angels. Finché la prigione non fu attaccata dalla banda rivale, i Bandidos, con razzi anticarro...”

Scusi, può ripetere?”. Le cose che ascolto sono così assurde che penso di aver capito male. Invece è tutto vero. Sto visitando il carcere di Horsens trasformato in attrazione turistica, e scopro che la pacifica, civile Danimarca pochi anni fa è stata teatro di una guerra violentissima dai tratti surreali e con un finale ai confini della realtà. Sentite come è andata e giudicate voi.

E' il capodanno del 1980 quando gli Hells Angels in sella a luccicanti Harley Davidson irrompono sulla scena danese. Per contrastarli nascono i Bullshit MC. Seguono anni di agguati, scontri e funerali. Alla fine il bilancio è di otto Bullshit morti contro un solo Hells. Nel 1988 i Bullshit, sconfitti, si sciolgono.

Ma la vera guerra deve ancora cominciare. Nel 1993 i vecchi nemici degli Hell's Angels si uniscono ai Bandidos, arrivati in Europa via Marsiglia. Quello che segue è follia. Le due bande si organizzano militarmente, assaltano depositi dell'esercito e portano via armi di ogni tipo. E le usano.

Nei due anni successivi la Danimarca sembra il Medio Oriente: Razzi anti-tank contro le club house, sparatorie nei bar, raid alle feste e ai concerti. Nel febbraio ’97, in pochi giorni, tre attacchi con razzi devastano le prigioni di Horsens, Køge e Holbæk, dove sono rinchiusi i bikers arrestati per le violenze.

O meglio, più che rinchiusi, ospitati: Hell's Angels e Bandidos non sono normali detenuti: sono arroganti, violenti, le autorità non riescono a gestirli; li chiamano “detenuti a controllo negativo”. Tradotto: comandano più dei secondini. Li isolano in blocchi speciali con cucine autonome dove cucinano da soli e celle più comode. Una struttura parallela, uno Stato nello Stato con leggi e gerarchie proprie. Un apparato capace, per uccidere i propri nemici, di attaccare con razzi anti-tank, armati fino ai denti, le stesse prigioni dove sono rinchiusi.

Fuori intanto è l'inferno: sparatorie ai semafori con mitra e granate a mano, fuggitivi inseguiti fino all'aeroporto, decine di razzi anticarro lanciati tra il 1994 e il 1997. A Copenaghen un missile colpisce in pieno una sede degli Hells Angels, nelle città piccole e grandi esplodono autobomba, dai tetti vengono lanciate granate, missili esplodono dopo aver penetrato i muri di cemento degli edifici. Alla fine della guerra si contano 11 morti (ma il numero è assai più alto, sono tanti quelli che in quegli anni sono scomparsi senza lasciare traccia), 96 feriti gravi, 74 tentativi di omicidio.

Già, perché a un certo punto la guerra finisce. Come? In un modo ancora più pazzesco. Guardo scorrere le immagini che mi mostrano nel carcere di Horsens e ancora una volta non credo ai miei occhi. E' il 4 settembre del 1997, nel video si vedono i leader di Bandidos e Hells Angels in giacche di pelle e occhiali scuri che si stringono la mano davanti alle telecamere della televisione di Stato danese e firmano la pace. Sì. Avete capito bene, un summit ufficiale in diretta tv davanti all'intera nazione, come due capi di Stato, con un noto avvocato come mediatore e la polizia di Copenaghen impegnata, anche se non ufficialmente, a fornire supporto logistico e sicurezza per la “conferenza di pace”.

A conti fatti, entrambi i club sono usciti dal conflitto più forti di prima, e oggi continuano a gestire le loro attività più o meno pulite. Per i reati commessi fra il 1994 e il 1997 sono state condannate 138 persone. L'ultimo biker imprigionato per i crimini commessi è stato rilasciato sulla parola nel dicembre 2015. Sembra un film distopico, invece è accaduto realmente nella pacifica, civile Danimarca, pochissimi anni fa.




venerdì 11 aprile 2025

762 - 1627 Attacco all'Islanda


 

 

Islanda, anno 1627. Da sempre le antiche saghe raccontano storie che non sai se sono cronache o leggende. Ma ce n’è una che ancora oggi, tra quelle case battute dal vento del nord, si racconta a bassa voce: quella dello sbarco dei turchi.

Per quanto possa sembrare incredibile i pirati barbareschi, uomini del deserto e del mare, gli stessi che in quegli anni mettevano a ferro e fuoco le coste di Italia, Spagna e Provenza, quell'estate arrivarono due volte, prima da Salé, poi da Algeri. Non erano “turchi” in senso stretto, ma così li chiameranno gli islandesi: “Tyrkjaránid”, i “rapimenti turchi”

Le navi nere compaiono all’orizzonte il 20 giugno, davanti al piccolo villaggio di Grindavík. Al comando c’è Murat Reis, un olandese convertito all’Islam e diventato pirata. Chi li avvista, non sa cosa pensare: non c’è ragione, non c’è logica, non ci sono difese. Solo pescatori, donne, bambini, la solitudine del nord, e una vita che pare troppo semplice per attirare il male.

I pirati catturarono una quindicina di islandesi, altri marinai danesi e olandesi. Prendono anche due navi. Una piccola guerra-lampo, brutale e silenziosa. Tentano pure uno sbarco a Bessastaðir, ma un manipolo di lancieri li ricaccia in mare.

Un mese dopo altre navi provenienti da Algeri costeggiano i fiordi orientali. A Berufjörður e Breiðdalur la gente viene svegliata dal fuoco appiccato alle case: 110 prigionieri, argento, bestiame, una nave danese affondata e un peschereccio inglese catturato sono il consuntivo della razzia.

La costa meridionale però si rivela ostile e inospitale, così puntano su Vestmannaeyjar, le Isole degli Uomini dell’Ovest. Il 16 luglio approdano e scatenano l’inferno: 234 persone rapite, 34 uccise. Bruciano il mercato, la chiesa, uccidono anche un ministro. Tre giorni e le isole sono vuote.

Le navi ripartono con le stive piene di prigionieri in catene. Li portano giù, verso il caldo soffocante di Algeri e Salé, dove verranno venduti come schiavi. Solo uno di loro fsarà rilasciato: Ólafur Egilsson, pastore luterano, inviato a chiedere soldi per riscattare i prigionieri. Impiegherà nove anni, attraversando mezza Europa.

Riuscirà a riscattare solo una parte degli schiavi: sono 34 gli islandesi che ripartono da Algeri. Sei morirono sulla via del ritorno, uno verrà lasciato a Glückstadt. Nel 1645 sarà pagato un riscatto per altre 8 persone, che faranno ritorno a Copenaghen. In totale 50 persone ottengono la libertà. La prigioniera più importante si chiama Guðríður Símonardóttir, tornata a casa sposerà Hallgrímur Pétursson, uno dei poeti più famosi d'Islanda.

E quelli non riscattati? I più giovani si convertono: quasi cento scelgono l’Islam . I più deboli muoiono di stenti. Alcuni vengono comprati da padroni benevoli, altri cadono in mani feroci, legati in catene dalla mattina alla sera, vestiti di stracci, nutriti appena. Per tutti loro l'Islanda rimarrà solo un sogno lontanissimo.



761 - IL SEGRETO DI GIBILTERRA


 

  A Gibilterra, fra le storie che il vento soffia attraverso le gole della Rocca, ce n’è una che per decenni ha bisbigliato nel buio di un tunnel. Non è una storia da libri né da medaglie quella della *Stay Behind Cave*, la caverna dei fantasmi viventi, uno dei piani più folli e straordinari della Seconda Guerra Mondiale.

Il nome ufficiale è Operazione Tracer, ma per chi ha occhi per leggere tra le righe, era un patto con la morte, un’ultima candela accesa, nel caso in cui tutto il resto si fosse spento.

Anno 1941. L’Europa ansima sotto il tallone del Terzo Reich. I porti bruciano, i cieli urlano di sirene, e Gibilterra — minuscola, strategica, incrollabile — diventa l’ago della bilancia sul Mediterraneo. I tedeschi hanno un piano: si chiama *Felix*. E prevede che Gibilterra cada. Gli inglesi, dal canto loro, ne hanno uno assai più strano. Prevede che Gibilterra cada... ma non del tutto.

Il contrammiraglio Godfrey — un uomo di idee così bizzarre che Fleming ne farà il modello per il suo “M” — prevede di lasciare una manciata di uomini dentro la Rocca. Sigillati vivi. Con viveri, acqua, radio, e una sola missione: guardare, ascoltare, riferire.

Così sceglie sei volontari. Nessuno di loro, per contratto morale, potrà tirarsi indietro. Medici, tecnici, uomini con la mente salda. La caverna intanto viene scavata in segreto, rivestita di sughero per non lasciar filtrare nemmeno un sussurro. Due feritoie per scrutare il mare. Una bicicletta per generare energia. Un bagno, un serbatoio d’acqua.E la consapevolezza che, una volta dentro, la porta si richiuderà alle spalle dei sei. Senza chiave.

Il loro addestramento è affidato a un sopravvissuto dell’Antartide, George Murray Levick. Uomini che insegnano a vivere a chi deve imparare a morire. Si studiano le calorie, la disciplina, la decomposizione lenta della psiche umana nella prigione del silenzio. E nessuno si tira indietro.

Nel settembre del ’42, tutto è pronto. Ma la storia, come spesso accade, sterza. Gli alleati conquistano il Nord Africa, e poi la Sicilia. Gibilterra non serve più a nessuno, se non ai gabbiani e ai ricordi. Così il 24 agosto del 1943 arriva l’ordine: sigillare tutto, dimenticare tutto. Le pareti della *Stay Behind Cave* restano mute per oltre mezzo secolo.

Poi, nel 1997, alcuni speleologi del Gibraltar Caving Group sentono un alito d’aria che arriva da dietro un muro di mattoni. Lo sfondano, trovano una porta, e dietro una stanza dimenticata dal tempo, con resti di biciclette, un’antenna, e pareti silenziose come un voto.

Ci vorranno dieci anni per confermare che sì, è proprio lei: la grotta degli invisibili. L’antro degli uomini disposti a diventare memoria senza mai essere stati storia.

Nel 2008, uno di loro — il medico Bruce Cooper — torna a Gibilterra. Ottantasei anni e un volto che sembra scolpito nella roccia. Racconta tutto: i compagni, la preparazione, la claustrofobia studiata a tavolino. Gli occhi fissano il vuoto, pronti a vederlo riempirsi di tedeschi.

Morirà due anni dopo, nel 2010. Nessun monumento. Nessuna targa in bronzo. Solo la voce roca della Rocca, che ogni tanto, quando il vento è giusto, sembra sussurrare i nomi che nessuno ha mai conosciuto. E forse va bene così. Alcune storie, come certi amori, si custodiscono meglio nel buio.



sabato 30 marzo 2024

760 - DIETRO IL PADRINO

 


 

Un'offerta che non si può rifiutare. A trovarsela davanti è stato Francis Ford Coppola al momento di iniziare a girare Il padrino. Le cose sono andate così.

 L'anno è il 1972, e il regista sta per dare il primo ciak a quello che diventerà il più celebrato fra i film sulla mafia. Joseph Colombo, boss di una delle “Cinque famiglie di New York” chiede di parlare con Coppola e col produttore Al Ruddy. Paura!

Colombo dirige la Lega italo-americana per i diritti civili, che ha fondato due anni prima, e forte di questa carica presenta tre richieste: niente rappresentazioni culturali che risultino negative per gli italiani, niente rimandi offensivi agli stereotipi dello “spaghetti” violento e ignorante, e soprattutto mai usare la parola "mafia".

Regista e produttore prendono tempo, ci pensano su, valutano pro e contro, e alla fine accettano. Il risultato è che la lavorazione del film fila liscia come l'olio. Anche perché Colombo, soddisfatto dall'esito della trattativa, provvede a parlare con i vari sindacati coinvolti nella produzione, e le maestranze lavorano senza creare problemi né ritardi.

Colombo si appassiona al progetto, e va spesso sul set per seguire le riprese. Ad accompagnarlo c'è un omone corpulento, Lenny “bull” Montana (vero nome, Leonardo Passafaro). Ex wrestler di un certo successo a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta, dopo essersi fatto qualche anno di carcere a Rikers Island per le sue attività non proprio cristalline per la famiglia Colombo, viene premiato dal boss che lo promuove a sua guardia del corpo per la fedeltà dimostrata.

Montana segue il suo capo come un'ombra, e una volta sul set gli rivela il suo grande sogno: fin da bambino ha sempre desiderato recitare. Il caso (almeno così ci auguriamo) vuole che l'attore che interpreta uno dei killer più importanti della famiglia Corleone muoia all'improvviso, e indovinate chi viene chiamato a sostituirlo?

Così Montana fa la sua apparizione sul set al fianco di Marlon Brando. Chi lo vede prima del ciak racconta di un'anima in pena: nervosissimo, legge e rilegge il copione, prova freneticamente le battute, le ripete all'infinito con la paura di sbagliare. Una di queste prove parossistiche, ripresa dalla troupe, sarà utilizzata per la scena in cui, agitatissimo, deve incontrare il padrino.

Alla fine il risultato è accettabile, il personaggio risulta credibile, e per Montana si apre una carriera da attore caratterista che lo vedrà recitare in una dozzina di film, oltre che in un paio di puntate di Magnum P.I.

Se questa storia vi ricorda un'altra storia, date un'occhiata a “Pallottole su Broadway” che Woody Allen dirigerà più di 20 anni dopo. Lì il mafioso che finisce per caso sul set, coinvolto nelle riprese si rivelerà un formidabile sceneggiatore. Chissà che nel famoso cassetto dei possibili soggetti che il regista newyorchese raccoglie e conserva nel suo appartamento non ci sia stata per una ventina d'anni una scheda alla voce Lenny Montana?


martedì 17 gennaio 2023

759 - AMORE FINO ALL'ULTIMO RESPIRO

 

La vera storia dei due anziani che il regista Cameron in “Titanic” ci mostra abbracciati nel letto mentre la nave affonda. Isidor Straus nasce nel 1845 a Otterberg in Germania. A 9 anni emigra con la famiglia negli Stati Uniti, e si stabilisce a Talbotton, in Georgia. Qui Rowland Hussey Macy (vi dice niente questo nome?) permette agli Straus di aprire un reparto di stoviglie nello scantinato del suo negozio. Nel 1871 Straus conosce Rosalie Ida Blun, di 4 anni più giovane di lui, e la sposa. La coppia avrà sette figli.

Nel 1895 Isidor insieme al fratello Nathan rileva l'azienda di Macy. Che negli anni diventerà una delle più importanti catene della grande distribuzione statunitense. Si, avete capito bene, proprio Macy's, il grande magazzino newyorchese che compare in cento film e che ogni anno per il Giorno del Ringraziamento, organizza la megaparata per le vie di Manhattan con carri allegorici ed enormi palloni aerostatici. Straus, oltre agli affari si dedica alla politica, e nel 1894 viene eletto alla Camera per il Partito Democratico.

Facciamo un salto in avanti fino alla primavera del 1912. Isidor e Ida ormai anziani fanno un viaggio in Europa con la nipote Beatrice; all'andata passano l'Atlantico a bordo del piroscafo Amerika, per il viaggio di ritorno decidono di imbarcarsi sulla prestigiosa nave della White Star Line di cui tutto il mondo parla; così il 10 aprile 1912 salgono (solo loro, la nipote Beatrice decide di prolungare la permanenza in Europa) sulla passerella del Titanic, al viaggio inaugurale. Con loro la cameriera Ellen Bird, appena assunta, e il domestico John Farthing.

Quello che accadrà lo sappiamo: la notte del 14 aprile la nave va a sbattere contro un iceberg, la collisione crea una una grande falla sullo scafo e in poche ore il Titanic cola a picco. Il comandante Smith ordina di imbarcare sulle poche lance a disposizione prima le donne e i bambini. I superstiti, e in particolare il colonnello Archibald Gracie che coordina le operazioni di salvataggio, ci raccontano quello che accade ai coniugi Straus.

Donne e bambini si accalcano all'ingresso della scialuppa, ma quando arriva il turno di Ida, lei rifiuta di salire senza il marito. Il colonnello Gracie decide di far salire anche Isidor, ma lui dice no, non vuol togliere posto a donne e bambini, dice che non lascerà la nave prima degli altri uomini. E la moglie resta accanto a lui. Secondo tutte le testimonianze dice "Non voglio separarmi da mio marito. Come abbiamo vissuto insieme, così moriremo, insieme", poi si toglie la pelliccia e la dà alla cameriera Ellen che sta salendo sulla lancia.

I coniugi Straus vengono visti per l'ultima volta abbracciati sul ponte della nave. Entrambi muoiono nel naufragio alle 2:20 del 15 aprile, con loro il domestico Farthing, mentre la cameriera Ellen Bird riuscirà a salvarsi. Solo il corpo di Isidor verrà ritrovato e sepolto nel Woodlawn Cemetery del Bronx.

Nel colossal Titanic del 1997 Cameron rende omaggio ai coniugi Straus, interpretati da Lew Palter e Elsa Raven, nella scena in cui due anziani passeggeri si tengono abbracciati sul letto mentre la cabina si riempie d'acqua. 

 



775 - LA DIMENTICANZA

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