sabato 16 agosto 2025

812 - L'AQUILA E IL LEONE


 

Fatti non foste a viver come bruti”: Dante spinge Ulisse oltre le Colonne d'Ercole, ed è subito mistero, ignoto, poesia. Gli antichi romani le hanno varcate, per terra e per mare, duemila anni fa. E non è leggenda, è storia.

Tutto cominciò non “per seguir virtute e conoscenza” ma per una spedizione punitiva contro i Garamanti, nomadi del Fezzan che tassavano le merci dirette al Mediterraneo. Erodoto li descrive come abili nell'uso delle quadrighe, con le quali combattevano ed inseguivano i “trogloditi Etiopi”. Per i romani è un salto nel vuoto, alla scoperta del mondo oltre le dune, quello che sulle mappe medievali sarebbe stato segnato con “Hic sunt leones”.

Lucio Cornelio Balbo, uomo di frontiera e politico astuto, partì da Sabratha nel 20 a.C. con la Legio III Augusta e una colonna di ausiliari. Attraversò oasi come Cydamus e Tabidium, prese Garama e poi spinse lo sguardo verso sud, dove il deserto si fa pietra e silenzio. Al ritorno a Roma gli fu decretato un trionfo, cosa rara oer un provinciale. Le fonti tacciono su quanto si sia spinto oltre, e ci lasciano senza certezze.

Parlano chiaro invece le pagine di Tolomeo che in quelle stesse aree raccontano del viaggio di Settimio Flacco e Giulio Materno fra l'80 e il 90 d.C.: tre o quattro mesi di marcia in direzione sud, attraverso montagne e hammada, fino a un “lago degli ippopotami” e a una terra, Agisymba, popolata di rinoceronti ed elefanti. Forse il lago Ciad, forse un miraggio geografico, ma abbastanza reale da restare nella memoria del geografo.

In un'altra direzione, per via di mare, le navi romane arrivarono sulla costa atlantica del Marocco a Sala Colonia (vicino a Rabat) e a Mogador/Essaouira dove fondarono colonie, mentre sulla piccola isola di Lobos nelle Canarie sono stati trovati resti romani del primo secolo a.C. prova di presenze commerciali episodiche, se non di colonie.

Nell'entroterra maghrebino invece Plinio il vecchio colloca Gaio Svetonio Paolino che attraversò l’Atlante innevato, primo romano a farlo, superando un fiume (il Sous?) e guardando dall’alto la distesa del territorio dei Mauritani che porta all’oceano. Oltre restano le ipotesi: piste carovaniere tracciate secoli prima, commerci di avorio e oro, mercanti che raccontano di terre lontanissime, monete romane trovate ben oltre il Sahara.

Niente prove sicure di legioni al Niger o in Senegal, (come ipotizzato da alcuni studiosi) ma di certo in un tempo lontano l'ombra dell'aquila romana si è allungata oltre le sabbie del Sahara fino a sfiorare l’Africa nera, sulle terre dove vive il leone.



811 - LA DONNA CHE SALVO' L'APOLLO 13


 

Nella storia della scienza ci sono nomi che rimangono nascosti, e spesso sono nomi di donne. Eppure senza di loro certe imprese non sarebbero mai state compiute.

Judith Love Cohen appartiene a questa schiera di eroi silenziosi: donna, ingegnera, capace di ritagliarsi uno spazio in un mondo che a metà del Novecento era una roccaforte maschile.

Judith nasce a Brooklyn nel 1933. Figlia di immigrati ebrei, da bambina viene pagata dai compagni per risolvere i compiti di matematica. Da adolescente danza al Metropolitan Opera Ballet, ma i numeri rimangono la sua vera vocazione.

Si laurea in ingegneria elettrica alla University of Southern California, in un’aula in cui è spesso l’unica donna. Seguono una seconda laurea all'Ucla e un master, tutto prima dei 29 anni. La sua carriera prende presto il volo: dalla North American Aviation alla TRW, ha un ruolo fondamentale in progetti chiave, prima per la guerra fredda, poi per la corsa allo spazio, come il missile Minuteman e i programmi Apollo e Hubble.

Il suo nome è legato soprattutto a un sistema dal nome enigmatico: l’Abort Guidance System (AGS). Un apparato pensato come backup nel caso in cui il sistema principale del modulo lunare si fosse guastato, che diventerà vitale per la Nasa nel 1970, quando la missione Apollo 13 rischia di trasformarsi in una tragedia.

Il 13 aprile l'equipaggio dell'Apollo in volo verso la luna lancia un SOS diventato storico: “Houston, abbiamo un problema”. A bordo è esploso un serbatoio. Energia e ossigeno scarseggiano, ed è proprio l'AGS della Cohen a permettere di correggere la traiettoria ed eseguire le manovre per un rientro sulla Terra che altrimenti non sarebbe mai avvenuto. Gli astronauti dell'Apollo 13 al ritorno dallo spazio andranno a ringraziarla personalmente nel suo laboratorio di Redondo Beach.

Negli anni Ottanta Judith Love Cohen, concluso il programma Apollo, ha un ruolo fondamentale in un altro progetto storico. E' la coordinatrice del sistema ingegneristico della struttura scientifica di terra del telescopio spaziale Hubble, un passo avanti determinante nell'esplorazione dello spazio profondo. E' l'ultimo grande contributo alla ricerca spaziale prima della pensione.

Ma non è finita qui: negli anni seguenti il tempo libero lo utilizza per creare con il marito la casa editrice Cascade Pass e pubblicare la collana “You can be a woman”, pensata per incoraggiare bambine e ragazze a intraprendere la via delle scienze. Risultato, più di centomila copie vendute, premi e riconoscimenti per aver saputo trasformare la sua esperienza in un modello da seguire.

Judith se ne va dopo una breve malattia il 25 luglio 2016 a 82 anni. Al momento della sua scomparsa è sposata da 35 anni con il terzo marito, David A. Katz, e ha trovato il tempo di crescere 4 figli. Ma a ricordarla non ci saranno solo loro: il suo nome vive nei manuali di ingegneria, nei ricordi delle missioni Apollo, nelle scoperte di Hubble, nei libri che hanno ispirato generazioni di ragazze a scegliere la scienza. E anche negli occhi e nella voce dell'ultimo dei suoi figli, quello nato il 28 agosto del 1969.

Già, perché ho lasciato per ultimo il suo aneddoto più celebre: è il 28 agosto del 1969, è passato poco più di un mese dal rientro a terra dell'Apollo 11 dalla luna, e Judith sta per partorire. E' già in travaglio quando la chiamano dalla Nasa. C'è un problema che può risolvere solo lei. Allora porta con sé all'ospedale gli schemi del progetto, trova la soluzione, telefona al capo per comunicare che è tutto ok, e finalmente entra in sala parto.

Poche ore dopo nasce il suo quarto figlio. Nessuno può immaginare che diventerà un attore di fama mondiale, capace di far ridere e cantare milioni di persone. Si, perché fra le altre cose Judith Love Cohen è anche la mamma di Jack Black.



giovedì 14 agosto 2025

810 - IL SILENZIO DELLE LAVANDAIE


 

Questa non è una storia di sangue e uccisioni, ma di violenza sì. Vittime, molte migliaia di donne. Carnefici, quattro ordini religiosi e lo stato irlandese.

Oggi vi racconto delle Magdalene Laundries, veri cimiteri dell’anima dove per decenni si sono consumate vite intere in silenzio. Il nome evoca Maria Maddalena, ma di evangelico non c'è proprio nulla. Nate in Irlanda nel 1767 come rifugi per “fallen women” (donne cadute), si trasformeranno presto in prigioni religiose.

All'inizio ricevono solo prostitute, ma in breve “accolgono” madri non sposate, ragazze orfane o abusate, chiunque sia ritenuto a rischio per la morale. Basta una gravidanza fuori dal matrimonio, una reputazione offuscata, un carattere considerato ribelle.

All’ingresso nell'istituto di redenzione diventi una penitente, ti cambiano il nome, ti tagliano i capelli e perdi ogni diritto di esistere fuori da quelle mura. Inizia così una nuova vita, forse peggiore di quella spesso già brutta lasciata alle spalle: lavoro gratuito nelle lavanderie commerciali, turni estenuanti, disciplina dura, umiliazioni e punizioni, il tutto sotto la sorveglianza severa delle suore.

E lo Stato? Finge di non vedere, invia ragazze, stipula contratti per il bucato di ospedali e caserme, lascia che tante di loro restino lì fino alla morte. Perché per molte c'è una data di ingresso ma non quella di rilascio. Anche la polizia è coinvolta nel rintracciare e riportare indietro le fuggitive.

E cosa accade nel caso (neanche troppo raro) facciano dei figli? Una penitente incinta non resta in lavanderia: viene trasferita di nascosto in una “Mother and Baby Home” dove il parto avviene lontano da sguardi indiscreti. Il neonato resta con la madre per il tempo dell’allattamento, dopodiché la donna viene rispedita alla lavanderia, a completare la sua penitenza. E i bambini? Vengono dati in adozione senza il consenso delle madri. Qualcuno muore nei primi mesi di vita, per malnutrizione o malattie, e finisce in fosse comuni anonime.

Per oltre due secoli le cose vanno avanti così. Il velo cade solo nel 1993. Le suore di Nostra Signora della Carità, in difficoltà economiche dopo un crollo in borsa che ha cancellato i loro investimenti, vendono parte della proprietà di High Park. Sotto il terreno c’è un cimitero. Vengono alla luce 155 cadaveri. Tutte donne vissute e morte lì, sepolte senza certificati di morte, senza avvisare le famiglie, senza un nome inciso sulla pietra. Solo numeri, fosse comuni e silenzio.

L’ultima lavanderia chiuderà nel 1996. Dal 1922 al 1996 gli ingressi sono stati 10.012, ma i ricercatori lo ritengono sottostimato per lacune d’archivio. Nel 2013 il governo ammetterà il proprio coinvolgimento e il primo ministro Enda Kenny chiederà scusa. Scuse che non restituiranno un volto, un nome e una storia alle migliaia di donne cancellate in nome della morale.



martedì 12 agosto 2025

809 - IL CAPO DI GABINETTO


 

Ricordate il film “La pazza storia del mondo”? Lì appare la figura del “garçon pipì” (nell'originale “Jacques, le garçon de pisse”) che accompagna costantemente il re per assisterlo nelle sue necessità corporali.

Una trovata del geniale Mel Brooks? Macché, è il cinema che fa il verso alla vita, e mette in scena una pagina di storia poco conosciuta. Non siamo nella Francia prerivoluzionaria però, ma nell'Inghilterra del sedicesimo secolo. Dove la chiave più ambita del regno è quella che apre la porta... della latrina del re.

Il titolo è curioso, Groom of the Stool. Letteralmente, il valletto dello sgabello. Ma “stool” nella lingua dei Tudor è un eufemismo: indica il “close stool”, il sedile (imbottito e rivestito di pelle d’agnello, velluto nero e nastri) con vaso incorporato dove il sovrano espleta le sue funzioni corporali.

E quel servitore, sempre un gentiluomo di rango, ha il compito di portarlo, prepararlo, fornire acqua e asciugamani, annotare la dieta e riferire al medico di corte. Che poi sia chiamato anche a pulire materialmente il regio sedere è tema discusso dagli storici, ma l’intimità è tale da scavalcare ogni etichetta.

La carica esiste già con Enrico VII, ma con Enrico VIII diventa un passaporto per il potere. William Compton, il primo Groom of the stool del suo regno, è l’amico di gioventù che ha accesso a ogni confidenza del re, finché la “sweating sickness” (la misteriosa e letale epidemia che per quasi un secolo flagellò il nord Europa per poi sparire inspiegabilmente come era arrivata nel 1551) non lo porta via nel 1528.

Poi viene Sir Henry Norris, brillante e rispettato, che però resta coinvolto nell'affaire Anna Bolena e finisce sul patibolo nel 1536. Altri, come Thomas Heneage, riescono a navigare meglio tra le tempeste di corte. Ma il più emblematico è Sir Anthony Denny, ultimo Groom del vecchio Enrico.

Denny è talmente vicino al re da custodire il “dry stamp” (impronta meccanica della firma regia); a riprova del valore clientelare dell’accesso “di camera” riceve pensioni e doni da chi cerca favori e usa quel denaro per acquistare terre. Decide poi chi può entrare nella stanza del sovrano morente, ed è lui con voce bassa e ferma, ad annunciargli che la fine è vicina.

In cambio di questa vicinanza, i Grooms ricevono terre, pensioni e doni; e a volte gestiscono persino le finanze personali del monarca. Un incarico nato per assistere il re nelle necessità più umili che, paradossalmente, apre le porte alle stanze dove si decide il destino d’Inghilterra.

Del resto nella corte dei Tudor, anche la parola “throne”, trono, ha due significati: indica il trono reale, simbolo del potere e della sovranità, ma anche la toilette, il sedile imbottito con vaso incorporato usato dal sovrano e gestito dal Groom of the stool.

808 - OPERAZIONE POPEYE


 

Non era una bomba, né un’arma chimica. Era acqua. Acqua trasformata in un'arma, scagliata dal cielo contro il nemico. Per cinque anni sopra le giungle del Sud-Est asiatico gli Stati Uniti condussero una guerra invisibile e segretissima.

Anno 1966, nasce l'Operazione Popeye. Il suo scopo è semplice e spietato: far piovere di più e più a lungo sulle piste fangose del Sentiero di Ho Chi Minh. Quel labirinto di strade e sentieri attraverso Laos, Cambogia e Vietnam è la linfa vitale dei rifornimenti nordvietnamiti. Allungare la stagione dei monsoni di qualche settimana significa trasformare quelle vie in paludi impraticabili.

L’idea nasce a China Lake, in California, dove gli scienziati della Marina perfezionano razzi pieni di ioduro d’argento o di piombo capaci di far condensare l’umidità nelle nuvole. I primi test, nell’ottobre del 1966, sono condotti in Laos, all’insaputa del governo locale: 50 tentativi, 82% di successo, e un episodio rimasto negli archivi militari, con 220 millimetri di pioggia caduti in quattro ore su un campo delle Forze Speciali Usa.

Dal 20 marzo 1967, Popeye diventa operazione reale. Tre WC-130 e due RF-4C Phantom del 54th Weather Reconnaissance Squadron decollano da Udorn, in Thailandia, due volte al giorno. Ufficialmente sono missioni di “ricognizione meteorologica”; in realtà, gli equipaggi lanciano flares (razzi carichi di ioduro d'argento e di piombo) nella pancia delle nubi. Lo slogan, mai ufficiale ma molto amato a bordo, è “Make mud, not war”, “Fate il fango, non la guerra”.

I dati diffusi molti anni dopo, quando i documenti dell'operazione Popeye saranno desecretati, registrano 591 missioni nel 1967 e 737 nel 1968 con carichi da 104 flares per velivolo. Gli stessi documenti parlano di incrementi delle precipitazioni fino al 30% negli stessi anni. Il livello di segretezza resta altissimo per tutto il periodo dell'operazione: ambasciatori tenuti all’oscuro, governi alleati non informati, smentite ufficiali al Congresso.

Alla fine però la storia trapela – prima con Jack Anderson nel 1971, poi sul New York Times nel luglio 1972 – ed esplode lo scandalo. Qualche anno dopo la Convenzione Enmod vieterà per sempre la guerra ambientale. E l'operazione Popeye entrerà nei libri di storia (quei pochi che ne parlano) dalla porta di servizio, per raccontarci che perfino le nuvole, se serve, possono diventare un campo di battaglia.




lunedì 11 agosto 2025

807 - PER AMORE DI TOTO'


 

C’è una tomba nella cappella De Curtis, al Cimitero del Pianto di Napoli che non appartiene a un familiare. È quello di Liliana Castagnola, la donna che Totò amò, perse e non dimenticò mai.

Eugenia Castagnola (questo il vero nome, Liliana è un nome d'arte) nasce a Genova l’11 marzo 1895. La madre è una libraia, ma lei sogna fin da piccola il palcoscenico. Dopo un matrimonio precoce e una maternità, lascia tutto per inseguire le luci del café-chantant.

E arriva il successo: in pochi anni percorre l’Italia e l’Europa, acclamata nei teatri più prestigiosi. Bellissima, indipendente, irresistibile: il suo fascino alimenta articoli e pettegolezzi.

Nel 1920, a Milano, l’amante Alberto Sala, pazzo di gelosia, le spara alla fronte, poi si uccide. Liliana sopravvive, ma porterà per sempre in testa il proiettile e nel cuore la cicatrice di un’ossessione che l'ha quasi uccisa.

A ricordargliela ogni giorno, le cefalee lancinanti di cui da allora soffre. I sonniferi, che porta sempre con se, diventano i compagni silenziosi della sua vita. Riprende però a cantare, e alla fine del 1929 la scritturano al Teatro Santa Lucia di Napoli.

Una sera in platea c’è un giovane comico che sta faticosamente costruendo la propria carriera: Antonio De Curtis. Lui le manda in camerino un mazzo di rose con un biglietto romantico. Lei risponde affettuosamente, e da quel momento i due iniziano a frequentarsi, si scambiano lettere e fotografie autografate (in una di queste Liliana gli scrive “Un tuo bacio è tutto”).

E' un amore breve e intenso. Lei, fragile e appassionata, inizia a immaginare un futuro insieme; lui, diviso tra i sentimenti e la carriera artistica, fra Antonio De Curtis e Totò. Ma la voglia di affermarsi come attore è troppa, così finìsce per allontanarsi. Quando accetta una lunga tournée, Liliana vede crollare ogni speranza.

La notte tra il 2 e il 3 marzo 1930, nella sua stanza della Pensione degli Artisti “Ida Rosa”, Liliana si trucca, si stende sul letto e ingerisce un tubetto intero di Veronal. Sul comodino lascia una lettera per lui: «Mi hai fatto felice o infelice? Non so… Ah, se mi fossi vicino! Mi salveresti, è vero?».

Totò arriva troppo tardi. La farà seppellire nella tomba di famiglia e, tre anni dopo, darà il suo nome alla figlia. Per tutta la vita custodìrà il fazzoletto trovato nella stanza della cantante, intriso di lacrime e rimmel. Quando morirà, nel 1967, quel fazzoletto sarà nella bara con lui.

Fra le poesie di Totò c'è questa quartina che, secondo molte fonti, sarebbe dedicata a lei:

È morta, s’è n'è gghiuta ‘n Paraviso!

Pecché nun porto ‘o lutto? Nun è cosa!

Rispóngo a’ gente e faccio ‘o pizzo ‘a risa,

ma dint’ ‘o core è tutta n’ata cosa”.


806 - LA TARTARUGA E LA LEPRE


 

Quando si presenta alla partenza dell’ultramaratona Melbourne-Sydney del 1983, Clifford Young sembra uscito da un’altra epoca.

Ha 61 anni, un paio di stivali da lavoro e un aspetto assai poco agonistico. Niente muscoli tirati, né scarpe tecniche, né una squadra che lo accompagna. I più pensano a uno scherzo. Alcuni si preoccupano sinceramente per lui. Altri ridono.

C'è una cosa che non sanno: nella sua fattoria di Beech Forest quando arriva una tempesta e il gregge si disperde Clifford da sempre esce a piedi e raduna 2.000 pecore su 2.000 acri di terreno, inseguendole anche per tre giorni consecutivi e dormendo quasi nulla. Una maratona personale che ha corso tante volte, non per vincere una coppa ma per sopravvivere

Ora, l’ultramaratona australiana non è roba da dilettanti, ti vuol vedere in faccia: 875 chilometri fra asfalto e sterrato. Gli atleti giovani e superallenati dormono sei ore ogni notte, dosano le forze, corrono seguiti da un team pronto ad assisterli.

Cliff no. Non sà neanche che si può dormire. Parte lento e continua a correre come Forrest Gump, con quel suo passo storto e cadenzato, trotterellando senza sollevare i piedi: negli anni successivi lo chiameranno "Young Shuffle", e diventerà una tecnica usata da molti professionisti.

Lui parte piano e mantiene sempre il suo passo, gli altri spariscono all'orizzonte. La prima notte raggiunge e supera i primi ritardatari. La seconda ne passa altri, tanti altri. Alla quarta notte è in testa. Alla quinta è una leggenda.

Taglia il traguardo dopo 5 giorni, 15 ore e 4 minuti. Dieci ore prima del secondo. Quando consegnano l’assegno da 10.000 dollari per il vincitore, dice che vuol dividerlo con tutti gli altri corridori: “Hanno faticato quanto me.”

E l’Australia si innamora di quell’uomo strano, vegetariano da 10 anni, senza dentiera, “mi ballano i denti quando corro” dice, e con un sogno più grande della vittoria: dimostrare che si può, anche quando tutti ti dicono il contrario.

Ormai è un personaggio, lo convincono a sposare una ragazza di 23 anni, Mary. Il matrimonio fa vendere parecchi giornali ma dura poco. Lui allora torna a correre, e a 75 anni prova un’impresa impossibile: 16mila chilometri intorno al continente per aiutare i bambini senzatetto. Stavolta non è solo: lo segue un coach su un veicolo di assistenza per cibo, logistica e sicurezza. Dopo “soli” 6.500 chilometri si ammala gravemente. Non Cliff, il coach. E lui è costretto a ritirarsi.

Muore nel 2003, a 81 anni, dopo una lunga malattia . Di lui restano due stivali di gomma incisi nella pietra in mezzo a un parco, il suo “young shuffle” ancora usato da tanti ultramaratoneti, e una lezione già narrata da Esopo 2500 anni fa: quando c'è la tenacia, non importa se sei lepre o se sei tartaruga.

sabato 9 agosto 2025

805 - LA STREGA NERA DI WALL STREET


 

Shylock? Pantalone? Arpagone? Dilettanti rispetto a Hetty Green, la donna più ricca d’America che trasformò la diffidenza in un’arte e l’avarizia in leggenda.

Nata nel 1834 a New Bedford, tra le nebbie dell’Atlantico e il profumo acre e salmastro delle baleniere, cresce in una comunità quacchera dove la sobrietà è legge e i conti tornano sempre. A sei anni legge il giornale economico del padre; a tredici tiene la contabilità di famiglia. Mentre le coetanee sognano crinoline e carrozze, lei rivende i vestiti nuovi per comprare titoli di Stato.

Quando il padre e due zie muoiono, eredita un patrimonio immenso. E fa ciò che nessuna donna aveva mai neanche pensato di osare: varca le porte severe di Wall Street, di nero vestita, passo risoluto e sguardo d’acciaio.

Gli uomini la osservano a bocca aperta, dandosi di gomito, e la battezzano subito “la strega nera di Wall Street”. Lei, con ironia tagliente, se ne fa un vanto. Compra per pochi dollari proprietà a Chicago ridotte in macerie dal grande incendio del 1871, presta milioni a New York in tempi di crisi, siede al tavolo con i magnati convocati da Roosevelt per salvare l’economia americana.

E vive come una mendicante: mangia torte da due centesimi, dorme in case fredde come magazzini, indossa un’unica sottoveste consunta cucita da ragazza. Si dice che cerchi ossi gratis per il cane e che si faccia curare alle cliniche dei poveri, che litighi con la servitù per un centesimo. La storia più crudele riguarda suo figlio Ned: quando si rompe una gamba, lei passa giorni a cercare un ospedale gratuito; quando alla fine si decide a pagare, è troppo tardi. L’infezione impone l’amputazione.

Fra pubblico e privato è lei stessa ad alimentare il mito dell'avara: è la sua cifra espressiva, la sua corazza in un mondo di uomini che non rispetta lei ma solo i suoi soldi. E che fatica ad accettare il confronto con una mente lucidissima, metodica, inflessibile che, in due occasioni presta somme decisive per evitare il collasso dell'intera città.

Non sono una donna dura – lascia scritto - ma non avendo una segretaria che testimonia per me tutto ciò che faccio di gentile, mi tacciano di essere chiusa, meschina e avara. Sono una quacchera e sto cercando di essere all'altezza dei principi della mia fede. Ecco perché mi vesto in modo semplice e vivo in tranquillità. Non mi piacerebbe vivere in nessun altro modo”.

Morirà nel 1916, a 81 anni, per un ictus fulminante dopo una lite con una cameriera sulle virtù del latte scremato . Il Guinness la registra come la persona più avara di sempre.

La figlia Sylvia appare insieme a lei in una foto sbiadita del 1909, il giorno del suo matrimonio con un rampollo della dinastia Astor. L'espressione della madre è arcigna e lievemente disgustata, la sua, per una volta nella vita ben vestita e agghindata a festa, rassegnata. Subito dopo la sua morte Sylvia fa costruire a sue spese un grande ospedale gratuito per i poveri. Nonostante tutto sotto cumuli di monete è germogliato un seme di tenerezza.

804 - L'ULTIMA TIGRE DELLA TASMANIA


 

L’ultima tigre della Tasmania non morì libera nei boschi né fu uccisa da un colpo di fucile. Morì nella notte gelida del 7 settembre 1936 chiusa fuori dalla sua gabbia per la distrazione di un guardiano.

Era una femmina, ma per decenni chissà perché l'hanno chiamata “Benjamin”. Viveva nello zoo di Beaumaris, a Hobart, sulle colline ventose del Queen’s Domains in Tasmania.

Una gabbia senza riparo adeguato, un custode che si dimentica di farla rientrare al coperto, la temperatura che scende sotto zero. Al mattino è troppo tardi: il corpo è rigido, la tilacina, questo il suo vero nome, non esiste più. Si è estinta.

Quella creatura dalle strisce sul dorso non era né una tigre né un lupo, ma un marsupiale predatore, unico nel suo genere. La chiamavano “tigre della Tasmania” anche se non aveva mai aggredito un essere umano. Aveva abitato il continente australiano per millenni prima che l'arrivo del dingo la cancellasse. In Tasmania era sopravvissuta più a lungo.

E in Tasmania non fu il dingo a causarne la scomparsa ma un altro predatore: l'uomo. In pochi anni ne uccisero a centinaia, con premi statali per ogni carcassa. Le davano la colpa di greggi sbranati, come se fosse un lupo mannaro dei tropici. In realtà era timida, silenziosa, evitava l’uomo.

Ma l’uomo non le restituì il favore. Fra trappole e agguati a colpi di fucile tra 1888 e 1909 furono pagati oltre 2.184 premi. In natura, l’ultimo individuo fu abbattuto nel 1930, ucciso da Wilf Batty nel nord-ovest della Tasmania. Ne rimasero pochi esemplari in cattività. C’è un vecchio video sgranato del 1933 in cui si vede l'ultimo esemplare camminare avanti e indietro nella gabbia dello zoo di Hobart.

Il 10 luglio 1936, due mesi prima della sua morte, la specie era stata dichiarata protetta. Troppo tardi. Dopo mezzo secolo senza avvistamenti, nel 1986, è stata dichiarata ufficialmente estinta. Da allora ogni 7 settembre in Australia si celebra la Giornata delle specie minacciate.







venerdì 8 agosto 2025

803 - ALL'OMBRA DEI GIGANTI


 

Roustam e Andrea sono entrati nella Storia dalla porta di servizio, senza mai comandare un esercito, firmare un trattato o pronunciare un discorso.

Il primo viene dal Caucaso, l’altro dal Sud America. Entrambi hanno la pelle scura e lo sguardo vigile. Ed entrambi, arrivati in Europa per strade diversissime, si sono trovati a camminare al fianco di chi stava cambiando il mondo.

Roustam Raza nasce a Tbilisi, ma la sua infanzia è spezzata da un rapimento. Venduto in Egitto, diventa Mamelucco di uno sceicco locale, poi dono d'onore per un generale francese che sta conquistando l’Oriente e l’Occidente con la stessa determinazione: Napoleone Bonaparte.

Roustam lo segue ovunque, vestito da esotico cavaliere, silenzioso e sempre presente. Dorme davanti alla sua porta, lo aiuta a vestirsi, lo accompagna in battaglia e in cerimonia, complice e testimone delle sue giornate. Per i parigini è un’icona esotica: con quegli abiti orientali, il turbante e lo sguardo impenetrabile, sembra uscito da una stampa antica.

L’imperatore gli si affeziona, e quando Roustam si innamora di una ragazza francese – Alexandrine, figlia del valletto di Giuseppina – Napoleone benedice l'unione superando i problemi religiosi e mette anche mano al portafoglio imperiale.

Quando l'impero cade, Roustam ha un unico momento di debolezza: nel 1814 Napoleone nel castello di Fontainebleau decide di suicidarsi. Gli chiede le pistole, ma lui si spaventa e scappa a Parigi per raggiungere la moglie. Un abbandono che l'imperatore non gli perdonerà. Neppure quando, fuggito dall'Elba un anno dopo, Roustam lo implorerà di riprenderlo con lui.

Ma 25 anni dopo, nel 1840, il giorno che le ceneri dell’imperatore rientrano a Parigi in un tripudio di memorie e rimpianti, un uomo in abito da Mamelucco si fa largo tra la folla oceanica per far sapere a tutti che lui è ancora lì, al fianco del suo imperatore.

Andrea Aguyar, invece, arriva da Montevideo in Uruguay dove è nato intorno al 1826; di probabili origini africane, conosce Giuseppe Garibaldi durante le campagne militari della Legione Italiana in Uruguay.

Quando il futuro eroe dei due mondi torna in Italia per partecipare alle guerre risorgimentali, Aguyar lo segue, diventando il suo aiutante personale, oltre che un combattente nelle file dei volontari garibaldini.

Il “moro di Garibaldi” è giovane, alto, dotato di grande forza fisica (“un Ercole di colore ebano”), e per il condottiero nizzardo diventa in breve lo scudiero, il compagno fidato e silenzioso. Con lui combatte e si distingue per potenza e abilità (in battaglia prende al lazo e strangola tre francesi), e al suo fianco muore per la libertà di un Paese che non è il suo.

Aguyar viene ucciso durante la difesa della Repubblica Romana del 1849 nella battaglia contro i francesi a Villa Doria Pamphili, colpito alla testa dalla scheggia di una bomba. Garibaldi lo piange come un fratello, e nelle sue memorie tratteggia un ritratto di lealtà assoluta e grande valore umano.

Due vite parallele, due stranieri nel cuore della Storia europea. Uno sopravvissuto al suo mentore, l’altro no. Entrambi restano lì, sullo sfondo delle tele e dei libri, testimoni muti che si sono trovati per uno dei tanti scherzi della storia a camminare accanto ai giganti.

giovedì 7 agosto 2025

802 - AGLIO, MIELE E COCCODRILLO. LE RICETTE DELL'ANTICO EGITTO

 


Lo hanno trovato tra le gambe di una mummia sepolta nella necropoli di Tebe come se anche nell’aldilà il defunto avesse voluto portarsi dietro una farmacia da campo.

E' un rotolo lungo venti metri scritto in ieratico, il corsivo sacro degli scribi, intorno al 1547 avanti Cristo, nel nono anno di regno di Amenhotep I. E' il papiro Ebers, dal nome dello scrittore ed egittologo tedesco che lo acquistò a Luxor nel 1873 da Edwin Smith, un americano trapiantato in Egitto, appassionato di medicina e misteri. Smith a sua volta l'aveva acquisito dopo che per anni era passato per le mani di mercanti e collezionisti

Una rarità, una vera meraviglia. Ma il vero tesoro è dentro, e se ne accorsero già dopo poche righe i traduttori. Oltre 700 formule: rimedi, pozioni, preghiere, diagnosi e superstizioni. Raccontano di come gli egizi affrontavano 3500 anni fa le malattie e il dolore. Vediamone insieme qualcuna.

Il papiro raccomanda l'uso di grasso di gatto per tenere lontani i topi e di cipolla e schiuma di birra come “delizioso rimedio contro la morte”. Il test di gravidanza si fa con orzo e datteri immersi nell’urina: se germinano, la donna è incinta. E il bello è che sottoposto a verifica pare che il test abbia davvero una certa efficacia, almeno nel 70% dei casi.

Contro l'asma si prescrivono inalazioni di fumi di incenso, mirra ed erbe essiccate macinate e bruciate su carboni. Per il mal di stomaco miele, latte e coriandolo. Contro il mal di denti fichi, incenso e pasta di cipolla da applicare sulle gengive. Per la calvizie un unguento di grasso di leone, ippopotamo, coccodrillo, gatto e serpente. Contro la congiuntivite una crema di latte, miele e polvere di lapislazzuli da applicare direttamente sui bulbi oculari.

Per quanto strane ci possano apparire, a queste prescrizioni, gli egizi ci credevano. E qualche intuizione “scientifica” scorrendo il papiro si trova anche. Si scopre ad esempio che avevano capito che il cuore è il centro del sistema circolatorio. Certo, ignoravano le funzioni dei reni, e mille altre cose, ma sapevano che dai vasi partivano sudore, urina, sperma e sangue. E c’è anche la prima descrizione conosciuta del diabete, chiamato “malattia della minzione eccessiva”.

E avevano intuito un'altra cosa sorprendente: che qualcosa, dentro, si può rompere anche nella mente. Nel papiro ci sono accenni sorprendenti alla depressione, alla demenza senile, a dolori dell’anima che non venivano scissi da quelli del corpo.

Il tutto ovviamente intriso di incanto, superstizione e magia, come se la malattia fosse un demone che si insinua nei fluidi vitali, che loro chiamano wekhedu (un concetto che somiglia tanto al Qi cinese), che scorrono invisibili nei canali del corpo. Una visione primitiva ma anche per certi versi poetica, e sicuramente molto umana. Un tentativo di dare ordine al caos del dolore.

Oggi quel papiro dorme tra gli scaffali della biblioteca universitaria di Lipsia. Nessuno più lo legge per curarsi, ma chi lo sfoglia sente ancora l'eco lontano di un'umanità che aveva ancora tutto da scoprire e cercava in modo ingenuo e coraggioso risposte che dessero un senso al tutto. Le soluzioni proposte magari oggi ci fanno sorridere, ma noi dopo 3500 anni quelle risposte mica le abbiamo trovate.


801 - LA FAVOLA DEL VECCHIO SUL RISCIO'


 

C’era una volta un vecchio tiratore di risciò. Che ne dite, può essere un buon inizio per una favola fuori dal tempo?

Diciamo che il vecchio si chiama Bai Fangli, vive in Cina, ed è arrivato a 74 anni lottando contro la miseria in sella al suo risciò, una pedalata dopo l'altra. Sono tanti 60 anni e più a tirare il carrozzino faticando come un mulo, e lui decide di ritirarsi.

Il suo sogno è tornare al villaggio di origine. E riposarsi. Cercherà di campare alla meno peggio con la piccolissima somma, 5000 yuan, meno di mille euro, che si è messo da parte. Così sale sul suo risciò e pedala verso casa, nella provincia dell’Hebei.

Lungo la strada però vede tanti bambini lavorare nei campi sotto il sole, bambini che invece di sfogliare libri e matite impugnano zappe. E lì Bai capisce che il riposo può aspettare. Così torna a Tianjin, la città dove ha sempre tirato il suo pedicab, e si rimette a pedalare.

La schiena è curva ma la volontà è dritta. Vive in una baracca accanto alla ferrovia, dorme poche ore, si nutre di riso e verdure, indossa abiti smessi. Ma ogni yuan guadagnato lo mette da parte.

Per 18 lunghi anni che l'età rende ancora più lunghi non smette mai. Nemmeno quando le gambe tremano. Nemmeno quando il fiato si spezza. Smette solo quando le gambe non lo portano più. Ha quasi novant’anni ed è piegato dalla fatica e dalla vecchiaia. Allora scende dal risciò, consegna l’ultima donazione alla scuola Yaohua e dice agli studenti: “Non posso più lavorare. Mi dispiace.”

Già, perché i soldi che ha guadagnato Bai li ha portati tutti lì. Prima i 5000 yuan della sua “pensione”, poi tutto ciò che ha guadagnato in quei 18 anni, fino all'ultimo centesimo. In tutto 350.000 yuan, più di 50.000 euro, che hanno permesso di studiare a più di 300 studenti poveri.

Ora ve lo posso dire: questa non è una favola. E' una storia vera, straordinaria ma vera. Nel 2005 Bai muore in un ospedale di Tianjin. Lo porta via un cancro ai polmoni. Ha 92 anni e neanche un centesimo.

Lo chiameranno “il nonno dei sogni”. Ma i sogni svaniscono. Quello che resta è la realtà di un uomo che pur non avendo niente, è riuscito comunque a dare tanto. Una pedalata dopo l'altra.



martedì 5 agosto 2025

800 - L'ULTIMATUM SCRITTO COL SANGUE


 

Prima veniva un ufficiale dell'esercito, poi il prete, quindi il notaio. E per ultima la spada. Lo chiamavano Requerimiento, ed era la più surreale e grottesca dichiarazione di guerra della storia. Era la legge che autorizzava Dio a benedire il massacro.

Bastava leggere un proclama, magari davanti a una foresta o a un villaggio già in fiamme, e la coscienza del regno era salva. Una bugia, una grande bugia, strutturata, teologica, giuridica, scritta su pergamena e letta solennemente nel cuore della giungla, magari di notte, magari davanti al nulla.

Sudamerica, prima metà del Cinquecento. Prima di attaccare un villaggio indigeno, i soldati spagnoli sono tenuti – per ordine del re e per grazia del Papa – a leggere ad alta voce un proclama. Un testo astruso, pieno di citazioni bibliche, codici canonici e minacce infernali.

C'è scritto che Dio ha creato il mondo, lo ha dato al Papa, e che il Papa, a sua volta, lo ha affidato al re di Spagna. E quindi agli indios si chiede gentilmente di sottomettersi. Oppure, beh… guerra, fuoco e schiavitù.

Peccato che nessuno, tra gli indigeni, capisca lo spagnolo. Né il concetto di Dio unico, né quello di monarchia, né tanto meno il latino travestito da giurisprudenza regia. E allora succede che i conquistadores lo leggono comunque.

Non importa se non c'è il notaio come prescritto, e nemmeno il prete. Lo legge un soldato, magari mezzo ubriaco, in mezzo alla notte, alla foresta, ai pappagalli. Lo legge anche se il villaggio è deserto. Anche se è già stato dato alle fiamme. Basta che qualcuno possa “aver sentito”, magari un cane.

Lo sanno tutti che è una farsa. Ma serve. Serve ai re per lavarsi la coscienza, alla Chiesa per dire che tutto è stato fatto “in nome di Dio”, ai soldati per sentirsi strumenti della Provvidenza e non semplici macellai.

Era stato Juan López de Palacios Rubios, un giurista, a scriverlo nel 1513: un uomo colto, devoto, zelante. Credeva davvero che si potesse convertire il Nuovo Mondo con le parole. Ma le parole, da sole, sono vento. E il vento non ferma la polvere da sparo.

Il missionario Bartolomé de las Casas, che ha vissuto quelle terre e quei giorni, racconterà il ridicolo della scena: un Requerimiento letto a prigionieri già legati, oppure dal ponte della nave, mentre ancora si veleggia verso la riva. E aggiunge un episodio che non si dimentica: quello del cacicco Hatuey, che rifiuta di convertirsi prima di essere bruciato vivo. E grida con tutto il fiato che gli rimane: “Se quelli che vanno in cielo sono come voi, allora preferisco l’inferno”.

E allora eccolo, il senso del Requerimiento: una giustificazione, un teatro dell’assurdo. Una foglia di fico teologica per coprire la nudità feroce della conquista. Nato per “evitare spargimenti di sangue” non eviterà nulla. I villaggi bruceranno comunque, le persone moriranno comunque, ma a norma di legge, con l'imprimatur del re e del Papa.

Nei secoli poi, alcuni teologi – Francisco de Vitoria, Domingo de Soto – cominceranno a dire che no, non si può imporre il Vangelo con la spada. Che l’uomo ha diritto a non credere, e che la libertà viene prima del battesimo. Parole sacrosante. Ma per gli indios è già troppo tardi.

Sono passati cinque secoli, è roba vecchia, e il mondo è cambiato. O no? Al di là di quel poco che concretamente possiamo capire e fare, ogni giorno a ognuno di noi il mondo chiede di scegliere da che parte stare: con chi legge il copione del potere per quanto assurdo e inumano sia, o con chi, come Hatuey, con le fiamme che gli bruciano intorno riesce ancora a gridare che, carte bollate o no, è tutta una follia. 

La scelta non è facile ma, forse, è giusto farla, se non vogliamo che fra cinquecento anni sui libri di storia si raccontino i nostri requierimentos.


799 - TIERGARTENSTRAẞE 4, LA PALAZZINA DELLA MORTE

 

L'indirizzo è Berlino Tiergartenstraße 4. Un vecchio edificio in una via residenziale percorsa da studenti e ciclisti. In quella villetta si amministrava la morte con carta intestata e calcoli da ragioniere.

Non un campo di concentramento, non un lager. Solo una palazzina come tante con uffici, telefoni, segretarie. In quelle stanze si consumò una delle pagine più oscure del Novecento: il Programma T4.

Autunno del 1939, la guerra è appena cominciata. Ma per molti berlinesi la morte è già in cammino, e senza l'uso di armi. Basta una diagnosi: schizofrenia, epilessia, malformazioni congenite. Basta essere anziani, disabili, apatici, improduttivi. Non servono colpe, solo un corpo imperfetto.

E' in quei giorni che Adolf Hitler firma un decreto per affidare a due collaboratori, il medico Karl Brandt e il burocrate Philipp Bouhler, il compito di “purificare” la razza. La chiamano eutanasia, ma non ha nulla di pietoso. E' un eccidio, due anni prima del primo campo di sterminio.

Gli ospedali psichiatrici cominciano a svuotarsi. Si caricano le persone su autobus dalle finestre oscurate, con l’aria di chi va in gita. Destinazione: centri speciali come Hadamar, Grafeneck, Hartheim.

Lì, medici col camice bianco li accolgono con cortesia, li mettono in fila, li chiudono in stanze camuffate da docce. Il gas letale — monossido di carbonio puro — fa il resto. Poi si spedisce una lettera ai familiari: morte naturale, complicazioni respiratorie, o magari “una forma acuta di appendicite”. Nessuno deve sapere.

Ma qualcuno sa. E qualcuno parla. Nell’agosto del 1941, il vescovo cattolico Clemens von Galen, da Münster, sale sul pulpito e pronuncia un'omelia durissima davanti a centinaia di fedeli. Quattro settimane prima una lettera pastorale diffusa nelle chiese tedesche aveva condannato il programma.

Il sermone viene diffuso clandestinamente, copiato, letto in tutte le chiese. E ha un enorme impatto sull’opinione pubblica, persino tra alcuni membri del partito nazista. La risposta non si fa attendere: in pochissimi giorni in tutta la Germania la Gestapo espropria oltre 300 monasteri, conventi e case religiose. Gli ecclesiastici sono espulsi, a volte arrestati, e le proprietà riconvertite a usi militari o ospedalieri.

Le confische sono giustificate con accuse pretestuose: "attività sovversive", "comportamenti immorali","traffici illegali". L’obiettivo è chiaro: intimidire la Chiesa. E' un braccio di ferro, ma alla fine, apparentemente, i nazisti fanno un passo indietro. Il 24 agosto Hitler sospende ufficialmente il programma. Ma non è la fine. Solo un cambio di metodo.

Le uccisioni continuano, più discrete, più nascoste. Si uccide con fame, freddo, overdose di farmaci. I medici che hanno imparato l’arte della morte silenziosa verranno poi trasferiti nei campi di sterminio: Sobibór, Belzec, Treblinka. L’esperienza accumulata su bambini epilettici e anziani dementi diventerà procedura industriale contro milioni di ebrei.

In totale, si stima che il programma T4 abbia causato la morte di oltre 250.000 persone. Ma non è solo la cifra a pesare. È la logica. L’idea che la vita possa essere pesata, valutata, approvata o scartata in base all’utilità, come si racconta facessero gli spartani duemila anni prima.

Oggi nella strada berlinese c’è una targa con qualche riga di testo e le foto in bianco e nero di uomini cancellati. Alcuni sorridono, altri guardano lontano. Nessuno sa cosa li attende. Nessuno può immaginare che una diagnosi sia una condanna a morte. Accadeva lì, poco più di 80 anni fa, in quella palazzina elegante di Tiergartenstraße 4.



798 - IL VOLTO INCISO NEL TEMPO


 

Un'immagine scolpita duemila anni fa, così perfetta da sembrare un ologramma. Non è solo un anello. È il ricordo di un figlio inciso nella pietra, un gesto silenzioso che ha attraversato il tempo per arrivare fino a noi.

Sotto una collina ai margini di Grottaferrata, la terra ha restituito nel 2000 un segreto antico. L’Ipogeo delle Ghirlande, una tomba intatta con dentro due sarcofagi di marmo, scolpiti con ghirlande di fiori, rivelano i nomi di una madre e di un figlio: Aebutia Quarta e Tito Carvilio Gemello. Lei, una nobildonna; lui, appena un ragazzo.

Sul sarcofago del giovane è incisa la frase “vixit annis XVIII, mensibus III”, visse diciott’anni e tre mesi. Il suo nome completo — Tito Carvilio Gemello — rispetta l’uso romano di affiancare al prenome il nome del padre. La sua morte, come la sua breve vita, restano un enigma.

Sul corpo di Aebutia sono ancora intatte una parrucca di capelli rossi, sottili reticelle d’oro, fragili tracce di latte di capra usate come unguento. Intorno, corone di rose, viole e gigli ostinate a resistere al tempo.

E poi l'anello: un capolavoro. Oro e cristallo di rocca, un minuscolo prodigio di arte romana. Guardandolo di lato, la luce rivela il volto di Carvilio, inciso con tale maestria da sembrare vivo: un “ologramma” antico, un riflesso di dolore e memoria.

L’effetto è stato analizzato anche gemmologicamente: il cristallo è scolpito in modo lenticolare, e la miniatura — scolpita a bulino — rifrange la luce dando al ritratto una profondità sorprendente. Non si conoscono altri esempi simili. È un pezzo unico, irripetibile.

Tra i due sarcofagi, i resti cremati di un terzo corpo, probabilmente un bambino, aggiungono un ulteriore velo di mistero. Gli studi archeometrici delle ceneri umane rivelano temperature tra i 700 e i 900 gradi e l’uso di contenitori organici, scomparsi col tempo.

La presenza di pratiche “non comuni” (imbalsamazione, ghirlande, unguenti), e l’assenza della tradizionale moneta in bocca per Carontea hanno fatto ipotizzare l’influenza di culti orientali o misterici, come quello di Iside.

Se vuoi vedere l'anello di Carvilio, lo trovi esposto al Museo Archeologico di Palestrina. Clicca sul link per visitare il sito del museo con tutte le informazioni:

https://gabiipraeneste.cultura.gov.it/

lunedì 4 agosto 2025

797 - LA MADRE DEL MONTJUÏC


 

Sulla vetta silenziosa del Montjuïc, a Barcellona, dove il mare si intuisce più che vedersi e il vento ha il passo lento dei cortei funebri, c’è una tomba che non ha bisogno di parole.

Nessuna croce, nessun angelo, ma una giovane madre scolpita nel marmo, distesa come in un sonno sereno. Ma se la osservi con più attenzione, ti rendi conto che quella figura femminile è una ferita scolpita nella pietra, la vita che si aggrappa alla morte. La vita è quella del neonato che cerca il calore del corpo della madre, ignaro che lei ormai non respira.

Si chiama *Mare morta en el part*, “Madre morta durante il parto”. La scolpì nel 1928 Josep Campeny i Santamaria, con mani che sembrano aver tremato di dolore più che di ispirazione. Non fu commissionata da nessuno: fu un atto d’amore, o forse di disperazione. La donna si chiamava Isabel Viala de Zaragoza, e morì a ventotto anni dando alla luce il suo primo figlio.

Il bambino visse. Per molti anni. E quando il tempo lo raggiunse, fu sepolto lì, accanto a quella madre che non aveva mai potuto vedere, ma che per lui aveva dato la vita.

Chi ci passa davanti, quasi sempre si ferma, anche solo un istante. Perché quell’opera non urla: sussurra. E sussurra a chi la sa ascoltare che l’amore, quello vero, sopravvive anche alla morte.

domenica 3 agosto 2025

796 - IL PRIMO EMIGRANTE


 

C’era un italiano tra i Padri Fondatori d’America. No, non è una leggenda metropolitana: si chiamava William Paca. Eppure, il suo nome oggi scivola via dai libri di scuola e dalle celebrazioni ufficiali sulla nascita degli Stati Uniti.

Invece, prima di Ellis Island, prima dei bastimenti carichi di speranza e di anime in cerca di riscatto, l’emigrazione italiana aveva già lasciato un segno profondo sulle rive selvagge del Potomac.

Tutto inizia nel 1657, quando Roberto Pace — nato a Carunchio, in provincia di Chieti — salpa per le colonie britanniche. Non è un povero in cerca di fortuna, ma un uomo colto, forse un mercante, forse un dissidente religioso. Cambia nome in Paca e si stabilìsce nel Maryland.

Suo figlio Aquila, nato nelle colonie, diventa una figura leggendaria nel Maryland: primo sceriffo di contea, noto per la fermezza e il senso di giustizia in un’epoca in cui la legge è più spesso un’arma che una tutela.

Ma è il nipote William, nato nel 1740, a entrare nella storia. Studi classici e giurisprudenza a Philadelphia e Londra, diventa uno dei protagonisti della rivoluzione americana. Avvocato, poi delegato al Congresso Continentale, è tra i 56 firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776. Un Padre fondatore. L’unico con radici italiane.

Non basta: Paca è anche tra i primi a denunciare l’ipocrisia della schiavitù in un paese che proclama l’uguaglianza degli uomini. Un tema su cui tornerà solo un secolo dopo Abramo Lincoln.

In quegli stessi giorni Thomas Jefferson viene colpito dalla frase che il filosofo toscano Filippo Mazzei, suo vicino di casa ed amico, ha scritto in italiano in un suo testo del 1774: “Tutti gli uomini per natura sono liberi e indipendenti”. La traduce e la inserisce pari pari nella Dichiarazione di indipendenza, a riprova di quanto l’influenza culturale italiana sia viva in quelle ore turbolente.

Oggi, a Washington, nel giardino silenzioso che onora i Founding fathers, il nome di William Paca è inciso nella pietra. Non è tra i più noti. Ma è lì, tra Franklin e Adams, a testimoniare che la nostra storia di emigrazione non racconta solo di valigie di cartone, di miseria nei vicoli di Little Italy e di mafia, ma anche di cultura, di politica, e di una firma su un foglio che avrebbe dovuto cambiare il mondo.





795 - IL DISERTORE DELLO SPAZIO

 


Avete presente quei film di fantascienza dove un'astronave viaggia nel tempo, e quando secoli dopo l'equipaggio scende sulla Terra trova tutto cambiato? Bene a Sergei Krikalev è successo in poco più di 10 mesi.

Krikalev, cosmonauta dell'Unione Sovietica, lascia la Terra nel maggio del 1991; il mondo è ancora diviso in due blocchi, e lui porta cucita sulla tuta la falce e martello, lo stesso simbolo che sventola sopra il Cremlino. Gli hanno detto che dovrà restare nello spazio 5 mesi, invece resterà lassù 311 giorni.

A bordo della stazione Mir, a 400 chilometri d’altitudine, Krikalev lavora come ingegnere di bordo. Sotto di lui, la Terra ruota e la Storia cambia. I bollettini da Mosca si fanno sempre più vaghi: crisi economica, scioperi, tentativi di golpe, Stati che dichiarano l'indipendenza.

Alla fine arriva la notizia: l’URSS non esiste più. E nemmeno i fondi per riportarlo a casa. Rimangono in orbita a turno vari compagni di missione, e vengono rimpiazzati. Lui no. Lui resta a orbitare. E' troppo esperto per esser sostituito.

Nel frattempo, sulla Terra accade l'incredibile. Il suo nome compare nei registri dell'esercito russo: deve prestare servizio militare come riservista. Non lo trovano. Qualcuno propone di accusarlo di diserzione. Solo dopo controlli incrociati si accorgono che il povero Krikalev non è sul pianeta, e l'accusa cade.

Lo fanno rientrare solo il 25 marzo 1992. Atterra nel gelo del Kazakhstan, magro, pallido e stremato. Era partito da cittadino sovietico, torna nella Federazione russa, aveva lasciato un mondo dove la sua città si chiamava Leningrado, ora è San Pietroburgo. Gli anni successivi lo vedranno tornare nello spazio altre quattro volte, viaggiare con gli americani sullo Shuttle e diventare una leggenda vivente dell’era spaziale.

Ma quelle migliaia di orbite fatte suo malgrado intorno alla Terra, come in quella vecchia gag radiofonica di Alto gradimento in cui il comandante Navarro imprecava e lanciava maledizioni contro il mondo intero, sono il simbolo dell'uomo solo di fronte al passaggio fra due epoche, sospeso nel vuoto della Storia.



794 - PRONTO! SALVATE IL MIO PADRONE

 


Questa è una storia vera. Anche se a raccontarvela sono io, Buddy, un pastore tedesco di 18 mesi. Il mio padrone si chiama Joe; mi ha adottato quando avevo 8 settimane e da allora è il mio migliore amico. Viviamo insieme a Scottsdale, in Arizona.

Io e Joe ci facciamo compagnia, siamo inseparabili. Lui mi ha insegnato praticamente tutto quello che so. Che poi non è tanto: so che sono un cane da assistenza, e che il mio lavoro consiste nel controllare che Joe stia bene.

Perché lui una decina di anni fa, quando era militare, ha picchiato forte la testa in una brutta caduta, e ha iniziato ad avere attacchi con convulsioni fortissime; ogni tanto gli capita ancora, e se nessuno lo aiuta rischia di morire. Ora, non che io possa fare più di tanto. Però ho imparato un trucchetto e, che ci crediate o no, funziona alla grande.

Si gioca così: quando Joe inizia a urlare e cade a terra, io salto sul suo telefono e, con i denti, premo certi pulsanti che ho imparato a riconoscere. L’ultima volta mi ha risposto una voce. “Pronto, qui è il 911, chi parla?”. Io ho iniziato ad abbaiare più forte che potevo.

"Ciao – fa quello - Puoi sentirmi? C'è qualcuno a cui puoi dare il telefono?" e io giù ad abbaiare fortissimo. Non ho più smesso, anzi, quando poco dopo ho sentito gente dietro la porta, ho alzato il volume. Poi la porta è venuta giù, loro sono entrati e hanno portato via Joe. L’ho rivisto due giorni dopo, e stava bene. Mi ha riempito di baci e di carezze. Mi sa che il gioco mi è venuto benino…”.

Questa la storia. Se non credete alle “parole” di un cane, potete ricercare la notizia battuta qualche anno fa dalle più importanti agenzie del mondo. Questo l'articolo uscito il giorno dopo i fatti sullo Scottsdale Independent: “Pastore tedesco salva la vita al suo padrone. Buddy, questo il nome del cane, ha contattato il 911 grazie ai tasti programmati sul telefono del suo padrone, Joe Stalnaker, in preda ad una grave crisi convulsiva. Nella registrazione della chiamata si sentono gemiti e il forte abbaiare del cane, che non smette fino all’arrivo dei soccorsi. L’uomo, ricoverato, ora sta bene. Questa è la terza volta in pochi mesi che Buddy gli salva la vita chiamando i servizi di emergenza”.





793 - LA SUPER DIGA DEI CASTORI

 


In un parco nazionale del Canada, l'Alberta Wood Buffalo, nel bel mezzo della foresta, in un territorio tanto selvaggio da renderne l’accesso estremamente difficile, è stata scoperta una delle più imponenti opere ingegneristiche del pianeta, una struttura lunga 850 metri.

L'ecologista canadese, Jean Thie l'ha individuata nel 2007 grazie a rilevazioni satellitari. Si è chiesto di cosa si trattasse e si è dato una risposta. Ma non ci credeva neanche lui. Così di recente l’area dove sorge l’impressionante struttura è stata osservata da vicino.

La diga si trova in una zona remota del Parco di Wood Buffalo, grande quanto la Svizzera e in gran parte selvaggio. Le prime testimonianze sono arrivate solo con sorvoli aerei e immagini ad alta risoluzione, prima che spedizioni sul campo e biologi riuscissero a studiarla anche in loco (dopo lunghe traversate via elicottero o in barca).

Ed è arrivata la conferma: si tratta di un’enorme diga, 4 volte più lunga ad esempio della maestosa Hoover Dam, vicino a Las Vegas. E l’hanno costruita i castori.

L’incredibile muraglia è fatta con migliaia di rocce e tronchi d’albero, di arbusti e di fango, e sono serviti dai 20 ai 40 anni per realizzarla; il che significa che ci hanno lavorato diverse generazioni di questi animaletti, lunghi 75 centimetri e pesanti meno di 20 chili. La diga ha diverse funzioni per la comunità dei roditori, che in questo caso deve essere assai vasta.

Prima di tutto è il nucleo di un sistema difensivo, che permette di ampliare lo spazio coperto d'acqua attorno alle tane per tenere lontani i predatori e difendersi meglio, visto che il castoro è molto più agile in acqua che sulla terraferma. Il bacino artificiale creato poi diventa una sorta di stagno privato. Insomma, gli “ingegneri dai lunghi denti” si costruiscono l’habitat ideale.

Poi passano le giornate a riparare la diga. E ad ampliarla. Perché non è mica finita qui, l’Alberta Wood Buffalo Dam. I castori, beati loro, quando si tratta di opere pubbliche tengono sempre esposto il cartello “Lavori in corso”e continuano a mantenerla e ampliarla. Di recente la diga è stata inclusa nel Guinness dei Primati come la più lunga diga di castori sul pianeta.

Se volete dare un'occhiata alla diga, cliccate il link:

https://www.youtube.com/watch?v=VluX_hbM09Y



venerdì 1 agosto 2025

792 - IL BIMBO E IL COBRA


 

Una vecchia regola del giornalismo dice che un cane che morde un uomo non fa notizia, un uomo che morde un cane sì. Figuriamoci un bimbo che morde un cobra.

A Mohchi Bankatwa, un pugno di case nella regione del Bihar, in India, il tempo scorre lento, e all’ombra degli alberi o davanti a una tazza di tè speziato da sempre si raccontano storie fantastiche spesso legate a dei ed eroi della mitologia indù. Ma quello che è successo il 24 luglio 2025 ha scosso il villaggio e in pochi giorni è diventato leggenda, richiamando l'attenzione dei media di tutto il mondo

Il 24 luglio è un giovedì e Govind Kumar, un bambino di un anno, sta giocando a pochi passi da casa, mentre la madre zappa il terreno poco distante. La tranquillità viene interrotta dalla silenziosa apparizione di un serpente, un cobra indiano “naja naja”, fra i rettili più temuti al mondo: il suo morso non lascia scampo, spegne una vita in pochi minuti.

La nonna, Matisari Devi, racconta con la voce incrinata quello che è accaduto dopo: “Pensavamo stesse giocando con un ramo. Poi abbiamo visto il corpo del serpente penzolare dalla sua bocca”. Govind, istintivamente o forse solo con l'incoscienza dei neonati che portano tutto alla bocca, ha afferrato il cobra e lo ha morso con forza, tanto da spezzargli la colonna vertebrale.

Quando i familiari accorrono il serpente è già morto. Fra incredulità, ribrezzo e tanta paura la mamma abbraccia Govind, che però le sviene fra le braccia. Lo portano d’urgenza al Government Medical College di Bettiah. Il dottor Kumar Saurabh, il medico che lo prende in cura, racconterà di aver dubitato inizialmente della storia. “Abbiamo pensato fosse il bambino ad esser stato morso. Ma non c’erano segni. I fatti parlavano chiaro: il racconto dei familiari era vero”.

Govind però non sta bene, il suo volto gonfio fa pensare a un’intossicazione. Ma i test non rilevano tracce di veleno nel sangue. La spiegazione arriva dalla biochimica: se un serpente morde un umano, il veleno entra nel sangue. Ma se un umano morde un serpente, il veleno – ammesso che passi – va nello stomaco, dove l’acido gastrico lo neutralizza, a meno che ci siano ferite interne.

Il gonfiore al volto svanisce in poche ore; la probabile causa, si legge nella diagnosi, sarebbe stata il contatto con il veleno nella bocca, o una reazione locale. Dopo 48 ore in osservazione, Govind torna a casa, sano e sorridente, in braccio alla madre, che ora non lo lascia più un istante.

In India, dove sacro e naturale si confondono, qualcuno ha già iniziato a chiamarlo “il bambino del destino”, Govind è diventato un eroe locale, e intorno alla storia vera sono già iniziate a circolare storie leggendarie da raccontare davanti a una tazza di tè speziato.

Mi è tornato in mente un piccolo mausoleo che scoprii per caso qualche anno fa a Chotila, nel Rajahstan. Si chiama Bullet baba temple e conserva in una grande teca solo una vecchia moto, una Royal Enfield Bullet 350 cc, sempre circondata da devoti in preghiera.

Il motivo della venerazione? Nel 1988, si narra, dopo un incidente mortale la moto, ovunque venisse portata, tornava sempre lì, guidata da un motociclista fantasma. Chissà come sono andate le cose in quel caso? Ma questa è un'altra storia, e ve la racconto un'altra volta.



812 - L'AQUILA E IL LEONE

  “ Fatti non foste a viver come bruti”: Dante spinge Ulisse oltre le Colonne d'Ercole, ed è subito mistero, ignoto, poesia....